Patrick Mofiano, Nel caffè della gioventù perduta, Einaudi, Torino 2010 p. 14
lunedì 13 ottobre 2014
Autunno
Non ho mai pensato all'autunno come a una stagione triste. Le foglie morte e le giornate che si fanno via via più corte non mi hanno mai evocato la fine di qualcosa, piuttosto l'attesa del futuro. C'è elettricità nell'aria di Parigi, le sere di ottobre al calare della notte. Anche quando piove. in quei momenti non provo malinconia , né la sensazione del tempo che passa. Tutto mi pare possibile. L'anno ha inizio con il mese di ottobre. Riaprono le scuole ed è, credo, la stagione dei progetti. Quindi, se lei è venuta al Condé in ottobre, è sicuro che aveva chiuso con tutta una parte della sua vita e voleva fare quello che nei romanzi si chiama: CAMBIARE PELLE.
venerdì 9 maggio 2014
domenica 4 maggio 2014
Ci sono dei legami scintillanti fra le cose sotterranee - La luce del mondo (Christian Bobin)
Franz Hals (1580-1666)
link per diritti foto http://www.flickriver.com/photos/menesje/sets/72157607733217813/
Con
il ritratto di un bambino sorridente di Frans Hals, dipinto nel 1615, scopro
quello che ho vissuto nel 1985 con tutta una schiera di bambini. Una persona
morta tre secoli fa mi rivela ciò che di me vibra ancora nel momento in cui vi
parlo. Ciò mi piace, perché dice una cosa del tempo: che non è ordinato come si
crede. C’è dunque una bellissima solidarietà fra vivi e morti. Ci sono
solidarietà invisibili che bruciano tutte le pagine dei calendari. Una tortora
su un albero parlerà di un pittore morto che, a sua volta, mi parlerà della
luce che entra dalla finestra della mia stanza. Ci sono dei legami scintillanti
fra le cose sotterranee.
Nel
caso della pittura, oggetto della nostra attenzione, è raro dipingere dei
bambini senza cadere nello sdolcinato. Il volto di quel bambino è un volto e
nello stesso tempo è un cuore cresciuto all’aria aperta. Quelle luci brune e
ocra non cercano di far colpo. Sono molto vicine all’argilla di cui parla la
Bibbia, in cui scorre l’alito per arrivare agli imbecilli come noi. Forse un
vero artista è sempre moralista, nel senso pascaliano della parola. È il bene
che viene cercato con avidità, e allora la bellezza giunge inevitabilmente,
come una piccola carretta fissata a una più grande, che va tutta birra, come
dice ancora Francis Thompson : “Come una ricompensa accidentale”
-
tratto da La luce del mondo di Christian Bobin
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venerdì 2 maggio 2014
LA LETTERATURA ETERNA - Christian Bobin
foto di Edouard Boubat
La
letteratura eterna è la più antica medicina del mondo. È anteriore alla scrittura. Prima di
depositarsi su tavolette di argilla, ha purificato delle voci, ha placato delle
anime. Essa continua a farlo ogni volta che una madre si china sul suo bambino
intorpidito dalla stanchezza, e racconta una storia, canta una canzone.
tratto da Autoritratto di Christian Bobin (AnimaMundi Edizioni)
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SPOSERO' BERLUSCONI di Nicola Cinquetti
“Volevo raccontare le storie degli antichi
filosofi ne è uscita una storia d’amore. Era il 2009: l’amore ai tempi di
Berlusconi”. Così Nicola Cinquetti riguardo al suo romanzo Sposerò Berlusconi, edito da Rizzoli nella collana rivolta ai giovani
lettori. Già dalla frase di Salinger in esergo (“Il guaio è che a me piace
quando uno va fuori tema”), si intuisce che la storia d’amore che ci viene
raccontata, con garbo e ironia, altro non è che un’occasione per raccontare le incessanti
divagazioni che animano la mente svagata e sognatrice di Noè, il quindicenne iscritto
in prima liceo scientifico, protagonista del romanzo. Ma forse è anche il
pretesto per l’autore di seminare spunti di saggezza e di ironia, per invitare
il lettore giovane e meno giovane a riflettere, con grazia e leggerezza, sulla
vita. Senza pretese. Non è quindi un romanzo sul Presidente del consiglio! ma un
vero e proprio romanzo di formazione, pur se breve, come si potrà vedere dal
finale della storia che qui, ovviamente, non abbiamo nessuna intenzione di rivelare.
Noè è un grande sognatore, timido, goffo e di
poche parole che ha tre grandi passioni: Charlie Brown, le sorprese degli
ovetti Kinder – di cui un po’ si vergogna perché fuori età - e la filosofia che
ha scoperto in terza media grazie a un libricino Le storie dei filosofi e alle discussioni nate nell’ora di religione.
Conduce una vita abbastanza agiata. Abita con la madre, molto apprensiva, non
conosce il padre, non l’ha mia visto: non sa nemmeno che faccia abbia. Un
grande vuoto che ha generato, nella sua vita scolastica, sempre forti imbarazzi:
dalla maestra che gli fa preparare il lavoretto per la festa del papà, al tema
sul papà richiesto da una supplente della scuola media fino alla professoressa
del liceo che gli domanda lumi sulla professione paterna. Un’assenza
generatrice di un tabù: ogni volta che Noè prova ad affrontare l’argomento con
la madre si scontra con un muro di silenzio. Un papà mai esistito sostituito,
per il tempo che ha potuto, dal nonno materno. Un cugino più grande, Ugo, che
ogni tanto lo passa a trovare, con cui fa grandi chiacchierate su Dio, i draghi
o le diverse modalità di sepoltura. Con lui, non si sente un idiota. Noè sa di
non godere – nel mondo degli adulti, ma non solo - di una buona considerazione:
“Non è mica stupido”, “Mah, cosa vuoi farci… è un po’ perso… vive in un mondo
tutto suo…” e sa anche che i grandi mal sopportano la sua “abitudine di
immaginare e di sognare”. La madre, per questa ragione, lo porta spesso dal
dottor S. che gli prescrive una serie di preziosissime fiale omeopatiche. In
classe, guarda sempre fuori dalla finestra perdendosi in fantasticherie: è
attratto dalla grande statua dell’angelo posta all’ingresso del cimitero e non
dalle compagne di classe. Ma un giorno, inaspettatamente, la sua attenzione
viene distratta dalla voce di Arianna: “Mi voltai. La vidi mentre parlava dal
fondo dell’aula, in piedi, la testa alta e lo sguardo fermo sul professore “.
Ma la bella ragazza dai capelli ondulati, che ricordano quelli dell’angelo, pare
non accorgersi del nostro “eroe” che porta questo strano nome e che desidererebbe
tanto chiamarsi Alessandro, Andrea, Marco ma sa che Noè l’ha di fatto salvato
dalle acque profonde dell’anonimato.
Sposerò
Berlusconi è la storia di un innamoramento raccontata in prima
persona dalla voce di Noè, vero flâneur
de l’esprit, intercalata – a tratti - da aneddoti della vita dei filosofi:
Zenone di Cizio, Cratete, il suo discepolo Metrocle, Empedocle d’Agrigento,
Diogene, Eraclito, Pitagora, Anassagora.
“Talete di Mileto, il primo filosofo, se ne
uscì una notte a studiare il cielo limpido, gremito di stelle. E mentre il cielo
trascinava in alto il suo sguardo, precipitò in un pozzo” come il nostro eroe
che ama vagare e divagare attraverso le proprie fantasticherie amorose e non si
accorge di dove mette i piedi quando decide di fare un bel regalo alla sua
amata Arianna. Ma per scoprirlo, bisognerà inseguirlo nei suoi 103 passi, cioè
nelle pagine del bel romanzo di Cinquetti.
recensione di Maddalena Cavalleri pubblicata su Verona Fedele nel 2010
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domenica 27 aprile 2014
LA MIA PENNA E' ASPRA - ANNA MARIA ORTESE
Io soffro di un disgusto
del mondo moderno, che sta diventando, temo, malattia, e malinconia insanabile,
e si traduce, nella vita quotidiana, in scontrosità e insuccesso […] Vorrei
scrivere soltanto cose dolcissime, ma ho dovuto difendermi, e ora la mia penna
è aspra, risentita. Appena posso, però, scrivo anch’io delle cose lievi.
Apparizione
e visione. Vita e opere di
Anna Maria Ortese.
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sabato 26 aprile 2014
RITI DI PASSAGGIO - MARGUERITE YOURCENAR
Alcuni suoi personaggi, in particolare suo nonno, compiono dei “riti di passaggio”. Che cosa intende con questo, qual è l’importanza di questi passaggi iniziatici in una vita?
C’è per tutti continuamente, una serie di passaggi iniziatici. Ogni accidente, ogni incidente, ogni gioia e ogni sofferenza sono un’ iniziazione. E anche la lettura di un bel libro può esserlo, e la vista di un paesaggio stupendo. Ma poca gente è abbastanza attenta o concentrata da rendersene conto. Tranne, credo, a modo loro, le persone molto "semplici", o supposte tali.
M. YOURCENAR, Ad occhi aperti
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RITI DI PASSAGGIO
Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978)
Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978), racconta, attraverso alcune testimonianze dirette, la storia di migliaia di italiani che hanno vissuto, sulla loro pelle, la tragedia della Jugoslavizzazione delle terre d’Istria, di Fiume e Dalmazia, a seguito della 2^ Guerra Mondiale. Il lavoro di Bernas, giornalista italiano di origine polacca, è preziosissimo perché aiuta a districare una matassa di vite ferite, molto complessa da un punto di vista storico e politico. Il libro è presentato da una prefazione di Walter Veltroni e da un’introduzione storica dove lo stesso Bernas chiarisce che “questo non vuole essere un libro di storia, semmai un insieme di testimonianze capaci di ricostruire nella loro complessità i fatti, le sofferenze e le opposte ragioni che portarono un popolo con lingua, usi e tradizioni comuni a dividersi“. La scrittura di Barnes fa risuonare, sena alcuna retorica, le voci delle persone che raccontano l’esodo, o l’essere rimasti minoranza, stranieri nella loro terra, le stragi, i massacri, le foibe, le torture subite nei vari campi di concentramento jugoslavi, tra cui quello di Goli Otok, e molto altro ancora. Il tratto che accomuna tutte queste persone è l’essere stati italiani in una terra che italiana non è più stata.
Il libro si divide in quattro parti. La prima raccoglie le testimonianze degli “esuli” o dei “rimasti” nella costa occidentale dell’Istria: Buie, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Dignano. Nella seconda parte, ascoltiamo gli “esuli” e i “rimasti” a Pola, dove il 18 agosto 1946 è avvenuta la strage di Vergarolla da parte dei servizi segreti jugoslavi: “il culmine del terrorismo, il punto di non ritorno che ha spinto i polesani a optare per l’esilio, certi che la loro condizione, con l’ormai imminente occupazione slava, sarebbe solo potuta peggiorare”. In questa parte ascoltiamo ancora le voci di altri “rimasti”, nella costa orientale istriana, ad Albona, o a Fianona. Mentre nella quarta e ultima parte, troviamo le storie, forse, meno note, dei titini italiani e degli italiani del controesodo, comunisti convinti.
Nonostante il muro di Berlino sia caduto nel 1989, queste storie non sono ancora affrancate dall’ideologia. Lo si vede dalle diverse reazioni che sta suscitando lo spettacolo, tratto da questo libro, del cantautore romano Simone Cristicchi, Magazzino 18. Un’opera che riceve, insieme a una critica entusiasta e commossa, la scomunica dell’Associazione dei Partigiani Italiani unita però alla difesa di un deputato del PD, figlio di un partigiano. Ci auguriamo comunque di vedere presto a Verona Magazzino 18 che sicuramente ci può aiutare ad uscire da questa impasse ideologica che sembra riproporre pari pari quel passato che ci racconta Claudio Ugussi, un “rimasto”, pittore e scrittore di Buie nato a Pola:, “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (...) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.” E tra loro, ci sono stati anche i comunisti in buona fede che hanno visto crollare gli ideali cui avevano dedicato la vita, o perlomeno la loro giovinezza. Così Myriam Andreatini, esule con tutta la famiglia, racconta dello zio Giovanni, ateo e socialista, rimasto a Pola per costruire la Pola Jugoslava: “solo dopo alcuni anni, nel 1951, si decise a scrivere una lettera alla nonna. Con gli occhi chiusi, la nonna ascoltava in religioso silenzio le parole che le leggevo del figlio rimasto. Allo zio Giovanni il mondo era crollato addosso. Tutti i suoi ideali erano andati distrutti. Il 1° maggio invece di festeggiare il giorno dei lavoratori andava nell’unica chiesa dove era rimasto un sacerdote, quella dedicata alla Madonna del mare, per confessarsi e fare la prima comunione. Morì poco dopo, nel 1953, solo e deluso nella sua Pola.”
recensione di Maddalena Cavalleri
(pubblicata su Verona Fedele nel febbraio 2014)MAGAZZINO 18 - SIMONE CRISTICCHI
In un Teatro Nuovo gremito, Simone Cristicchi ha presentato il suo musical civile, Magazzino 18, grazie all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che ha voluto offrire lo spettacolo a tutti i suoi soci, ai loro familiari e alla cittadinanza di Verona. Un modo nuovo e forte per celebrare la Giornata del Ricordo, istituita dieci anni fa per ricordare le vittime dei massacri delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 assegnava alla Jugoslavia l’Istria e buona parte della Venezia Giulia, ponendo gli italiani, che abitavano quelle terre, di fronte a una scelta forzata di andare o di restare. In circa trecentocinquantamila decisero di partire e molti, nella speranza di poter presto tornare, lasciarono le loro masserizie nei magazzini del Porto Vecchio di Trieste. “Oggi il Magazzino 18 è un cimitero di oggetti dove riposa, non in pace, la vita quotidiana di migliaia di esuli”. Un “cimitero” riportato in vita grazie alla magia del teatro dove l’artista, per raccontare questa tragedia, fa dialogare tra loro il presente e il passato grazie a due personaggi impersonati da lui stesso: l’archivista Persichetti e lo spirito delle masserizie. L’umile funzionario romano, un po’ faceto un po' burocrate, inviato da Roma per fare l’inventario degli oggetti del magazzino, dà voce all’inconsapevole ignoranza popolare che nulla conosce della tragedia istriana. Mentre la voce lirica dello spirito delle masserizie cerca di aiutare l’ignaro archivista a prendere coscienza della tragedia che si è consumata in queste terre, facendo rivivere gli oggetti legati alle tante storie di donne, uomini, vecchi e bambini: dal sopravvissuto alle foibe alla piccola Marinella morta di freddo in uno dei campi profughi allestiti dall’Italia, per accogliere gli esuli d’Istria. In questo viaggio nella storia perduta, Persichetti, e lo spettatore con lui, vivono una vera e propria catarsi che porta ciascuno verso una coscienza collettiva più consapevole, pacificatrice delle ferite ancora aperte della nostra storia. Una coscienza collettiva che anziché seguire le ideologie e i luoghi comuni di tanti “sapientoni”, ha l’umiltà di ascoltare una ad una le storie di coloro che hanno vissuto e pagato, a diverso titolo, per questa tragedia. Alla fine di questo viaggio nella memoria, il semplice, onesto e diligente Persichetti decide sì di archiviare tutto, tranne una pratica “che ne vale però trecentomila”. Vuole rispondere alla signora Biasiol, figlia di esuli istriani, che chiedeva notizie degli oggetti appartenuti ai propri genitori. Una delle tante lettere rimaste senza risposta. Così l’archivista, rammaricandosi per il ritardo, decide di rispondere a nome e per conto del ministero degli Interni della Repubblica, pregando la signora di accettare “le nostre più sentite scuse”. Lo spettacolo si chiude sulle note di una canzone che alterna recitativo e musica scandendo un nome e una storia per ogni sedia: simbolo di una quotidianità spezzata e spazzata via perché “Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / “Non dimenticare”…
Nonostante Cristicchi sia stato accusato di revisionismo e che il suo spettacolo sia stato addirittura interrotto (non a Verona) da giovani contestatori, l’artista cerca di raccontare l’esodo istriano creando le condizioni culturali perché "ognuno scenda a patti co’ li scheletri ne l’armadi sua”. Cristicchi, sfruttando al massimo la magia del teatro, riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore grazie a un’alternanza continua ed equilibrata tra narrazione storica e lirica, ora impetuosa, ora leggera, cadenzata da musica, cori di voci bianche, monologhi struggenti o esplosivi come le canzoni che si succedono, il tutto accompagnato da foto e filmati di repertorio. Tanta l’emozione in sala: il pubblico, commosso, si è alzato per applaudire Simone Cristicchi, il coro delle voci bianche e gli artisti che hanno contribuito alla riuscita dello spettacolo (Jan Bernas, il regista Antonio Calenda). Un gesto per esprimere tutta la gratitudine per la memoria finalmente ritrovata.
Nonostante Cristicchi sia stato accusato di revisionismo e che il suo spettacolo sia stato addirittura interrotto (non a Verona) da giovani contestatori, l’artista cerca di raccontare l’esodo istriano creando le condizioni culturali perché "ognuno scenda a patti co’ li scheletri ne l’armadi sua”. Cristicchi, sfruttando al massimo la magia del teatro, riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore grazie a un’alternanza continua ed equilibrata tra narrazione storica e lirica, ora impetuosa, ora leggera, cadenzata da musica, cori di voci bianche, monologhi struggenti o esplosivi come le canzoni che si succedono, il tutto accompagnato da foto e filmati di repertorio. Tanta l’emozione in sala: il pubblico, commosso, si è alzato per applaudire Simone Cristicchi, il coro delle voci bianche e gli artisti che hanno contribuito alla riuscita dello spettacolo (Jan Bernas, il regista Antonio Calenda). Un gesto per esprimere tutta la gratitudine per la memoria finalmente ritrovata.
di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata su Verona Fedele a febbraio 2014)
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L'ALTRA FACCIA di Christian Bobin (L'autre visage)
Ognuno
di noi, a seconda dei periodi della vita e delle età, può scegliere di cosa
nutrirsi. Esistono livres de chevet
che accompagnano, soprattutto in alcuni momenti della vita. “Un vero scrittore
è qualcuno che viene a casa mia e che scosta dal mio tavolo le cose che mi
impedivano di vedere” – è una delle tante definizioni di scrittore che troviamo
nella sterminata produzione di Christian Bobin, scrittore francese
contemporaneo, ancora poco conosciuto in Italia dove, però, ha un pubblico di
fedelissimi. Solo una minima parte della sua cospicua produzione letteraria è stata,
a tutt’oggi, tradotta da noi: le Edizioni San Paolo, Qiqajon, Gribaudi,
Servitium ma anche piccoli editori laici come Archinto, Perosini, Camelopardus
hanno cercato di diffondere la sua opera. Ma è la casa editrice Servitium che,
in questi ultimi anni, sta facendo lo sforzo di offrirci, a scadenza quasi annuale,
piccoli sorsi bobiniani. L’ultimo in ordine di apparizione è il libriccino L’altra faccia (Servitium 2010): una
breve meditazione poetica o forse una sorta di racconto filosofico, piacevole
da leggere e da meditare, nulla di pesante o complicato.
Brevi
frasi, riflessioni, aforismi si intercalano agli spazi bianchi che sono lì a
ricordarci le pause della scrittura e della vita, come quando ci parla dei suoi stati d’animo, tanto comuni e frequenti nella vita di ciascuno di noi: Tristezza e stanchezza: un solo mantello,
con il suo rovescio, con il suo dritto. / Tristezza – la stanchezza che entra
nell’anima. / Stanchezza – la tristezza che entra nella carne.
Chez nous è l’incipit di ogni capitoletto. Chez
nous, che vuol dire “da noi” ovvero nel nostro mondo, accade che… e così l’amore,
la legge, la storia, il tempo, la morte scorrono tra le pagine in brevi massime
illuminanti e provocazioni leggere che ci restituiscono in filigrana, il nostro
mondo - in un contro canto continuo. Come
quando leggiamo: Da voi il tempo si
accumula – e poi appassisce./ Da noi il tempo si perde – e poi fiorisce.
L’altra faccia sembra raccontare, in 43
paginette, la storia di un popolo felice in contrapposizione con l’altra faccia, ovvero l’altro mondo: il
nostro - che ci viene restituito nella sua verità.
La scelta editoriale di
Servitium si è concentrata più sulle opere brevi di Bobin: si tratta di veri e
propri libriccini pieni di scintille di luce i cui titoli ci indicano già la
via del silenzio e della meditazione: Il
distacco dal mondo (Servitium 2005); Elogio
del nulla (Servitium 2005); L’equilibrista
(Servitium 2005); Consumazione
(Servitium 2006), La parte mancante
(Servitium, 2007), L’ottavo giorno
(Servitium 2008).
Essi danno anche ragione del
carattere di Bobin: un uomo schivo, appartato, lontano dalle luci della
ribalta: “un eremita”, “un mistico in comunione con la natura”, “l’apostolo del
dettaglio”, “l’innamorato del filo d’erba” – sono alcune definizioni della
critica d’oltralpe. Immagini che danno appena un’idea del mondo che ci viene
incontro quando conversiamo con Bobin. Perché per parlare di lui è necessario parlare con
lui: riportare la sua voce e accordare la nostra alla sua fino all’unisono.
Consigliando questo libro mi
vengono in mente le parole di Bobin quando dice – nella Luce del Mondo (Gribaudi 2001)“La vita dei libri e della gente è
molto personale. Non si può indurre qualcuno a una lettura dicendogli: ‘Leggi,
vedrai, è magnifico’, né ad un’amicizia dicendogli: ‘dovresti frequentare quel
tale, è un tipo formidabile’. Non funziona mai così. Bisogna trovare se stessi.
Da bambino, non volevo che mi si imponesse cosa dovevo fare e leggere. Il vero
può solo passare da se stessi”.
Chissà… solo per questo, forse,
vale la pena di leggere Christian Bobin.
di Maddalena Cavalleri
(recensione apparsa sul settimanale Verona Fedele diversi anni fa)
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Il Medio Oriente cristiano di Antonio Picasso (2010)
“Il
cristianesimo mediorientale è un mosaico che, osservato da lontano, appare
uniforme. A mano a mano che ci si avvicina, però, i singoli tasselli emergono e
si profilano nella loro singolarità, con una forma, una misura e un colore del
tutto unici”. Ci aiuta ad osservare questo mosaico Antonio
Picasso, viaggiatore-giornalista che con rispetto e curiosità tutta laica, ci
propone questo reportage tra i
cristiani nel cuore della mezza luna fertile. Il Medio Oriente cristiano (ed. Cooper, 2010) presenta otto capitoli
scritti con chiarezza divulgativa che hanno il pregio di attraversare le
diverse comunità sparse nelle terre dove è nato e si è poi diffuso il cristianesimo.
Il viaggio inizia davanti alla chiesa del Santo Sepolcro, con una domanda tutta
politica che il generale israeliano Moshe Dayan rivolge ai suoi soldati, nuovi
conquistatori di Gerusalemme (Guerra dei sei giorni): “E ora cosa ci facciamo
con tutto questo Vaticano?”.
Il viaggio, dopo una breve introduzione storico
politica delle guerre che si sono succedute nel tempo per la conquista di
Gerusalemme, procede nel suq della città vecchia, per continuare a Betlemme e a
Nazareth, attraverso Israele, i Territori Occupati e la striscia di Gaza dove
però l’autore non ha avuto il permesso di entrare. Egli riesce comunque a raccontarci
come vivono i cristiani grazie alla testimonianza di Padre Mudros e dello
stesso patriarca latino Twal Fouad.
In questo cammino, incontriamo anche i
cristiani della Giordania, del Libano, della Siria, dell’ Egitto, dell’Iraq e
della Turchia. Di ogni chiesa cristiana, ascoltiamo la storia, o meglio il
dramma, direttamente dalla voce delle loro guide spirituali.
Pregevole lo sforzo di fornire al lettore delle
chiavi di lettura interpretative dando il quadro storico politico e religioso
in cui vive ogni comunità. Difficile, infatti, prescindere dalla politica: sia quella giocata
dalle grandi potenze europee nel grande “Risiko” di inizio secolo sia quella
dei singoli stati, ieri come oggi.
Tuttavia la lettura scorre piacevolmente mentre
l’autore ci conduce nelle diverse realtà con rispetto e a tratti con poesia.
Come quando a Istanbul rimane incantato ad ascoltare una mamma assira fuggita
dal Kurdistan iracheno mentre recita il rosario in una lingua incomprensibile:
“non è arabo con la sua scorrevole dolcezza, cadenzata da suoni gutturali. E
tanto meno turco, fatto di vocali strette costellato da dieresi continue.” E’
il sureth una forma moderna di aramaico. L’Iraq, dove il cristianesimo
attecchisce già nel I sec. d.C., serba ancora questi tesori nonostante tutti i pogrom
vissuti dai cristiani. Ma al di là della poesia, la testimonianza di monsignor
Sleiman denuncia la situazione drammatica che vivono i cristiani in questa
terra martoriata.
Purtroppo la diaspora cristiana attraversa
tutto il Medio Oriente. Unica eccezione sembrano essere la Siria e, in tono
minore, la Giordania dove i cristiani sono inseriti nella pubblica
amministrazione e dove re Abdallah nel 2001 ha proclamato il 25 dicembre e il
1° gennaio feste nazionali alla pari di quelle islamiche.
“Ad
Aleppo e a Damasco – dice Padre Selim di Nazareth - la vita è diversa, ecco
forse lì i miei confratelli sono più poveri, oppure legati a un sistema
politico meno democratico di quello israeliano. Chiedetevi però, voi occidentali,
per quale motivo da Israele alla Palestina si fugga e non invece dalla Siria”.
Le chiese cristiane divengono agli occhi del
viaggiatore come tante nebulose: frammentate, sparse qui e là, sempre più
vittime di una situazione politica che sta provocando una diaspora
inarrestabile. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, ci
restituisce, a questo proposito, una realtà pesante da accettare:“Con le divisioni che ci caratterizzano, la
povertà e le persecuzioni di cui siamo vittime, il nostro peso è nullo. Da anni
poi la situazione ha provocato un’ondata migratoria, per cui i cristiani che
abitano in Terra santa si sono ridotti all’1% della popolazione. Cosa possono fare
quando sono così in pochi?”.
In aumento sono i matrimoni misti tra fedeli
delle diverse chiese cristiane: la base delle parrocchie sembra agire con
maggior ragionevolezza rispetto alle loro guide spirituali, ancora divise.
Ma i capitoli che forse attirano maggiormente
l’ attenzione del lettore sono quelli dedicati alle chiese protestanti, al cui
interno esiste una grandissima differenza di prospettiva nei confronti del
Medio Oriente.
Il Kaiser Guglielmo II e poco dopo il generale
Allenby entrano a Gerusalemme attraverso la Porta di Giaffa con stili e
politiche diverse. La chiesa luterana e anglicana da allora iniziano a
radicarsi nel territorio cercando di rispettare la popolazione nella loro
identità. Ma è la chiesa evangelica statunitense, o meglio le sue miriadi di
“nebulose” che stanno portando tra gli arabi cristiani maggior scompiglio.
Questi “Sionisti cristiani” a differenza dei protestanti di origine europea,
sono animati da un forte e autentico spirito evangelico, “appesantito da una
forte componente politica” in quanto appoggiano apertamente la politica
espansionistica dello Stato di Israele in contrasto e netta opposizione con le
altre chiese e congregazioni protestanti (anglicani, calvinisti, luterani,
metodisti etc..) i cui fedeli sono arabi.
Essere cristiani in Medio Oriente sta
diventando sempre più difficile: il fondamentalismo islamico, il conflitto
israelo-palestinese stanno rendendo sempre più difficile la vita dei cristiani.
I giovani, grazie agli ottimi studi offerti dalle stesse scuole cristiane,
scelgono di andare all’estero per darsi migliori opportunità di vita.
Il
Medio oriente cristiano porta fino a noi questa diaspora
silenziosa insieme a un salmodiare di donne.
“A
fianco della donna irachena – in una chiesetta di Istanbul - una ragazza prega
a voce più bassa, poi c’è un’anziana e infine una una signora di età
imprecisabile. Sono rispettivamente un’araba della Siria – quindi melchita –
un’anziana armena con gli occhi azzurri e luccicanti, e una signora turca… Nel
salmodiare, ognuna segue il suo cammino. La prima prega in arabo, la seconda in
armeno, l’ultima in turco”
di Maddalena Cavalleri
(la recensione è stata pubblicata da Verona Fedele diversi anni fa)
di Maddalena Cavalleri
(la recensione è stata pubblicata da Verona Fedele diversi anni fa)
NOI CREDEVAMO di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985)
Noi
credevamo di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985),
pubblicato nel 1967, torna ora nelle librerie grazie al recente film omonimo di
Mario Martone, uscito in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia
(lo ristampa Mondadori, negli “Oscar”). Scopriamo così una grande scrittrice
ingiustamente dimenticata, dalla prosa raffinata, che ha saputo restituirci, con
grande onestà intellettuale, una parte della nostra storia risorgimentale.
Il
Risorgimento scritto con rabbia, titola la postfazione di Enzo
Siciliano che accompagna la presente edizione (si tratta di un saggio uscito
nel 1967 su “L’Espresso”). Noi, invece, preferiremmo parlare di un Risorgimento
scritto con lucidità e senza retorica. Un Risorgimento raccontato dal punto di
vista di un settantenne galantuomo calabrese di fede repubblicana che vede
svanire, giorno dopo giorno, la realizzazione degli ideali democratici ai quali
ha sacrificato un’intera vita. Ferite ancora aperte di un’Unità che fa ancora
discutere. Un bellissimo romanzo (ignorato non solo dall’editoria italiana ma,
ahimè, anche dai programmi scolastici) che ci può aiutare a ripercorrere alcune
vicende risorgimentali senza l’enfasi del mito ma con la consapevolezza che
sempre le grandi rivoluzioni portano con sé, irrimediabilmente, un senso di
delusione e di fallimento: la giustizia degli uomini reca in sé luci e ombre.
“Il mondo è uguale a come l’ho trovato nascendo,
sordo e falso. – scrive don Domenico, voce narrante del romanzo, alla fine delle sue memorie - Tanto dire che
ho vissuto e sofferto invano. Non saprò mai se agendo diversamente, con più
accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle
idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza”.
La
Banti scrive la storia in prima persona attraverso la voce di Domenico
Lopresti. Egli inizia e conclude il racconto delle sue memorie, a Torino, in un anno (giugno 1883-1884), attraverso un
gioco di flash-back ben strutturato:
vecchiaia, maturità, giovinezza, adolescenza e infanzia scorrono in un
flusso continuo di rimandi tra le diverse stagioni della vita. Un’esistenza
avventurosa, la sua: dall’iscrizione alla Setta dei Figlioli della Giovine
Italia alle cospirazioni segrete, fino all’arresto e al processo; i quasi
dodici anni trascorsi nelle dure carceri borboniche; la sua liberazione
rocambolesca in coincidenza con lo
sbarco dei Mille. Nonostante gli anni della dura prigionia, don Domenico
continua a combattere e a inseguire i propri ideali democratici, benché la
realtà gli mostri un mondo colmo di ingiustizie nel quale coloro che hanno i
loro privilegi fanno di tutto per continuare a tenerseli, rinnegando, se
necessario, gli ideali di giustizia e libertà. Il protagonista partecipa anche alla
battaglia dell’Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i l’esercito regio (ovvero
i “piemontesi”) e i sostenitori di Garibali fa sentire ancora aperte le ferite
dell’Unità. Ricordando la battaglia Don Domenico scrive: “Tante volte mi era
successo di designare, fra me, l’esercito regio, ‘i piemontesi’: ma sentirli
chiamare così, da italiani che li temevano come nemici, mi sconvolse.”
Il romanzo dà voce a personaggi risorgimentali realmente
esistiti: oltre al protagonista, nonno dell’autrice, incontriamo Benedetto Musolino, liberale antiborbonico
di Pizzo Calabro, fondatore della Setta
detta dei Figlioli
della Giovine Italia (1832), eletto deputato nel primo parlamento
nazionale, il nobile democratico Sigismondo Castromediano, che condivide le carceri borboniche con Don
Domenico e altre figure che restano però sullo sfondo, come Gioacchino
Murat, Pisacane, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Ferdinando II di Borbone.
Un
affresco risorgimentale senza miti ma attraversato da profonde ferite,
compromessi e tradimenti, che vivono tuttora nelle pieghe della nostra storia
contemporanea. Un romanzo comunque da leggere per capire da dove veniamo e per
ascoltare una voce che ci restituisce un Risorgimento fatto di uomini che hanno
creduto e che hanno visto frantumarsi davanti ai loro occhi tutti i sogni di
uguaglianza e fratellanza.
Quando
Don Domenico si trova, nel tardo autunno del 1861, a passeggiare tra i luoghi
della sua infanzia, che ormai fanno parte del Regno Unito, sente viva la
distanza dal suo nuovo Re: “… Poi, alzando gli occhi alle massicce torri
rotonde dove, da bambino, avevo visto una volta i soldati borbonici in vedetta,
ora sguarnite e nulla più che reliquie di una remota potenza, mi rallegravo
pensando che adesso appartenevano a noi meridionali più che a re Vittorio: non
lui, ma i Mille le avevano conquistate.”
Innumerevoli
sono le pagine in cui sentiamo palpitare l’anima di un Sud che si è sentito
tradito e che cerca e trova la propria dignità di popolo senza rancori o
rivendicazioni ma con umanità e pietà. Per tale ragione è un libro che va letto
per aiutarci ad abbracciare le ferite ancora aperte di un Paese che sta cercando
la sua “unica” voce e stenta ogni giorno a trovarla: ma la storia di un popolo
assomiglia per molti aspetti alla storia di un individuo che, solo quando decide
di ascoltare, riconoscere e abbracciare le proprie ferite, può riconciliarsi
con la propria storia, con le sue luci e le sue ombre.
A
questo noi, oggi, crediamo.
di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)
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LA SOLITUDINE - Christian Bobin
Nella
mia vita non c’è un briciolo di saggezza. E neanche di follia. Non so
esattamente cosa c’è nella mia vita. Forse, semplicemente la vita. E la
solitudine, che è saggezza e follia fuse insieme. La solitudine s’impadronisce
della mia casa con estrema disinvoltura. Non lascia nulla al di fuori di lei,
con la sola eccezione della pagina bianca. È quando scrivo che io sono meno
solo. La solitudine, quando cresce all’interno di una coppia, è terribile,
malefica. Quando entra in casa mia è – come dire? – rilassata. Ha le sue
abitudini, il suo luogo deputato. La solitudine è una malattia da cui non si
guarisce se non lasciandola in tutta libertà e soprattutto non cercandone il
rimedio, da nessuna parte. Ho sempre temuto coloro che non sopportano di
restare soli e chiedono alla coppia, al lavoro, all’amicizia, perfino al
diavolo ciò che né la coppia, né il lavoro né l’amicizia, né il diavolo possono
dare: la protezione contro se stessi, l’assicurazione di non dover mai fare i
conti con la verità solitaria della propria vita. Queste persone sono
infrequentabili. La loro incapacità a stare sole fa di loro le persone più sole
al mondo.
-
tratto da Consumazione di Christian Bobin
Foto di Henri Cartier - Bresson
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lunedì 21 aprile 2014
AMAREZZA
È impossibile proteggere dalla sofferenza coloro che amiamo: ho dovuto impiegare molto tempo per imparare una cosa così semplice. Imparare è sempre amaro, sempre a nostre spese. Non rimpiango questa amarezza.
tratto da La presenza pura di Christian Bobin
foto di Edouard Boubat
http://www.edouard-boubat.fr/
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ANNA KARENINA - LEV TOLSTOJ
Anna Karenina di Lev Tolstoj, pubblicato nel 1877, è
riconosciuto come uno dei capolavori della letteratura di
tutti i tempi.
La storia di Anna Karenina,
coniugata con Aleksjéj Aleksàndrovič Karenin, e del suo amore tormentato per il
giovane ufficiale conte Alekséj Kirillovič Vronskij è nota: per lui Anna decide di lasciare il
marito e il figlio di otto anni Serjòža, una scelta che la porterà a vivere un’
umiliazione a tutto campo che ella risolverà con il suicidio.
Parallela
alla storia d’amore tormentata e infelice di Anna e Vronskij si dipana quella
tra Levin e Kitty che invece proprio nel
matrimonio vede una serenità di vita possibile. I quattro personaggi sono
legati tra loro da legami familiari, di amicizia o sentimentali: Kitty (Katerina
Aleksandrovna Ščerbackaja) è la giovane diciottenne che il giovane Vronskj, aristocratico
ufficiale in carriera, frequenta e “inconsapevolmente” corteggia prima di
incontrare Anna; il timido trentaquattrenne Konstantin Dmitrič Levin è invece amico,
sin dalla giovinezza, del fratello della Karenina, il principe Stepàn
Arkàdjevič Oblonskj, (Stiva) che ha sposato la sorella maggiore di Kitty, Daria
Alexandrovna (Dolly) dalla quale ha avuto sette figli.
La
celeberrima frase che dà l’avvio al libro “Tutte
le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice
a modo suo. “ accende i riflettori a Mosca nell’interno della casa di Stiva
e Dolly in piena crisi matrimoniale, mentre Anna, in viaggio da Pietroburgo,
sta andando in soccorso al fratello Stiva per mediare e convincere la cognata Dolly
a non chiedere il divorzio. Anna ancora non conosce Vronskij ma sarà proprio la
stazione dei treni a divenire un luogo di incontro ma anche di morte, luogo segnato
sin dagli inizi da una premonizione che scandirà l’intera vicenda, fino al suo
tragico epilogo, quando Anna troverà la morte lasciandosi cadere sotto un
treno.
Tolstoij
dipinge un grande affresco e in esso un trittico di coppie dove Stiva-Dolly non
solo sono funzionali a legare i personaggi principali tra loro, ma offrono al
lettore due ritratti stupendi e un altro esempio di matrimonio, dove l’amore
extraconiugale del marito viene tollerato, suo malgrado, dalla moglie, la quale
riverserà il proprio amore sui figli.
Anna
e Dolly, cognate, entrambe sposate legate da un grande affetto, eppure così
diverse e i cui destini si snodano tra ferite e sofferenze che sono la spia
della condizione femminile del tempo. Agli inizi del romanzo è Anna ad andare
in soccorso alla cognata Dolly ferita dal tradimento del marito, verso la fine sarà
Dolly a ricambiare l’affetto di una visita ad Anna, rimasta esclusa dalla buona
società per aver lasciato il marito e il figlio ed essere andata a convivere con
Vronskij.
Dolly
è sinceramente affezionata alla cognata che, a differenza di lei, ha avuto la
forza di seguire il proprio cuore: invidia Anna proprio perché ha avuto il
coraggio di fare ciò che lei invece non ha saputo fare. Durante il viaggio
verso Vozdvíženskoje, dove Anna si è stabilita con Vronskij, i pensieri le si
affastellano: ripensa alla sua vita e vorrebbe essere al posto di Anna,
proietta su di lei ogni felicità e realizzazione possibili. In lei vede ciò che
le sembra mancare alla propria vita; durante il viaggio Dolly fantastica,
costruisce castelli ma poi, una volta giunta da Anna, si rende conto della
situazione e della sua sofferenza. Ha fretta di rientrare a casa dove una volta
arrivata dimenticherà “quell’indefinito
senso di scontentezza e di disagio che aveva provato da loro”.
Tolstoij
è magistrale nel dipingere tutte le contraddizioni, i lati chiari e oscuri dei
suoi personaggi. Se ci concentriamo su ciascuno di loro, emergono volti e voci
pieni di vita che il lettore attento ascolta e comprende. E a legger bene anche
il marito ha la sua storia e i suoi dolori e il suo sentire. Lo stesso marito
della Karenina, Aleksjéj Aleksàndrovič è cresciuto orfano, educato da uno zio, un
burocrate importante, è stato instradato verso la carriera del funzionario
governativo. Occupa uno dei posti più importanti nel ministero cui appartiene
il tribunale. Prima di sposarsi, trascorre una vita un po’ in solitudine, senza
coltivare né amicizie né relazioni. Si sposa con la giovane Anna per insistenza
della zia di lei che “ l’aveva fatto
incontrare […] con sua nipote e lo aveva messo nelle condizioni di dichiararsi
o di andar via dalla città …. Ma la zia di Anna gli aveva già fatto dire per
mezzo di un conoscente che lui aveva già compromesso la ragazza e che un dovere
d’onore lo obbligava a far la proposta di matrimonio. Lui aveva fatto la
proposta e aveva dato alla fidanzata e alla moglie tutto il sentimento di cui
era capace. Karenin era un uomo di fatto congelato, che avevo represso le
proprie emozioni e sentimenti. “Aleksjéj
Aleksàndrovič aveva vissuto e lavorato per tutta la sua vita negli ambienti
impiegatizi, che avevano a che fare coi riflessi della vita. E ogni volta
ch’egli si imbatteva nella vita stessa, se ne scostava”. Egli veste i panni
del cristiano bigotto che si è evoluto e irrigidito verso una fede
“superstiziosa”. Quando, infatti, egli dovrà decidere se concedere o meno il
divorzio alla moglie, si rivolgerà per chiedere consiglio sul da farsi, a un
balordo e falso guaritore francese che finge di parlare nel sonno ma che in
realtà sa ben spillare ai ricchi aristocratici russi fior di quattrini,
ospitalità e onori.
Alekseij,
abbandonato dalla moglie, è un uomo ferito e sa quanto la società sia spietata.
Sa che ciò che la società gli rimprovera è proprio il suo dolore: “Sentiva
che non poteva allontanare da sé il disprezzo della gente, perché quel
disprezzo non derivava dal fatto che egli fosse cattivo (in questo caso avrebbe
potuto sforzarsi di essere migliore), ma dal fatto che lui era infelice in modo
vergognoso e ripugnante. Sapeva
che per questo, per il fatto stesso che il suo cuore era dilaniato, loro
sarebbero stati spietati nei suoi confronti. Sentiva che la gente lo avrebbe
annientato, come i cani dilaniano un cane ferito che guaisce dal dolore. Sapeva
che l’unica salvezza dalla gente stava nel nascondere le sue ferite, e questo
aveva inconsciamente tentato di fare due giorni, ma adesso non si sentiva più le
forze di continuare questa impari lotta. Karenin sa bene che la
propria “debolezza” può essere fonte di
disprezzo.
Karenin
e Anna. Un matrimonio senza amore, dove nessuno si sente amato. Ma Anna non solo
non si sente amata dal marito, ma nemmeno da Vronskij, l’uomo per cui ha
sacrificato tutto. “Cosa cercava egli in
me? Non tanto amore quanto soddisfacimento di vanità. […] Sì, in lui c’era il
trionfo del successo di vanità. S’intende c’era anche l’amore, ma la parte
maggiore era l’orgoglio del successo. Egli si vantava di me. Adesso è passata.”
Il terrore di essere abbandonata dal giovane ufficiale non fa che aumentare la
sua ansia e la sua disperazione. Percependo se stessa come il problema e
obnubilata dalla vendetta nei confronti dell’amante da cui si sente
abbandonata, Anna decide di togliersi la vita. Il grande dramma di Anna è
questo vuoto e mancanza di amore che Tolstoij ci restituisce in modo
magistrale, attraverso i pensieri di Anna nei confronti del marito: “Ha ragione! Ha ragione!” si disse. “Si
capisce, lui ha sempre ragione, lui è cristiano, lui è magnanimo! Sì, che uomo
vile disgustoso! E questo nessuno all’infuori di me lo capisce e lo capirà; e
io non posso spiegarlo. Dicono: è un uomo religioso, morale, onesto,
intelligente; ma non hanno visto quello che ho visto io. Loro non sanno che per
otto anni lui ha soffocato la mia vita, ha soffocato tutto ciò che c’era in me
di vivo, che mai una volta ha pensato che io sono una donna viva che ha bisogno
d’amore. Non sanno come mi offendeva a ogni passo e rimaneva soddisfatto di sé.
E io non mi sono sforzata con tutte le forze di trovare una giustificazione
alla mia vita? Ma è venuto il momento in cui ho capito che non potevo più
ingannare me stessa, che ero viva, che non avevo colpa se Dio mi ha fatto così,
che avevo bisogno di amare e di vivere. E adesso? Mi avesse uccisa, avesse
ucciso lui, avrei sopportato tutto, perdonato tutto, ma no, lui….”
Le
due storie d’amore “protagoniste” Anna-Vronskij e Levin-Kitty si fanno da
contro canto l’una con l’altra, tutti e quattro i personaggi sono alla ricerca
di un amore che li appaghi, ma ciascuno parte da premesse diverse e reagisce
alla mancanza d’amore in modo diverso. Guardare a queste coppie secondo lo
schema: l’amore-tormentato- è-bello- e-se-non-è–tormentato-vuol-dire-che–non-è–vero-amore-mentre-l’amore-coniugale-è-noioso-e-scontato
sarebbe non rendere giustizia al grande affresco dipinto da Tolstoij, così
profondo e magistrale nel restituire al lettore un’introspezione dei personaggi
così attuale, nonostante i grandi cambiamenti e le profonde trasformazioni che
la società e la condizione femminile hanno subito nei secoli.
Durante
uno dei suoi monologhi interiori, Anna guarda alla vita da una prospettiva che
non lascia spazio: “Non siamo forse tutti
gettati nel mondo soltanto per odiarci a vicenda, e poi tormentare noi stessi e
gli altri?” Agli inizi della sua relazione con Vronskij, Anna è convinta di
non poter scegliere tra il suo amante e suo figlio (come suo marito cerca di imporle):“Sentiva che quella posizione di cui godeva
nel mondo, e che al mattino le era sembrata così poco importante, che quella
posizione le era cara, che lei non avrebbe avuto la forza di cambiarla nella
posizione ignominiosa della donna che abbandona il marito e un figlio e si
unisce con un amante; che per quanto si fosse sforzata, non sarebbe stata più forte di se stessa.
Non avrebbe mai provato la libertà dell’amore ma sarebbe rimasta per sempre una
moglie colpevole, sotto la minaccia incessante d’essere mascherata, una moglie
che ingannava il marito per un legame vergognoso con un altro uomo, che nulla
legava a lei, con il quale non poteva vivere una vita non doppia. Sapeva che
così sarebbe stato, e nello stesso tempo ciò era così orribile che non poteva
neppure immaginarsi come sarebbe andata a finire. E piangeva, senza
trattenersi, come piangono i bambini puniti.”
Tuttavia
l’amore per Vronskij farà allontanare Anna dal suo amato Serjòža, e le farà
compiere ciò che fino a poco tempo prima le sarebbe parso inconcepibile: “Anch’io pensavo di volergli bene [a
Serjòža] , e mi commovevo dinanzi alla
mia tenerezza. E ho vissuto senza di lui, e l’ho scambiato con un altro amore e
non mi sono lamentata di questo baratto, finché mi accontentavo di quell’amore.”
Anna
e Lévin sembrano percorrere due strade contrarie, opposte.
Anna
è delusa dal proprio matrimonio che le è stato, comunque, imposto dalla sua
condizione: è la zia ad aver combinato tutto.
Ma è anche delusa dal suo amante. La sua spirale emotiva e sentimentale è
autodistruttiva. Non è così per Lévin che riesce, invece, a costruire negli
anni una vita che sente propria.
La
ricerca di Lévin dell’amore e della felicità non è tranquilla e lineare, al
contrario essa segue un percorso accidentato, fatto di delusioni, paure. Ma per
Lévin, uomo, sembra essere “più semplice”, sicuramente è diverso. Egli si
allontana dalla società mondana, si ritira in campagna, va alla ricerca di una
vita più vera, e in quanto uomo, lo può fare: è un possidente terriero, ha un
nome di famiglia importante, insomma ha le spalle e le condizioni per poterselo
permettere.
Quando
Lévin si innamora della giovane Kitty infatuata di Vronskij, la va a chiedere
in sposa. Ma Kitty, sebbene Lévin sia un buon partito, è soggiogata dal mondano Vronskij (come sua
madre lo è del patrimonio!). Eppure Levin, anche dopo il rifiuto di Kitty alla
sua proposta di fidanzamento “si sentiva
se stesso e non voleva essere un altro. Egli adesso voleva solo essere migliore
di com’era prima. In primo luogo da quel giorno egli decise che non avrebbe più
sperato una felicità straordinaria, come gliela doveva dare il matrimonio, e in
conseguenza di ciò non avrebbe disdegnato tanto il presente. In secondo luogo,
egli non si sarebbe mai più permesso di lasciarsi trascinare dalla sconcia
passione, il cui ricordo lo aveva tormentato tanto quando era in procinto di
far la proposta di matrimonio.”
È
la reazione di Lévin al rifiuto di Kitty ad indicargli una strada da
percorrere. Osserva i matrimoni altrui, e mai vorrebbe fare la stessa fine. Per
lui, è convinto, sarà diverso. Ma quando, finalmente, riuscirà a sposare Kitty,
dopo averla tanto attesa e sognata, egli stesso non sfuggirà al sentimento di delusione
nei confronti della vita matrimoniale: “Era
felice, ma affatto diversamente da come se l’aspettava. A ogni passo trovava
una delusione dei sogni di prima e un nuovo fascino inaspettato. Era felice,
ma, entrato nella vita familiare, vedeva a ogni passo che la cosa era
completamente diversa da come se l’era immaginata.” Ciò nonostante, la vita
matrimoniale di Lévin, nel tempo troverà la sua realizzazione e pienezza,
proprio nell’accettazione delle fragilità e dell’imperfezione. Lévin continuerà
anche la sua ricerca spirituale, continuerà ad interrogarsi sul senso della
vita, sull’esistenza di Dio, sul bene e il male.
Tolstoij
chiuderà il grande affresco proprio con il pensiero di Levin, riconciliato nel
profondo non solo con il proprio matrimonio ma con l’imperfezione della
condizione umana, alla luce della fede: “Questo
nuovo sentimento non mi ha cambiato, non mi ha reso felice, non mi ha
rischiarato di colpo, come sognavo; così come non lo ha fatto il sentimento per
mio figlio. Anche qui non c’è stata nessuna sorpresa. Si tratti o no della fede
– di preciso non so cosa sia – questo sentimento è entrato in me attraverso le
sofferenze in modo egualmente inavvertito e si è fermamente stabilito nella mia
anima.
Mi arrabbierò egualmente con il cocchiere
Ivan, egualmente discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci sarà
sempre lo stesso muro fra il sacrario della mia anima e gli altri e perfino con
mia moglie, la brontolerò egualmente per lo spavento che ho provato, e ne
sentirò rimorso, egualmente non capirò con la ragione perché prego e potrò
pregare, ma cha la mia vita, qualunque
cosa accada, in ogni suo momento, non solo non è priva di senso come prima, ma
ha un significato sicuro che le deriva dal bene su cui io posso fondarla.”VAGANDO PER LE STRADE - di Dostoevskij
Vagando per le strade , mi piace osservare certi passanti del tutto sconosciuti, studiare i loro visi ed indovinare chi sono, come vivono, di che cosa si occupano e che cosa li interessa particolarmente in quel dato momento.
tratto dal Diario di uno scrittore di F. Dostoevskij
Edouard Boubat, Times Square, New York 1953
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LE NOSTRE CHIACCHIERE
Il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
In cielo c’è una stella per ciascuno di noi, sufficientemente lontana perché i nostri errori non possano mai offuscarla.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
Scrivo con una minuscola bilancia come quelle utilizzate dai gioiellieri. Su un piatto depongo l’ombra e sull’altro la luce. Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili d’ombra.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
Non c’è maggior infelicità al mondo che quella di non trovare nessuno con cui parlare e le nostre chiacchiere, lungi dal porre rimedio a questo silenzio, la maggior parte delle volte non fanno che appesantirlo.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
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MADRI
Di tanto in tanto le madri smettono totalmente di amare i loro figli. Impazienti, esauste o deluse, escono un attimo dall’amore per farvi ritorno l’attimo dopo, così come si supera con passo allegro un abisso che non abbiamo visto. Noi siamo la causa di un totale disamore da parte di Dio: esasperato, egli ci ha lasciati alla nostra notte per un attimo che sembra durare secoli. Non ci resta altro che attendere l’attimo successivo in cui ci riprenderà.
tratto Resuscitare di Christian Bobin
tratto Resuscitare di Christian Bobin
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domenica 20 aprile 2014
PASQUA 2014 due poesie di Lorenzo Gobbi
Layla, vorrei dirlo questa sera
al mondo intero: c’è un perdono
alle radici dei ciliegi,
una parola-luna sulle grandi
acque. Testimoniano per me
le tue promesse - la sostanza
d’ogni cosa è questa Pasqua,
questo mare aperto, questi
fiori di bianchissima speranza.
Ho imparato, Layla, quanto
è giusto stendere la mano
al disperdersi dei passeri
per fame - senza foga di nutrire,
di salvare. impazzirei se non sognassi
un dio che è pane.
tratto da Nel chiaro del perdono di Lorenzo Gobbi, Book Editore 2002
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Pasqua
sabato 19 aprile 2014
DIO, I POVERI E L'OBLIO
Quel miliardario americano benediceva Dio prima di ogni pasto per i benefici di cui aveva colmato la sua famiglia. Egli credeva in un Dio che, interessato ai nostri successi, li favorisce. Non faceva che seguire la follia di un’epoca in cui non si adora altro che la forza. Ci sono sempre stati ricchi e poveri. Sempre ce ne saranno. La novità del nostro tempo è che i poveri sono considerati responsabili della loro sciagura e, in quanto tali, disprezzati. Per secoli si è pensato che Dio stesse, pallido e silenzioso, vicino a quelli che non avevano alcun bene. Questo pensiero dava alla povertà la vibrazione di un’icona. Esso la illuminava come una fiamma posta dietro ad un fiore. Oggi non lo si pensa più e non ci sono più parole per esprimere quest’infaticabile presenza dell’amore. Dio come i poveri è caduto nell’oblio.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
foto di Edouard Boubat
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l'olblio
Teresa d'Avila
Un gatto ombroso si allungava su un lenzuolo di luce steso al sole sul pavimento a piastrelle di una cucina, e Teresa d’Avila mi intratteneva sull’invisibile con voce forte, come se mi parlasse da una stanza di fianco: queste scintille, intraviste un giorno, troppo numerose per scriverle tutte e troppo fugaci per bastarmi, mi hanno dato il piacere di cercare il fuoco che le generava e questo piacere non mi è mai passato, anzi si è accresciuto nello stesso momento in cui il freddo invadeva questo mondo e le sue false immagini.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
tratto da Resuscitare di Christian Bobin
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