giovedì 25 dicembre 2008

25 dicembre 2008: ricordando Natale a Gerusalemme e ad Arad nel 2005


E' da molto tempo che non scrivo sul mio blog. 
Ora non ho né la testa né la voglia di farlo ma proverò almeno a riprendere le forze per inserire un'intervista di Amos Oz rilasciata al giornalista  Umberto De Giovannangeli. L'ho appena trovata in internet e si può trovare  nel sito del CIPMO o in quello dell'Unità, giornale da cui è tratta.
L'argomento è sempre attuale e con l'aria che tira ora su Gaza e sull'intera Terra di Israele e di Palestina auguro a Oz e al suo popolo di "avere coraggio" e invito noi europei a metterci sempre e comunque una mano sulla coscienza e a smetterla di puntare il dito contro l'uno o contro l'altro in modo fazioso e sterile.

Ricordo il 27 dicembre del 2005 quando con Lorenzo (mio marito) andammo a trovarlo nella sua casa ad Arad per conoscerlo: Lorenzo stava scrivendo un libro "Gerusalemme nella memoria di amos Oz" e voleva semplicemente conoscerlo. Il caffè che ci ha offerto è stato ottimo! E l'uomo si è rivelato un "grande".

"Taglio e incollo" qui sotto l'intervista rilasciata ultimamente (30 novembre 2008) da Oz al giornalista Umberto Giovanangeli.
Qualcuno potrebbe obiettare: "ma noi europei, oggi come oggi, in fondo, cosa c'entriamo?", c'entriamo, eccome! Purtroppo non penso sia più possibile sperare nei due stati divisi in quanto sono troppi gli insediamenti israeliani in Terra di Palestina: se si guardano le cartine che continuano a modificarsi nei confini e negli insediamenti, si nota un Paese (i due insieme) a macchia di leopardo dove le zone restano ben delimitate tra loro. Penso che dovrebbero arrivare anche queste immagini nei nostri telegiornali. Ciò nonostante non punto il dito, cerco invece di incoraggiare e di diffondere le azioni che uomini come Amos Oz (ma ce ne sono moltissimi da ambo le parti) compiono ogni giorno per una pace possibile.

A proposito degli ISRAELIANI E e dei PALESTINESI, ascoltiamo cosa dice Oz:
Due vittime dello stesso oppressore. L'Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d'imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti. (Amos Oz)

La tragedia israelo-palestinese, il compromesso e la pace: la visione di Amos Oz

 di Umberto De Giovannangeli

 I suoi romanzi lo hanno reso famoso in tutto il mondo. L’impegno per il dialogo con i palestinesi ha sempre accompagnato la sua straordinaria produzione letteraria. Scrittura e impegno civile s'intrecciano indissolubilmente nel percorso di vita del più grande tra gli scrittori israeliani contemporanei: Amos Oz. Dai libri all’agone politico: in questa conversazione con l'Unità, Oz spiega il senso della sua sfida. E racconta il «suo» Israele. Partendo, in una Terrasanta che si nutre di assoluto, dall’elogio del compromesso. Vero antidoto al fanatismo: «Nel mio mondo - riflette Oz - la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». Scrittura e politica. Un binomio che aiuta il grande scrittore israeliano a inquadrare il conflitto israelo-palestinese: «A renderlo particolarmente grave - annota Oz - è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto fra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. L'Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d'imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti. A rigore, due vittime dovrebbero manifestare d’istinto una solidarietà tra loro. Così succede spesso nei romanzi. Ma nella vita vera alcuni fra i più aspri conflitti vedono in campo due vittime dello stesso oppressore».

 

LE CONSIDERAZIONI di Amos Oz sono permeate da un ispirato realismo. Come quando sottolinea che per lui «l’opposto della guerra non è l'amore e l'opposto della guerra non è nemmeno pietà, e l’opposto della guerra non ha nulla a che vedere con la generosità e il perdono o la fratellanza. No: l'opposto della guerra è la pace. Le nazioni debbono poter vivere in pace. Se facessi in tempo a vedere lo Stato d'Israele e lo Stato di Palestina vivere fianco a fianco decorosamente, senza massacri, senza terrorismo, senza violenza, ne sarei soddisfatto anche se non si trattasse di un trionfo dell’amore...». Al suo Paese, Israele, Amoz Oz chiede un atto di coraggio. Politico, morale, intellettuale. E storico. In particolare su un tema scottante, cruciale per un accordo di pace: la questione dei profughi palestinesi. «È venuto il momento - afferma lo scrittore - di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe che imprigiona i profughi palestinesi. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Lo Stato di Israele è sufficientemente maturo e forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni».

 Non è di tutti i giorni che uno scrittore, sia pure impegnato, decida di «sporcarsi le mani» con la politica, scendendo in campo per formare un nuovo partito. Cosa l'ha spinta a questa scelta?

«La decisione di coinvolgermi maggiormente nella creazione di un vero partito socialdemocratico, deriva dalla considerazione che le prossime elezioni israeliane (fissate per il 10 febbraio 2009, ndr.) potrebbero essere determinanti per il futuro del Paese. Potrebbero dare come risultato la scelta della via della pace o della guerra. Questa è la posta in gioco. E non siamo mai stati così vicini, come adesso, a un accordo coi palestinesi. Per quanto riguarda la natura di questa compagine, ho ritenuto che solo il Meretz (la sinistra laica e pacifista, ndr.) possa servire da base per dare espressione alla necessità di un partito che porti avanti una piattaforma socialdemocratica che oggi, nella politica israeliana, non ha una vera rappresentanza».

 E perché il partito laburista, il partito di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin - le cui vicende si intrecciano fortemente con la nascita dello Stato d'Israele e con buona parte dei suoi sessant'anni di vita - non la rappresenta più? Cosa resta oggi di quel partito e dei principi che lo ispirarono?

«Purtroppo, molto poco. Il Partito laburista è diventato un partner molto marginale di coalizioni di governo guidate da altri. Il suo compito storico è terminato e con un successo che è solo parziale. È vero - e questo va riconosciuto - che la sinistra israeliana è riuscita a far penetrare molte delle sue idee nell’opinione pubblica israeliana. Molti tabù sono stati infranti. Si può senz’altro dire che, in buona misura, l’area politica del centro destra israeliano di oggi, ha assorbito e fatto proprie posizioni per le quali, 15-20 anni fa, la sinistra veniva accusata di disfattismo o peggio, di tradimento. Il problema è che i laburisti non sono riusciti a portare a compimento questa opera: hanno convinto gran parte dell’opinione pubblica sulle posizioni di principio, ma non sono riusciti a trovare la strada per rendere concrete e accettate dalla maggioranza anche le inevitabili conclusioni, vale a dire la necessità di porre fine al conflitto sulla base territoriale dei confini del 1967, Gerusalemme ovest capitale di Israele e Gerusalemme est capitale dello Stato Palestinese e assicurazione di pace e sicurezza per Israele. Ma non c'è solo questo...»

 Cos’altro ancora?

«Il Partito laburista è stato partner, negli ultimi anni, di governi che hanno gestito il Paese sulla base di un’economia capitalistica che definirei bestiale, senza regole, senza vincoli sociali. Questo stato di cose va radicalmente cambiato. Va trovato un sistema economico-sociale che dia una giusta risposta anche ai bisogni degli strati sociali più poveri e bisognosi di aiuto».

Israele vive da anni tra paura e speranza. Sentimenti che segnano il presente e condizionano il futuro. Qual è la visione di Israele di cui Lei si fa portatore?

«Penso che si debba e si possa porre fine al conflitto fra Israeliani e Palestinesi o almeno ridurne le dimensioni a un confronto con il regime, quello di Hamas, che controlla ora Gaza. Un risultato del genere rappresenterebbe già di per sé un fatto storico e cambierebbe molto rispetto alla situazione attuale, poiché spalancherebbe la possibilità di una pace con tutto il mondo arabo».

Si dice che gli intellettuali siano la coscienza critica di un Paese. Vale ancora questo assunto e se sì, come si cala nella realtà attuale di Israele?

«Gli intellettuali israeliani coprono un arco di idee così ampio, da rendere difficile e improbabile ogni tentativo di generalizzazione. Io stesso, non mi vedo come coscienza della società israeliana. Mi considero un cittadino coinvolto, che ha una particolare sensibilità nei confronti della lingua. Questo è il canale che mi avvicina alla realtà del Paese e mi porta all’impegno sociale che sento di dover dare».

 Guardando al conflitto israelo-palestinese, Lei ha parlato e scritto spesso di una tragedia in cui a scontrarsi sono due diritti ugualmente fondati. E' ancora così e come uscirne?

«L’unica strada per uscirne passa per il compromessoe per il riconoscimento dell'altro e della sua esistenza in pace in suoi confini sicuri e sovrani. Laddove c’è uno scontro fra due giusti diritti, fra giusto e giusto, il finalepuò essere solo di due tipi: shakespeariano o cecoviano. Nel primo la scena è cosparsa di corpi cadaveri e regna la disperazione; nel secondo, tutti i personaggi sono insoddisfatti, melanconici, tristi e con il cuore cuore infranto,ma nessuno muore. Io sono alla ricerca di un finale cecoviano alla tragedia israelo-palestinese».

 In un attualissimo pamphlet, “Contro il fanatismo” nel quale sono raccolte alcune sue lezioni universitarie, Lei ha svolto un lucido, appassionato elogio del compromesso. Non è in contraddizione con la nettezza delle idee che l'hanno spinta all'impegno politico?

«Direi proprio di no. Vede, quando dico compromesso non intendo capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia all'avversario, un nemico, una sposa. Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada. Tutti conoscono il prezzo e le condizioni. Tutti sanno, chilometro più, chilometro meno, quale sarà la mappa definitiva dell'accordo. È solo una questione di leadership coraggiosa delle due parti, per realizzare quello che i due popoli già sanno in cuor loro. E compromesso significa che il popolo palestinese non debba mai mettersi in ginocchio, e nemmeno debba farlo il popolo ebraico israeliano. Una dei tratti di questa tragedia è di aver voluto rinviare nel tempo la ricerca, inevitabile, di un compromesso. Inevitabile perché, piaccia o no, dobbiamo dividere questa terra: né noi né loro abbiamo un altro posto dove andare»

l'Unità 30 novembre 2008