giovedì 25 dicembre 2008

25 dicembre 2008: ricordando Natale a Gerusalemme e ad Arad nel 2005


E' da molto tempo che non scrivo sul mio blog. 
Ora non ho né la testa né la voglia di farlo ma proverò almeno a riprendere le forze per inserire un'intervista di Amos Oz rilasciata al giornalista  Umberto De Giovannangeli. L'ho appena trovata in internet e si può trovare  nel sito del CIPMO o in quello dell'Unità, giornale da cui è tratta.
L'argomento è sempre attuale e con l'aria che tira ora su Gaza e sull'intera Terra di Israele e di Palestina auguro a Oz e al suo popolo di "avere coraggio" e invito noi europei a metterci sempre e comunque una mano sulla coscienza e a smetterla di puntare il dito contro l'uno o contro l'altro in modo fazioso e sterile.

Ricordo il 27 dicembre del 2005 quando con Lorenzo (mio marito) andammo a trovarlo nella sua casa ad Arad per conoscerlo: Lorenzo stava scrivendo un libro "Gerusalemme nella memoria di amos Oz" e voleva semplicemente conoscerlo. Il caffè che ci ha offerto è stato ottimo! E l'uomo si è rivelato un "grande".

"Taglio e incollo" qui sotto l'intervista rilasciata ultimamente (30 novembre 2008) da Oz al giornalista Umberto Giovanangeli.
Qualcuno potrebbe obiettare: "ma noi europei, oggi come oggi, in fondo, cosa c'entriamo?", c'entriamo, eccome! Purtroppo non penso sia più possibile sperare nei due stati divisi in quanto sono troppi gli insediamenti israeliani in Terra di Palestina: se si guardano le cartine che continuano a modificarsi nei confini e negli insediamenti, si nota un Paese (i due insieme) a macchia di leopardo dove le zone restano ben delimitate tra loro. Penso che dovrebbero arrivare anche queste immagini nei nostri telegiornali. Ciò nonostante non punto il dito, cerco invece di incoraggiare e di diffondere le azioni che uomini come Amos Oz (ma ce ne sono moltissimi da ambo le parti) compiono ogni giorno per una pace possibile.

A proposito degli ISRAELIANI E e dei PALESTINESI, ascoltiamo cosa dice Oz:
Due vittime dello stesso oppressore. L'Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d'imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti. (Amos Oz)

La tragedia israelo-palestinese, il compromesso e la pace: la visione di Amos Oz

 di Umberto De Giovannangeli

 I suoi romanzi lo hanno reso famoso in tutto il mondo. L’impegno per il dialogo con i palestinesi ha sempre accompagnato la sua straordinaria produzione letteraria. Scrittura e impegno civile s'intrecciano indissolubilmente nel percorso di vita del più grande tra gli scrittori israeliani contemporanei: Amos Oz. Dai libri all’agone politico: in questa conversazione con l'Unità, Oz spiega il senso della sua sfida. E racconta il «suo» Israele. Partendo, in una Terrasanta che si nutre di assoluto, dall’elogio del compromesso. Vero antidoto al fanatismo: «Nel mio mondo - riflette Oz - la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». Scrittura e politica. Un binomio che aiuta il grande scrittore israeliano a inquadrare il conflitto israelo-palestinese: «A renderlo particolarmente grave - annota Oz - è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto fra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. L'Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d'imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti. A rigore, due vittime dovrebbero manifestare d’istinto una solidarietà tra loro. Così succede spesso nei romanzi. Ma nella vita vera alcuni fra i più aspri conflitti vedono in campo due vittime dello stesso oppressore».

 

LE CONSIDERAZIONI di Amos Oz sono permeate da un ispirato realismo. Come quando sottolinea che per lui «l’opposto della guerra non è l'amore e l'opposto della guerra non è nemmeno pietà, e l’opposto della guerra non ha nulla a che vedere con la generosità e il perdono o la fratellanza. No: l'opposto della guerra è la pace. Le nazioni debbono poter vivere in pace. Se facessi in tempo a vedere lo Stato d'Israele e lo Stato di Palestina vivere fianco a fianco decorosamente, senza massacri, senza terrorismo, senza violenza, ne sarei soddisfatto anche se non si trattasse di un trionfo dell’amore...». Al suo Paese, Israele, Amoz Oz chiede un atto di coraggio. Politico, morale, intellettuale. E storico. In particolare su un tema scottante, cruciale per un accordo di pace: la questione dei profughi palestinesi. «È venuto il momento - afferma lo scrittore - di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe che imprigiona i profughi palestinesi. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Lo Stato di Israele è sufficientemente maturo e forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni».

 Non è di tutti i giorni che uno scrittore, sia pure impegnato, decida di «sporcarsi le mani» con la politica, scendendo in campo per formare un nuovo partito. Cosa l'ha spinta a questa scelta?

«La decisione di coinvolgermi maggiormente nella creazione di un vero partito socialdemocratico, deriva dalla considerazione che le prossime elezioni israeliane (fissate per il 10 febbraio 2009, ndr.) potrebbero essere determinanti per il futuro del Paese. Potrebbero dare come risultato la scelta della via della pace o della guerra. Questa è la posta in gioco. E non siamo mai stati così vicini, come adesso, a un accordo coi palestinesi. Per quanto riguarda la natura di questa compagine, ho ritenuto che solo il Meretz (la sinistra laica e pacifista, ndr.) possa servire da base per dare espressione alla necessità di un partito che porti avanti una piattaforma socialdemocratica che oggi, nella politica israeliana, non ha una vera rappresentanza».

 E perché il partito laburista, il partito di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin - le cui vicende si intrecciano fortemente con la nascita dello Stato d'Israele e con buona parte dei suoi sessant'anni di vita - non la rappresenta più? Cosa resta oggi di quel partito e dei principi che lo ispirarono?

«Purtroppo, molto poco. Il Partito laburista è diventato un partner molto marginale di coalizioni di governo guidate da altri. Il suo compito storico è terminato e con un successo che è solo parziale. È vero - e questo va riconosciuto - che la sinistra israeliana è riuscita a far penetrare molte delle sue idee nell’opinione pubblica israeliana. Molti tabù sono stati infranti. Si può senz’altro dire che, in buona misura, l’area politica del centro destra israeliano di oggi, ha assorbito e fatto proprie posizioni per le quali, 15-20 anni fa, la sinistra veniva accusata di disfattismo o peggio, di tradimento. Il problema è che i laburisti non sono riusciti a portare a compimento questa opera: hanno convinto gran parte dell’opinione pubblica sulle posizioni di principio, ma non sono riusciti a trovare la strada per rendere concrete e accettate dalla maggioranza anche le inevitabili conclusioni, vale a dire la necessità di porre fine al conflitto sulla base territoriale dei confini del 1967, Gerusalemme ovest capitale di Israele e Gerusalemme est capitale dello Stato Palestinese e assicurazione di pace e sicurezza per Israele. Ma non c'è solo questo...»

 Cos’altro ancora?

«Il Partito laburista è stato partner, negli ultimi anni, di governi che hanno gestito il Paese sulla base di un’economia capitalistica che definirei bestiale, senza regole, senza vincoli sociali. Questo stato di cose va radicalmente cambiato. Va trovato un sistema economico-sociale che dia una giusta risposta anche ai bisogni degli strati sociali più poveri e bisognosi di aiuto».

Israele vive da anni tra paura e speranza. Sentimenti che segnano il presente e condizionano il futuro. Qual è la visione di Israele di cui Lei si fa portatore?

«Penso che si debba e si possa porre fine al conflitto fra Israeliani e Palestinesi o almeno ridurne le dimensioni a un confronto con il regime, quello di Hamas, che controlla ora Gaza. Un risultato del genere rappresenterebbe già di per sé un fatto storico e cambierebbe molto rispetto alla situazione attuale, poiché spalancherebbe la possibilità di una pace con tutto il mondo arabo».

Si dice che gli intellettuali siano la coscienza critica di un Paese. Vale ancora questo assunto e se sì, come si cala nella realtà attuale di Israele?

«Gli intellettuali israeliani coprono un arco di idee così ampio, da rendere difficile e improbabile ogni tentativo di generalizzazione. Io stesso, non mi vedo come coscienza della società israeliana. Mi considero un cittadino coinvolto, che ha una particolare sensibilità nei confronti della lingua. Questo è il canale che mi avvicina alla realtà del Paese e mi porta all’impegno sociale che sento di dover dare».

 Guardando al conflitto israelo-palestinese, Lei ha parlato e scritto spesso di una tragedia in cui a scontrarsi sono due diritti ugualmente fondati. E' ancora così e come uscirne?

«L’unica strada per uscirne passa per il compromessoe per il riconoscimento dell'altro e della sua esistenza in pace in suoi confini sicuri e sovrani. Laddove c’è uno scontro fra due giusti diritti, fra giusto e giusto, il finalepuò essere solo di due tipi: shakespeariano o cecoviano. Nel primo la scena è cosparsa di corpi cadaveri e regna la disperazione; nel secondo, tutti i personaggi sono insoddisfatti, melanconici, tristi e con il cuore cuore infranto,ma nessuno muore. Io sono alla ricerca di un finale cecoviano alla tragedia israelo-palestinese».

 In un attualissimo pamphlet, “Contro il fanatismo” nel quale sono raccolte alcune sue lezioni universitarie, Lei ha svolto un lucido, appassionato elogio del compromesso. Non è in contraddizione con la nettezza delle idee che l'hanno spinta all'impegno politico?

«Direi proprio di no. Vede, quando dico compromesso non intendo capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia all'avversario, un nemico, una sposa. Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada. Tutti conoscono il prezzo e le condizioni. Tutti sanno, chilometro più, chilometro meno, quale sarà la mappa definitiva dell'accordo. È solo una questione di leadership coraggiosa delle due parti, per realizzare quello che i due popoli già sanno in cuor loro. E compromesso significa che il popolo palestinese non debba mai mettersi in ginocchio, e nemmeno debba farlo il popolo ebraico israeliano. Una dei tratti di questa tragedia è di aver voluto rinviare nel tempo la ricerca, inevitabile, di un compromesso. Inevitabile perché, piaccia o no, dobbiamo dividere questa terra: né noi né loro abbiamo un altro posto dove andare»

l'Unità 30 novembre 2008

giovedì 3 aprile 2008

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap. III AI BAGNI

Marc Chagall con la moglie Bella e la figlioletta Ida - 1917

1941 Marc e Bella Chagall da: pages.cthome.net/WWIIHERO/chagall.html

Vitebsk 1908

E' sera. Giovedì. Penso a Bella. A lei bimba di nove anni e poi donna che ricorda. Che si ricorda. Questa sera mi piace riportare il capitolo Ai Bagni in cui Bella ci restituisce l'atmosfera della sua cittadina, Vitebsk (oggi Bielorussia) ai primissimi albori del secolo appena trascorso. Una delle fotografie che ho scelto per Bella, ritrae Vitebsk nel 1908.
Bella Rosenfeld nasce nel 1895: nei suoi scritti ricorda la bimba di nove anni. La fotografia sembra aver caturato per noi il tempo della memoria e del ricordo di quei giovedì in cui scendeva ai bagni con la madre.
Con loro ci prepariamo ad entrare nello Shabbat....
(Ricordo l'estate che ho trascorso a tradurre la voce di Bella Rosenfeld: io assorta nelle sue pagine e nell'incanto delle acque del mio lago, lei nel freddo dell'inverno, diretta ai bagni ebraici lungo la stradina dove scorre la Vitba, a Vitebsk.
Ma ascoltiamola:

Lo Shabbat, per me, inizia già il giovedì quando scende la sera.
Tardi nella giornata, la mamma esce di corsa dal negozio, come se volesse sottrarsi di forza al frastuono della settimana. Ancora in negozio, la si sente gridare:
“Bachka, dove sei? Andiamo ai bagni. Sacha! La biancheria è pronta?Svelte! svelte! Non ho tempo!”
La domestica avvolge il pacco della biancheria, lo lega con una corda in modo così forte che la carta si strappa. Mi m’infila il cappotto, gli zoccoli, mi stringe il cappuccio; non posso emettere un respiro.
“Sciocchina, non piangere!” Prontamente mi asciuga le lacrime che continuano a scendere.
“Andiamo! Fuori si gela. Ci manca solo – Dio ti preservi - che tu prenda ancora freddo!”
Alla chetichella, io e la mamma usciamo dal portone di casa, come se fosse già sabato e il negozio fosse già chiuso. La mamma si sarebbe sentita a disagio passare di là con la biancheria sotto il braccio, anche se avvolta in una carta scura. Il negozio, infatti, è pieno di uomini e, chi lo sa, potrebbero ancora trattenerla lì. Andiamo di corsa.
E’ proprio tardi: la mamma ha aspettato fino all’ultimo minuto. Sulla porta, probabilmente, ci aspetta la slitta che ci condurrà ai bagni. Il cocchiere è sempre lo stesso – è sempre lì di fronte alla casa – sa già che, ogni giovedì sera, quasi alla stessa ora, la mamma si fa portare ai bagni.
La sera, fredda, nevosa, ci avvolge subito in una coltre gelata. Sulla slitta, sotto la coperta logora, sento la mano della mamma che mi tiene stretta – soprattutto, che non scivoli! – e sento che la mamma ha già dimenticato il negozio e la baraonda che ha appena fuggito.
Vola via con la slitta, verso un altrove nell’aria pura; sembra che stia già cominciando a vibrare per tutte le sante preghiere da recitare, con la volontà di Dio, prima dell’arrivo dello Shabbat.
La strada non è lunga. Il cocchiera ci porta per una scorciatoia, per la riva buia di un fiumicello – la Vitba – dove si trovano i bagni ebraici.
In silenzio, la slitta fende l’aria gelata vibrante di gelo. Dalla riva superiore, lampeggiano fioche luci occhieggianti. E’ la luce di Padlo, la piccola piazza del mercato, che brilla laggiù sull’altura.

Conosco bene il mercato. Ne conosco i mercanti, i negozi seminterrati, e soprattutto le latterie. Prima di scendere i gradini di pietra, si doveva invocare l’aiuto del Signore, tanto era bagnata e scivolosa la scala. E faceva freddo, come in una tomba.
L’acqua trasudava dai muri grigi. Una sola piccola lampada dal vetro pieno di fumo rischiarava il locale. Il suo raggio debole raggiungeva appena i pani di burro giallo, la larga bacinella di panna, e ancor meno l’angolo da cui spuntavano, come testoline di bimbi, i formaggi duri di Gomel.
Soltanto la grande bilancia si vedeva chiaramente. Sospesa come un trono in mezzo alla cantina. Le catene di ferro oscillavano nell’aria come lunghe trecce nere, e i due piatti di rame reggevano, in modo fiero, poveri e pochi viveri, come se fosse la Giustizia in persona.
I mercanti, in vestitoni lucidi, s’agitavano tutt’intorno alla cantina. Con la punta delle dita che uscivano dai mezzi-guanti, strappavano pezzi di burro, riempivano brocche di latte, si lanciavano dei formaggi come palle di neve, e durante tutto il tempo, gridavano come se qualcuno, da dietro, li percuotesse. Probabilmente in questo modo si riscaldavano. Di tanto intanto, dalla cantina carica di respiri filtra una parolaccia. Le maledizioni, linguette di fuoco, volano intorno, infiammando una bancarella dopo l’altra.
“Che la peste se lo porti via! Che schifo di mercanzie ha? Maledetti i miei anni se mento.
I mercanti sbraitano. Sembrano topi neri nelle loro tane. Le maledizioni s’infiammano proprio mentre fuori, si ravvivano i carboni ardenti nei vasi di ferro, lì se ne stanno sedute piccole donne tarchiate che tengono cesta di fave abbrustolite sotto lunghi scialli.
I mercanti si insultano con tanto ardore e tanta forza che diventa quasi un’allegria.


Tutte queste grida ci accompagnano da lontano, mentre io e la mamma andiamo spedite verso i bagni. Il vento ci riporta una maledizione, fa tremare l’aria. La neve che scende la fa cadere giù a terra.
E così siamo arrivate.
“Torna – se Dio vuole – da qui a due ore”, dice la mamma al cocchiere, anche se lo sa da tanti anni.
Nel vestibolo in legno, ci imbattiamo nella donna che vende i biglietti, imbacuccata come una palla di mercanzie. All’inizio, non si muove nemmeno. Si scorgono solo la punta del naso e delle dita. Sul tavolo, accanto ai biglietti, se ne vanno a spasso una pera, una mela gelate. Un po’ di Kvass blu – reso livido probabilmente dal gelo – crepita in una bottiglia.
La cassiera, come se ingerisse i nostri respiri caldi, lentamente socchiude la bocca mezza congelata, e ci rivolge un sorriso infreddolito.
“Fa davvero freddo a rimanere seduti per tutto il giorno”, dice rianimandosi a poco a poco. “Il vento soffia dappertutto. Ancora un po’ e ci si potrebbe completamente congelare in attesa che arrivi un essere umano.“
La mamma la incoraggia con un sorriso e le compra per me una mela o una pera.
Spingiamo la porticina che conduce ai bagni. Il rumore del chiavistello sollevato sveglia due o tre donne nude, coperte dagli scialli.
Come mosche spaventate, sussultano, saltando dalle panche, e vengono a parlottare attorno a noi.
“Buonasera, Altechka. Buonasera! Così tardi! Coma sta, Alta? I piccolini stanno bene? Come stai , Bachinka? “ E le donne iniziano a palpeggiarmi da tutte le parti.
“Ah, che il malocchio ti risparmi! Ma cresci come lievito!”
Si sono rianimate, non hanno atteso invano . Gli scialli cadono dalle schiene come ali nere. Mi colpisce il biancore dei corpi.
Tutto diviene più puro, più chiaro…
Nell’anticamera, il calore si mescola all’aria fredda che si riversa dall’esterno. Riconosco appena le donne che trovo ai bagni, nonostante siano sempre le stesse. E ogni giovedì mi sembra che diventino sempre più vecchie e brutte. La più giovane – il cui scialle sapeva ancora di muffa – non mi lascia stare con le sue mani ossute.
“Fa freddo, non è vero?” Allora? Il tuo vestito lo sbottoni? Ne hai un altro con te? Bene, lo butteremo dentro la panca. Andiamo, alza la gamba! Allora?”
Mi sprona come se fossi un cavallo.
Ancora prima di aver gettato un’occhiata in giro, mi ritrovo con tutte le asole delle scarpe slacciate, e scarpe, calze arrotolate volano verso la panca su cui sto seduta. Il mio sedere si alza e si abbassa insieme al sedile della panca.
E non ho nemmeno avuto il tempo di vedere quel che accade nella panca dove i vestiti cadono dentro come in una fossa buia…
Il vento soffia attraverso i vetri ghiacciati, ricoperti di brina, appannati di neve: si direbbero occhi divenuti ciechi.
Tremo di freddo. La donna dei bagni prende il mio telo e me lo avvolge intorno.
“Bene! Aspetta un pochino! Tra pochissimo avrai caldo. Ecco! Entriamo al bagno, vedi?”
Mi sento persa. Mi trascina come una capra verso la porticina.
Le sue mani di acciaio mi trascinano. “Non cadere, mio Dio, Bachinka! Cammina piano! Si scivola!”
Appena dentro, mi manca il respiro e , mezzo svenuta, mi lascio portare.
Una nuvola impenetrabile mi copre gli occhi. Una piccola lampada di metallo grigio è appesa con un gancio lassù in alto, sopra la porta. Il vetro minuscolo è ancora troppo grande per il lume e , appena la porta si apre, oscilla da tutte le parti.
Resto ferma. Ho paura di muovermi. Il pavimento, colmo d’acqua, viene meno. L’acqua scorre nelle gambe, scorre dal soffitto, dai muri, come se tutta la piccola casa trasudasse calore.
La donna dei bagni si precipita sulle tinozze, sciacqua la panca scivolosa dove devo sedermi. Non ha tempo di dirmi una parola. La schiena magra, lucida volteggia come la coda di un gatto.
L’acqua calda scorre. Due o tre tinozze sprigionano in pieno volto il vapore che scotta.
Il calore della panca mi calma, mi lascio mettere le gambe in una tinozza di acqua tiepida. La donna dei bagni mi si avvicina. I suoi seni ciondolano davanti ai miei occhi come palloni sgonfiati e nel suo ventre, teso come un tamburo, il mio naso sprofonda. Mi sento stretta tra le tinozze e il ventre. Non posso nemmeno girarmi – non posso nemmeno pensarci.
Le sue dita ruvide acciuffano i miei lunghi capelli. Con un solo movimento, comincia a strofinare. Il sapone scivola in su e in giù, come se stirasse la biancheria in testa.
La testa gira, nascosta tra i capelli. Non ho nemmeno il tempo di iniziare a piangere. Trattengo le lacrime, tolgo le bolle acide di sapone che mi bruciano gli occhi. Il sapone mi penetra nelle orecchie, nella bocca. Cieca, immergo le dita nel secchio d’acqua fredda posto vicino a me.
Ritorno in me solo quando ho i capelli sciacquati. Goccioloni d’acqua mi scendono sugli occhi e li calmano. Riprendendo fiato, tiro su la schiena ; apro gli occhi.
Sento lo scricchiolio della porticina e , sulla soglia, vedo, completamente nuda, la mia bianca mamma.
Una nuvola di vapore caldo subito la avvolge. Due donne la sostengono. Piccole lacrime di sudore scivolano giù dai fianchi, dai seni. Una pioggerellina di gocce continua a scorrere dai capelli e da dietro le orecchie.
Silenziosa, timida, la mamma se ne sta in piedi vicino alla porta. Le donne che si occupano di lei, si precipitano verso le tinozze, aprono tutti i rubinetti, passano con l’acqua calda la panca per lei.
Senza scomporsi, la mamma si siede e prende, col suo corpo, tutta la panca. Sfinita per essere stata tutta strofinata, da dove sono, la distinguo a stento. Persino davanti a me è a disagio e abbassa gli occhi appena le guardo solo i capelli. Al posto della sua folta parrucca riccia di tutti i giorni, scorgo i suoi capelli corti, sottili.
Si sono indeboliti, soffocati per tutti quegli anni, senza aria, sotto la parrucca pesante … Sono colta da una tristezza, come se perdessi di colpo le forze; mi lascio ancora lavare, senza opporre resistenza.
La donna mi afferra il corpo, mi afferra anche l’anima. Come un pezzo di pasta, mi pone sulla panca, ricomincia a strofinare, a darmi pizzicotti; sembra che voglia fare di me un pane a forma di treccia.
Mi giro di pancia. Mi da una tale botta sui glutei che salto su.
“Eh bene, cosa ne dici Batchinka? E’ bello, vero?”
La donna ritrova subito la lingua. “Guarda come sei diventata rossa! E’ un piacere darti pizzicotti!”
Sfinita, aspetto di togliermela di torno. All’improvviso ho paura; dietro le spalle, una massa d’acqua mi piomba addosso. Per un attimo, sparisco nel torrente. L’acqua mi solleva e mi trasporta come in un fiume. La donna m’inonda. Mi sciolgo come cera bianca, d’estasi, di calore.
“Uff” La donna tira un sospiro e si asciuga il naso con le mani bagnate. “Brilli davvero come un piccolo diamante, Bachinka! Che ti possa giovare, bambina mia!” Mi guarda con quei suoi occhi vitrei, avvizziti dall’acqua, e svelta, mi avvolge con un lenzuolo caldo.
Probabilmente vorrebbe asciugare se stessa. Piano piano, mi circonda con le braccia come se fossi una delle piccole candele di Shabbat che deve benedire.
Da lontano, guardo come si occupano della mamma. L’hanno sicuramente strofinata, insaponata e, di sicuro, le tinozze di acqua tiepida l’hanno fatta stare bene.
Eppure, non è ancora pronta.
Dopo le abluzioni, la più anziana delle donne si fa avanti con un sgabellino e si sistema ai piedi della mamma. Appoggia un candelabro di rame su di una cassetta, accende il pezzo di candela che è vi rimasto dentro. Ravviva la corta fiammella e comincia a lamentarsi davanti alla mamma sulla sua dura vita. Sembra che tutte le preoccupazioni le siano penetrate dentro alla schiena fino a farla accasciare di peso ai piedi della mamma.
“Possa Dio avere pietà di noi, liberarci da tutte le pene!”.
Alza gli occhi da terra. “Così sia, Padre dell’Universo!”
Come per compiere un sacrificio, comincia a sistemare le dita dei piedi della mamma. La fiammella si ravviva ad ogni preghiera che le borbotta nelle unghie prima di tagliarle. Ad ogni benedizione, le si rischiara il cuore. La mamma, lo sguardo chino, guarda quello che la donna le fa ai piedi, e ascolta le sue parole.
Dietro al candelabro che brucia, una corona di luce sembra sottrarre entrambe all’oscurità del luogo. Un capo chino sull’altro, i due volti bianchi risplendono, come purificati da un sacrificio.
Dopo aver reso lucide le unghie dei piedi della mamma, l’anziana donna alza il capo:
“Alta, adesso andiamo al bagno rituale” dice a bassa voce.
La mamma sospira, come se l’anziana donna le avesse comunicato un segreto. Entrambe, piano piano, si alzano, raddrizzano la schiena, tirano un respiro profondo, riprendono fiato: si potrebbe pensare che si apprestino a valicare la soglia del Santo dei Santi.
Nel buio si stagliano le due ombre bianche.
Io avevo paura di andarci. Si doveva passare per una stanza calda in cui, su lunghi sedili stavano distesi e soffrivano esseri torturati. Dall’alto li sferzano fumanti rami di frasche, inumiditi da gocce d’acqua calda. Da sotto le panche salgono respiri pesanti, come se tutte queste donne bruciassero su carboni ardenti.
Il calore mi entra nella bocca e mi afferra il cuore.
“E’ sicuramente l’inferno per quelli che hanno molti peccati”, mi dico, e corro svelta dalla mamma al bagno rituale.
Come in una prigione, scendo in una stanza buia.
Sopra una piccola passerella se ne sta la donna anziana. Con una mano porta il candelabro acceso, con l’altra fa ondeggiare un lenzuolo bianco.
La mamma, tranquilla, – avevo così paura per lei – scende i quattro gradini scivolosi, e si immerge nell’acqua fino al collo.
Quando la donna anziana pronuncia una benedizione, la mamma si spaventa. Come una condannata, chiude gli occhi, si chiude il naso e si immerge nell’acqua come se fosse per sempre.
“K-o-o-o-sher!” grida l’anziana donna, con voce da profeta.
Ho un sussulto come a uno scoppio di tuono. Trepida, attendo – di sicuro adesso un lampo cadrà dal buio del soffitto e ci ucciderà sul colpo. O forse dal muro di pietra si riverserà un diluvio e ci sommergerà nell’oscurità del bagno rituale.
“Ko-o-o-sher!” grida di nuovo l’anziana donna.
Dov’è la mamma? L’acqua non si muove più.
Ma, all’improvviso, il fiume sembra fendersi. La testa della mamma riemerge dall’acqua. Si scuote l’acqua di dosso come se uscisse dal fondo del mare. Tre volte l’anziana donna grida a pieni polmoni e tre volte la mamma sprofonda nell’acqua nera. Non ce la faccio più ad aspettare che la vecchia smetta di gridare e che la mamma non sparisca più nell’acqua.
Alla fine, è stanca. L’acqua le scorre giù dai capelli, dalle orecchie. Ma sorride. Esce dall’acqua come da un fuoco – pulita, purificata.
“Alta, che questo possa giovarvi e farvi bene”
L’anziana donna sorride allo stesso modo. Due lunghe braccia sottili tengono ben alto il lenzuolo e avvolgono la mamma come due grandi ali bianche; lei mi sorride come un angelo radioso.
Vestita, ancora fumante, mastico la mela gelata che ormai da tempo si è sciolta per il calore, e aspetto la mamma.
D’un tratto la mamma comincia a affrettarsi come se subito si ricordasse che è non è giorno di festa e che il negozio è ancora aperto.
La sacralità e il calore del bagno l’abbandonano. Veloce, si veste. Le donne le raccontano le loro ultime disgrazie: una le tende il vestito, l’altra, uno scarponcino. Hanno paura che, via la mamma, nei loro cuori restino ancora cose inespresse fino a giovedì prossimo. Con le mani tremanti, avvolgono il pacco della nostra biancheria, e avvolgono pure me, come un pacco.
Gonfia per il calore, posso appena muovermi. La mamma distribuisce le mance e ascolta le lunghe benedizioni con cui le donne ci accompagnano.
“Che questo vi giovi, Altinka! A giovedì prossimo, se Dio vuole! Buon rientro! Stammi bene Bachinka!”
Una grida più forte delle altre e tutte, prontamente, si ricoprono con i loro scialli.
La porticina si socchiude da sola, almeno così pare. Ci fermiamo per un momento sulla soglia. Che freddo! Dal cielo buio scende la neve. Le stelle, i fiocchi di neve risplendono…
E’ giorno o notte? Gli occhi vedono tutto bianco e freddo.
Sul cocchiere e sul cavallo è cresciuta una montagna alta e bianca. Si sono congelati? Il cocchiere sorride. Dalle folte sopraciglia gli cadono briciole di neve.
Il cavallo, rianimato, nitrisce.
“Buon rientro!” Gridano dalla casa dei bagni.
La slitta sussulta.
“Hop! Hop!” Il cocchiere frusta il suo cavallo magro.
Più veloce che all’andata, la mamma attraversa l’ingresso, lascia lì il pacco della biancheria. L’odore della casa, del negozio, le sferza il viso.
“Dio sa cosa è successo qui senza di me!”
Come una colpevole, corre a lavarsi il volto imporporato e si affretta, di nuovo, verso il negozio.
Mi dispiace che il bagno sia terminato così presto.
(traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi)

venerdì 28 marzo 2008

CHRISTIAN BOBIN: L'AMORE E LA SOLITUDINE di Gustavo Micheletti







A tutti gli amatori di Christian Bobin, un articolo di Gustavo Micheletti

L’amore e la solitudine(La loro relazione, in breve, nelle prose creaturali di Christian Bobin)
di Gustavo Micheletti

Le bolle di sapone che questo bambino
Si diverte a soffiar via da una cannuccia
Sono translucidamente tutta una filosofia
”.
Alberto Caeiro
Christian Bobin è uno scrittore e un poeta francese, nato nel 1951 in una città della Borgogna, Le Creusot, dove ha poi sempre vissuto. Una giorno ha scritto, nella pagina d’apertura di un suo romanzo (La folle Allure), la seguente dedica a un amico: “Pour (…) quelques taches d’encre (…) en souriant”, e si tratta, direi, di una dedica illuminante, perché il “sorriso” costituisce forse la tonalità predominante della sua prosa.
Nel vasto panorama della letteratura d’ispirazione cristiana, e in particolare di quella del Novecento, Christian Bobin rappresenta una voce singolare, sia per il tono sommesso della sua scrittura sia per la peculiare spiritualità che la traspare. Il cristianesimo non è per lo più, nell’opera di Bobin, una teoria religiosa dotata di un vero e proprio impianto metafisico e teologico; non è nemmeno una dottrina mistica, sebbene l’elemento mistico ne costituisca, in una forma priva di qualsiasi enfasi, un aspetto rilevante. L’ispirazione cristiana attraversa piuttosto i suoi scritti come un “sentimento della vita” che incessantemente si depura trasfigurandosi in un lieve e fervido disegno stilistico, in una sorta di vigile prosa creaturale.

I suoi romanzi sono esenti da trame complesse e importanti, l’intreccio narrativo è ridotto ai minimi termini; mentre nei suoi libri più filosofici, dove frammenti di pensieri diversi sono tenuti insieme da uno stato d’animo predominante e unitario, protagonisti assoluti sono brevi momenti estrapolati dall’incedere quotidiano della sua vita, sono impressioni leggere, riflessioni animate dalle luci e le ombre che affiorano tra i rami o su un prato al limitare di un bosco. In ogni pagina emerge però sempre la solitudine che accompagna il pensiero nella sua accezione più piena, ovvero quando esso non coincide con un esercizio intellettualistico e privo di vita. Si tratta della solitudine che costituisce la condizione preliminare di qualsiasi incontro d’amore.

Perché è così difficile amare? O più precisamente: cosa rende “tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra sorte”? (cfr. DM,15). La difficoltà che ciascuno incontra nel non oltrepassare la soglia della solitudine di chi pensa di amare: “quelli che sanno amarci – scrive Bobin - ci accompagnano fin sulla soglia della nostra solitudine, e qui si fermano, senza fare un passo in più. Quelli che pretendono di proseguire oltre in nostra compagnia restano di fatto molto più indietro” (ibidem).
Né della solitudine né dell’amore si può parlare come di due condizioni a se stanti, perché private della loro congiunzione svaniscono entrambe in una ridda di voci e pretesti. Ciò che sempre rimane oltre le scorie dei loro fraintendimenti occasionali è anche ciò che le salda nella stessa solidale e silenziosa resistenza all’oblio, nell’indugiare dell’attenzione e del cuore su tutto quanto è cedevole, su tutto ciò che è sul punto di svanire o di perdersi.

“Dal punto di vista dello spirito, – scrive Bobin – non c’è differenza alcuna tra sovrabbondanza e penuria: più ci addentriamo nella solitudine e più abbiamo bisogno di solitudine. Più siamo nell’amore e più manchiamo d’amore. Della solitudine non ne avremo mai abbastanza e lo stesso vale per l’amore – versante ripido della solitudine” (DM, 11). Ma per accedere alla solitudine del puro amore bisogna abbattere l’ostacolo che sorge tra noi e la nostra vita, bisogna neutralizzare “quell’ispessimento di noi in noi stessi che consideriamo una prova di maturità, certezza d’esistere” (ivi, 37), e imparare a procedere “nella nostra vita come se non ci fossimo più, con la leggerezza del gatto tra le erbe alte, o ancora con quell’amaro sorriso dell’innamorata dinanzi al suo cuore violato e derubato” (ivi, 37-39). E’ infatti grazie a tale leggerezza che possiamo sperare di veder nascere all’unisono un amore puro in una pura solitudine, perché questa nascita è sempre anche la condizione di ogni rinascita, ne è l’unica condizione essenziale e irrinunciabile.

“Cosa sperare da un amore puro se non che renda pura la nostra solitudine?” (ivi, 37) – si chiede Bobin. Una volta che abbiamo rinunciato a identificarci con l’ispessimento assordante del nostro io, null’altro. I santi costituiscono la testimonianza più piena di questa possibilità, perché “conoscono una porta tra il mondo e l’amore. Se la varcano in silenzio è perché questa porta e il loro silenzio formano una cosa sola” (ivi, 53). Ma questa porta è accessibile a tutti nella misura in cui ci ricordiamo della natura precaria, fragile e illusoria dell’io, perché “ciò che chiamiamo ‘io’ e a cui teniamo tanto è della stessa natura d’un fiocco di neve che si scontra con migliaia di altri fiocchi simili in una lotta temeraria e terribilmente breve” (ibidem).
E’ questa consapevolezza che può sospingerci a riconoscere la leggerezza silenziosa che è implicita nel significato del verbo “amare”. Questo verbo tanto comune, usato così spesso e sovente impropriamente, appartiene in realtà alla stessa famiglia del verbo “nevicare”. Se infatti ci chiedessimo: “chi è che nevica?”, la risposta sarebbe: “la neve”; e se ci domandassimo: “chi ama?”, analogamente, la risposta dovrebbe essere: “l’amore” (cfr. AU, 106-107). Bobin è, sotto questo profilo, in perfetta sintonia con molti santi cristiani (in particolare con S. Francesco) e non solo cristiani, che hanno visto nell’uomo solo un tramite dell’amore, un suo veicolo occasionale.

Dire “ti amo” vuol dire: “c’è l’amore, là, ora. C’è solo dell’amore e io non ci sono. Io sono soltanto colui che esprime quello che c’è là, dove, momentaneamente, io non ci sono più” (ibidem). E’ l’amore, così radicalmente inteso, che ci rivela sia la solitudine delle cose, il loro bastare a se stesse e il saper riempire “tutto il loro posto”, sia la solitudine che si manifesta in certi nostri gesti assorti, come ad esempio “l’allacciare le stringhe a un bimbo”, “leggere un libro tutto d’un fiato, con la notte intorno”; “cambiare l’acqua ai fiori” (ivi, 109). Gesti silenziosi e quasi inconsapevolmente portati, che si rispecchiano nello stupore per quel che si vede e con cui a poco a poco si può imparare a coincidere, come “l’impronta di un passero sulla neve fresca” (ibidem).

L’amore – scrive ancora Bobin - è questa benevolenza elementare a partire dalla quale una solitudine può parlare a un’altra solitudine e, all’occorrenza, accompagnarla nel buio” (ivi, 119-120), e “la solitudine in noi è come una lama, conficcata profondamente nella carne. Non possiamo estrarla senza ucciderci all’istante. L’amore non revoca la solitudine. La porta a compimento. Le apre tutto lo spazio per bruciare” (EN, 41), perché “l’amore non oscura ciò che ama. Non l’oscura perché non cerca di prenderlo. Lo tocca senza prenderlo. Lo lascia andare e venire” (ibidem).
L’amore è il miracolo di essere un giorno intesi sin nei nostri silenzi e di intendere in cambio con la stessa delicatezza” (RE, 18), l’unica possibile modulazione della relazione che intercorre tra la nascita e la morte, perché “davanti alla morte saremo come alla nascita, radicalmente privi di ogni potere. E’ a tale debolezza in noi che dovrebbe rivolgersi l’amore per non perdersi mai” (ivi, 16), per far fronte alla paura semplice e assoluta che attraversa la vita di ciascuno, alla sua origine esclusiva: la paura di non essere più amati (cfr. FA, 38), tanto che “la certezza d’essere stato amato, un giorno, una volta”, coincide per Bobin con “l’involarsi definitivo del cuore entro la luce” (DM, 19-21).
Questo involarsi del cuore costituisce l’unica resistenza che possiamo opporre alla pesantezza dell’essere che incessantemente ci lusinga con i suoi effetti rassicuranti. Noi siamo rassicurati da ciò che è pesante, certo di sé, adulto, sicuro; siamo rassicurati dalle chiese e dalle religioni: “noi crediamo al sesso, a l’economia, alla cultura e alla morte” (TB, 110). La loro pesantezza ci tiene lontani da quella leggerezza che ci consentirebbe invece di passare “da spirito a spirito” (ibidem) e che potrebbe protenderci verso l’incontro con l’altro.
E’ la leggerezza che ci fa orrore” (ibidem) – scrive Bobin – mentre è proprio nella leggerezza che la solitudine e l’amore si chiamano vicendevolmente per dare corso alla loro opera. E’ nella leggerezza della mancanza, nella sua freschezza sempre incipiente che la vita dell’anima può riempirsi di senso, perché “l’amore è mancanza piuttosto che pienezza. L’amore è pienezza della mancanza” (ivi, 119).
Ma la leggerezza ci fa orrore, e così la mancanza: per questo noi siamo alla perenne ricerca delle ossa dell’essere, di riferimenti strutturanti, di fondamenti; mentre la gioia più grande, l’unica gioia senza perché, priva cioè di una ragione sufficiente riconoscibile, assomiglia piuttosto ad una carezza del vento sulla pelle, al piacere di diventare, almeno per qualche istante, ciò a cui si passa accanto: “un albero che risplende nel verde. Un viso inondato di luce” (EN, 37). Perché “questo basta per ogni giorno. Anzi, è molto. Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede” (ibidem
).

Indice delle sigle bibliografiche
AU = C. Bobin: Autoritratto, trad. it. Milano, 1999.
DM = C. Bobin: Il distacco dal mondo, trad. it. Troina (Enna), 2005.
EN = C. Bobin: Elogio del nulla, trad. it. Troina (Enna), 2002.
FA = C. Bobin: La folle Allure, Paris, 1995.
RE = C. Bobin: Resuscitare, trad. it. Milano, 2003.
TB = C. Bobin: Le tres-bas, Paris, 1992.

Gustavo Micheletti è nato a Lucca nel 1956 e insegna filosofia e storia al liceo "Il Pontormo" di Empoli. E' autore di alcune prose narrative - tra le quali Peppermint (Avagliano , 1997) e Uomini a perdere (Edizioni dell'Erba , 2005) - e di alcuni saggi filosofici - tra cui I pensieri sordi e l'inconscio (Borla, 1991) e Il Gergo dell'essere (Edizioni dell'Accademia lucchese, 2002)- . Ha inoltre collaborato alla Nuova Sardegna, a Cinema Sessanta, a Erba d'Arno e ad alcune riviste filosofiche.

lunedì 24 marzo 2008

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap.XXII IL PROFETA ELIA

disegno di Marc Chagall
Gli episodi legati alla Pasqua, che ho tratto e tradotto da Lumières allumées di Bella Chagall (éd. Trois Collnes, 1948), andrebbero letti in quest'ordine:
cap. XX - LA VIGILIA DI PASQUA
cap. XXI - IL BANCHETTO DI PASQUA
cap. XXII - IL PROFETA ELIA

(Ecco come Bella ricorda il seder di Pasqua:)

Sfiniti dal mangiare e dal recitare la storia dell’Esodo, mastichiamo i pezzi del duro affikòimen[1]. Solo papà è seduto come si conviene a un Re. Appoggiato ai suoi cuscini, gli occhi chiusi, mangia lentamente, come se si stesse chiedendo: “Dove ci porta adesso il Signore?”. D’un tratto, apre gli occhi e rivolge uno sguardo a mamma. Lei cambia posto, sfoglia la Haggadàh – il racconto dell’Esodo –, prende una candela consumata a metà da un candelabro e si rivolge a me:
“Vieni, Bachinka. Prendi con te la Haggadàh!”.
Sussulto come toccata dal fuoco. La paura e l’emozione mi prendono il cuore perché, da sola con mamma, vado incontro al Profeta Elia per aprirgli la porta. Con la Haggaddah aperta in una mano e la candela nell’altra, tranquille, usciamo dalla sala da pranzo. Gli uomini restano seduti a tavola. Non si muove nulla. Tutti ci guardano e ci accompagnano con lo sguardo: sembrano benedirci come fossimo due messaggeri. Attraversiamo il salone buio, l’importante è non arrivare tardi! Ci mancherebbe solo che Elia, il Profeta, arrivasse in casa nostra e trovasse la porta chiusa! La piccola fiamma, resa esigua dal nostro respiro, ci illumina appena la strada e la candela, come se avesse essa stessa paura dell’oscurità circostante, lacrima gocce. Entriamo nel piccolo vestibolo. Il cuore batte ancora più forte: si allontana dal profondo per salire fino al cielo e poi ricadere, per lo spavento, sul pavimento scuro. “Attenzione! Tieni la candela!” mi dice di corsa la mamma e spinge di nuovo la porta che dà sulla strada. La notte buia si riversa dentro, accorre come il vento, soffia sul viso, sulle gonne e quasi spegne la candela, ci fa vacillare.
“Ecco! – penso – Il Profeta Elia deve essere vicinissimo, probabilmente sta per arrivare. Il suo carro volante fa vibrare l’aria con le sue ali. I suoi cavalli infuocati corrono dietro a una nuvola.”
Ho paura di guardare dall’altra parte della porta, di impigliarmi contro qualcosa. Le ombre avanzano sotto i nostri piedi. Scorgo solo un lembo di cielo. Brilla come un velluto nero che ha reso buia la via. Sulla volta buia, una piccola stella nuota come un pesce nell’acqua, e stupisce di luce le tenebre. All’improvviso, guarda dentro la porta e sosta proprio sopra di noi. Mamma tiene gli occhi bassi. Non vede nulla. E se la piccola stella volasse fino dentro alla porta? E se, d’un balzo, Elia o il Messia in persona si mettessero dietro di noi? Tremo. Ascolto. Ovunque silenzio. Cade dal cielo, sulla strada, sopra le case. Non si sente nessun passo. Nei lampioni, una fiammella si fa sempre più sottile. Nella casa di fronte, attraverso le finestre, erra il riflesso di una candela accesa. In ogni casa, adesso, una porta è aperta? E davanti a ogni porta, si trova una madre con la sua figlioletta e una candela in mano? D’un tratto, una confusione alle nostre spalle. Le sedie si muovono. Forse, tutta l’intera tavola si è mossa: gli uomini avranno sentito aprire la porta. Si sono alzati tutti e leggono la Haggadàh a voce così alta che sembrano voler svegliare addirittura la notte. Ce ne stiamo là, seppellite sotto le loro voci. Mi metto vicino a mamma. Vorrei stare incollata alla sua gonna. Se la notte buia ci travolge, io almeno sono con lei! La piccola candela vibra, oscilla e si china da tutte le parti. La prendo con le mani, la proteggo dal vento perché non si spenga, altrimenti restiamo al buio – che Dio ci protegga – di fronte al nero della porta spalancata!
Senza far rumore, mamma recita la Haggadàh : forse è convinta che la notte muta ascolterà meglio le sue preghiere silenziose. Le labbra si muovono appena. Le rughe le solcano il viso. Gli occhiali le scivolano giù dal naso. La candela fonde… Che ci abbiano dimenticate, qui in piedi? Metto la sedia sotto il Libro, sotto le mani di mamma: che le sue ardenti benedizioni scendano su di me e non avrò più paura.
“Profeta Elia! Abbi pietà! Vieni veloce da Lassù! Fa freddo e buio. Entra in casa. Tutti ti aspettano. Ci sarà più caldo, anche per te. Non senti come papà prega? Lui che non grida mai, oggi prega con una voce così forte. Vieni dunque, Profeta Elia! Vieni!”.
Un filo di luce passa attraverso alla porta, fende l’aria. Voglio alzare il capo, vedere ciò che fa mamma, ciò che accade al cielo. I miei occhi sono così colmi di oscurità che non riesco ad aprirli. Quasi non riesco a sopportare la luce e mi si contraggono gli occhi.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!”. Dalla sala da pranzo, scappa fuori un mezzo grido. Le sedie di nuovo si sono avvicinate alla tavola e c’è silenzio.
“Mamma, il Profeta Elia è già entrato in casa?”.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!” esclama lei a mo’ di risposta, sulla porta aperta.
Guardo fuori, nella strada. Il vento si è calmato. Il cielo è cosparso di stelle, grandi, piccole, accorse fino a qui da tutti gli angoli del mondo. Occhieggiano come piccole candele accese con il capo chino. Si incrociano, una trafigge l’altra: tutte oscillano nella volta, come in un baldacchino, sotto cui si sistemerà presto la luna bianca, come una sposa in tutto il suo splendore.
Appena chiusa la Haggadàh, mamma fa un gesto con le mani, come se volesse accarezzare l’aria o far scendere qualcosa dal cielo. Forse, forse… non vuole andar via dalla porta aperta. Dà un’ultima carezza, un bacio e chiude la porta. In silenzio, rientriamo. La frescura della notte ci soffia sulla schiena, come se ci prendesse per le spalle con le sue mani fatte d’aria. Nella sala da pranzo, c’è luce e fa caldo. Tutti sono seduti, gli occhi bassi, mormorano la Haggadàh. Giro il capo qua e là. E’ venuto il Profeta Elia? Il mio cuore colmo d’emozione si fa muto
.
Traduzione di Maddalena Cavalleri
NOTE AL TESTO
[1] Durante il seder vengono utilizzate 3 matzot che vengono tenute coperte da un panno. all'inizio della cena viene spezzata in due pezzi quella di mezzo. Il pezzo più piccolo viene rimesso tra le due rimanenti, mentre il pezzo più grande viene utilizzato come Afikomen, ovvero l'ultimo pezzo di matzah che verrà consumata durante il pasto. Vi sono due usanze riguardo l'afikomen, entrambe con lo scopo di tenere i bambini attenti allo svolgersi della cerimonia. In entrambi i casi l'afikomen viene nascosta: nel primo caso da uno dei bambini per poi essere cercata dagli adulti e, nel caso questi non la trovassero pagando il bimbo per la sua restituzione. L'altra usanza prevede, invece, che a nascondere l'afikomen siano gli adulti e venga premiato il bambino che la ritrova. (fonte: it.wikipedia.org)

sabato 22 marzo 2008

LUCI ACCESE di BELLA CHAGALL: cap.XX LA VIGILIA DI PASQUA

LA VIGILIA DI PASQUA (cap. XX)
brano tratto da Lumières allumées di Bella Chagall, ed. Trois collines, 1948, tradotto da Maddalena Cavalleri con la collaborazione di Lorenzo Gobbi (in questo blog si può trovare il brano che racconta Il banchetto di Pasqua)
La prima a essere catturata dal vortice della Pasqua è Hava[1], la nostra grassa cuoca. Subito dopo il giorno di Purìm[2], inebetita, gira a vuoto. I giorni della settimana se ne vanno sotto terra. Un solo pensiero nella testa: una Pasqua santa. Sin dal mattino presto, tutta sottosopra, si precipita da noi nella sala da pranzo.
“Adesso basta, bambini! Finite veloci di fare colazione e fuori di qui! Sono arrivati i pittori”.
“I pittori, di già? Ma sapete quand’è, Pasqua? Il Messia può forse arrivare prima di Pasqua?”, brontolano i miei fratelli.
“Ebbene sì! Per il Messia, dobbiamo ridipingere la casa! - dice con una smorfia - Invece di predicare, aiutatemi piuttosto a spostare indietro gli armadi”.
“Gli armadi? Niente popò di meno! Una cosa da nulla! Chi sa cosa s’inventa, la nostra Hava! Chi può spostarli da lì?”.
Tutti insieme, facciamo forza contro l’armadio dei vestiti. Vacilla. Dentro, alla rinfusa, i vestiti neri si aggrovigliano con il cappotto di pelliccia di papà e con la volpe di mamma. Il pelo lungo pizzica e fa il solletico agli altri vestiti. Spingiamo l’armadio; ad ogni spinta, scricchiola, geme; le gambe corte grattano e si lasciano dietro una scia bianca.
“Ahi! Basta, fermatevi! - grida uno dei miei fratelli -Vedete Hava, cosa avete fatto! Una gamba si è già incurvata. Adesso, come lo rimettiamo al suo posto?”
“Ah! Signore dell’Universo! Cosa volete da me? Insomma, dobbiamo incollare la carta ai muri!”.
“Hava, ma volete andarlo a chiedere al rabbino se dobbiamo spostare tutta la casa?” – i miei fratelli tornano alla carica.
“Furba, lo sono da molto più tempo di te! Non prendetevela! Ho più cervello io nel mio tallone di quanto non ne abbiate voi tutti, in tutte le vostre teste messe insieme! - Hava s’infervora - Ecco una bella trovata: andare dal rabbino! Dovrei veramente andarci, a chiedergli com’è che ci sono dei simili epicurei
[3] in una casa di ebrei!”.
“Ci siamo! Hava è già arrabbiata!... Andiamo…” I miei fratelli si tirano per le maniche. “Piuttosto, andiamo a vedere in città come cuociono il pane azzimo!”
Subito Hava si gira verso la porta aperta e chiama: “Reb Yidle, Reb Nahman, entrate! cominciate dallo stanzino, dietro la sala da pranzo”.
Sbucano come da una nebbia due ombre bianche, quasi fossero lì ad aspettare il richiamo di Hava. Due pittori, tutti bianchi dalla testa ai piedi. Scarpe, capelli, guance, sopracciglia, tutti inzaccherati di puntini simili a briciole di neve. Uno ha una scala appesa alla spalla; in mano, un secchio di colore. L’altro sostiene a fatica con due mani, come Rotoli sacri, dei rotoli lunghi di carta da parati. I pittori, appena entrati, si precipitano nelle stanze. Spostiamo indietro i tavoli e le sedie: ci apriamo un varco. Sembriamo una compagnia di soldati che marcia con loro. In pochissimo tempo, occupano tutta la casa. Uno si arrampica sulla scala e gratta le cornici; l’altro sul tavolo e pulisce il soffitto con una grossa spazzola: gli cadono addosso schegge di intonaco.
“Ragazzina, vuoi assaggiare un po’ di calce?” Il pittore più giovane mi sorride, dall’alto della scala. La sua barbetta sporca di calce sembra incollata alle labbra bianche. Con loro, c’è allegria! Prima l’uno, poi l’altro, scoppiano a ridere. Cantano, fischiano, mescolano il colore, bagnano le spazzole. La tinta schizza e crepita. Rapidamente, avanti e indietro, uno dà un colpo di spazzola al soffitto; l’altro gli corre incontro: insieme passano i pennelli sul soffitto, come farebbero due uccellini con il loro becco. I pittori se la prendono con i muri. Sembra che vogliano strapparli dalla casa. La vecchia carta da parati cade a terra con fragore e trascina con sé pezzi secchi di intonaco. I muri spellati restano nudi, grattati, sporchi. Ai nostri piedi, colore ovunque. Carte strappate giacciono a terra con i loro fiorellini dipinti. I pittori saltano sopra, tagliano, incollano nuove colonne di carta da parati con nuovi fiorellini. La carta si imbarca, si gonfia, non vuole incollarsi ai muri. I pittori la sferzano con uno strofinaccio bagnato e la carta gonfia si distende su tutto il muro. La cameretta appena dipinta, tappezzata, risplende, tutta linda, come pronta per dei fidanzati. Ma per Hava nulla è ancora abbastanza santificato. Tappezza le pareti con lenzuoli bianchi come se le ricoprisse con scialli di preghiera
[4]. Anche sul pavimento di legno distende un lenzuolo: adesso, per lei, ci si potrebbe portare anche l’Arca Santa.
La prima cosa che portiamo, sono delle ceste di pane azzimo. Due ceste larghe, alte, avvolte con dei panni: ciascun pane azzimo sembra avvolto in un panno. Havah, tutta agitata, corre avanti, indica la strada.
“Attenzione! Qui!... Fermi! Qui, ci sono due gradini. Abbassate piano le ceste. Attenzione, mio Dio! che il pane azzimo non si rompa!”.
Corre attorno alle ceste, tocca, bisbiglia qualcosa, come una benedizione.
“Bene! Con il pane azzimo, un po’ di Pasqua è già entrata in casa”.
Un terzo uomo con la barba lunga, bella, porta per papà una cesta di pane azzimo della vigilia di Pasqua. La stringe tra le braccia, come se portasse le Tavole della Legge. L’uomo non dice una parola. Guarda da tutte le parti, poi nota sul soffitto un gancio da lampada: la appende lassù, in alto, in modo che nessuno ci possa respirare sopra con l’alito di lievito
[5]… La cesta è così ben avvolta di bianco che i vimini non si vedono.
Da questo momento, niente può più entrare nello stanzino. Soltanto Hava può cincischiare laggiù, nelle sue pantofole a treccia. Diventa la signora della cameretta e tutta la famiglia si sottomette senza una parola. Quando Hava passa per la casa, con un grembiule bianco legato addosso, un fazzoletto bianco sul capo, lo sappiamo: va nella piccola stanza. Il viso è teso come se laggiù si preparasse a rovesciare il mondo. Noi ci intrufoliamo da dietro, ma lei si chiude dentro. Ci sbatte la porta sul naso. Ci sediamo su uno degli scalini che portano alla cameretta e ascoltiamo il martellare del pestello di legno.
“Hava! - la supplichiamo attraverso il buco della serratura - Lasciateci entrare! Vi aiuteremo a macinare il pane azzimo”.
Il pestello batte, batte, come se volesse batterci sulla testa.
“Hava! Lo giuriamo! Abbiamo le mani pulite. Le abbiamo appena lavate!”
Il pestello batte ancora più forte. Forse non ci sente? Diamo un colpo alla porta, a ogni colpo di pestello.
“Hava! Cosa vi fa se anche noi, una volta, battiamo con il pestello?”.
Di colpo, la porta si spalanca. Ci spingiamo indietro, ci rovesciamo quasi sui gradini. Sulla soglia, la cuoca si fa sempre più grande, furente, come una nuvola giunta di corsa. Irriconoscibile. Sembra uscire da un mulino, ricoperta di farina.
“Cosa avete da starmi appiccicati addosso? Lasciatemi tranquilla, furfanti! Cosa volete? Contaminarmi in questo modo la Pasqua
[6]! Sciocchi che siete!” sbuffa con il suo fiato bianco. “Ah sì! Che vi lascio venire! E poi cosa ancora? Battere il pane azzimo con mani impure! Non ce la fate ad aspettare fino alla festa? Fuori di qui! …” Con le narici, ci spruzza addosso una nuvola di farina. “Che non vi passi per la testa di avvicinarvi alle ceste!”.
Ha sfogato la sua collera e si è precipitata di nuovo dentro lo stanzino. Il chiavistello si chiude e fa rumore. Di nuovo, ci incolliamo alla porta, appoggiamo gli orecchi al buco della serratura. Dall’interno, adesso, si sente come lo sciabordio di un’acqua tranquilla che si trascina dietro una montagna di sabbia.
“Hava, dateci anche un po’ di farina azzima da setacciare, Hava!”. Mette fuori il capo e, come raggiunta dal fuoco, si scosta da dov’è.
“Allora la smettete sì o no? – grida – La mollate, questa porta?”.
Un gran setaccio pieno di pezzettini di pane azzimo non macinati dondola sul suo ventre. La farina si sparge giù come pioggia sottile: sembra caderle dalla pancia. Uno dei miei fratelli le capovolge il setaccio.
“Ahi! Mascalzone! - dice Hava esasperata - Che le tue mani si secchino! Mongolo!”.
Con la mano già alzata, si ferma e si ricorda che ha in grembo un setaccio di Pasqua.
“Ahi! Maledetti i miei anni! - comincia a gemere - Signore Onnipotente! Già così non so dove sbattere la testa a forza di lavorare! Cos’avete da girare qui? Chi vi ha chiamati?”.
“Ma vogliamo essere d’aiuto…!”.
“Ma cosa mi importa cosa volete! Per quel che ho bisogno di voi! E come mai siete diventati improvvisamente così appiccicati? Una vera famiglia! Vediamo, chi dei due avrà la meglio? Che qualcuno provi ad avvicinarsi alla stanza e io gli….”.
Strana donna! Non fa che imprecare. Quando Hava si lascia andare, è meglio non fermarla. Possiamo prenderci due belle sberle… Può andarlo a dire anche al rabbino… Sa che il rabbino, papà, mamma, tutti le daranno ragione, purché la Pasqua avvenga secondo il rito! Lasciamo Hava tranquilla.
Si calma e si trascina di nuovo verso la cucina. Ad ogni passo, si lascia dietro una traccia bianca di farina, simile a quella di un animale sulla neve… Presto la sentiamo incamminarsi verso la via del ritorno. Tutta curva, trasporta un barile di barbabietole. Il barile oscilla, il succo di barbabietola freme: delle gocce rosse schizzano fuori dove passa. Hava è sfinita. Le gambe grosse sono gonfie. Come possiamo aiutarla? Per lei, tutti sono impuri. Nessuno può avvicinarsi a nulla.
“Hava, dateci da assaggiare almeno un po’ di succo. Sarà più facile da sopportare”. Le corriamo dietro. Agita il capo. Il viso muta dal rosso al nero. Gli occhi si direbbero tasche gonfie di cenere umida. Basta un pizzicotto, e le sgorgano subito le lacrime.
“Ahi!” Hava non si trattiene più. Senza volere, emette un sospiro. “Ahi! Le mie gambe mi uccidono!”. Ancora prima di raggiungere lo stanzino, Hava, di colpo, molla il barile. Resta in piedi, quasi senza conoscenza; fa cenno con la mano di non avvicinarsi al barile…
“Va’ a chiedere scusa!”
“No, tu! Va’ prima tu, parlerai meglio!”. Ciascun fratello spinge l’altro.
Hava si torce le mani.
“Chi può sapere che mani avete! Probabilmente sono piene di lievito!”.
“Cosa? Come? È tanto che non mettiamo qualcosa in bocca!”.
E d’un tratto, solleva il barile. Havah trattiene le lacrime. Se potesse, ci purificherebbe tutti seduta stante.
“Mio Dio, questi bambini! Sempre assaggiare, sempre a leccare!”

Lo stanzino di Pasqua si riempie di dolci gioiosi. Ci tenta, ci attira. Perché Hava deve assaggiare da sola tutte quelle cose buone? Non possiamo permetterglielo. Ma lei, come una gatta, tira l’orecchio. Non ci andiamo? Ha paura di lasciare lo stanzino incustodito. Ci dorme forse anche la notte? Noi bambini ci riuniamo tutti intorno e bisbigliamo. Hava spunta continuamente vicino a noi.
“Cosa ci fate qui? Cosa volete fare?”.
“Nulla! Siamo qui in piedi!”.
“Perché state in piedi qui fermi? Andrete di sicuro da qualche parte!”.
“Da nessuna parte! Dove possiamo andare?”.
Lei brontola e va a vedere cosa succede nello stanzino. Ogni giorno, portano lì prima zucchero di Pasqua, poi sale, noci, prugne, mandorle. In tutti gli angoli, sono sistemati sacchi di tela. Pare che Hava si diverta ad ammassare tutte queste cose buone. Lo fa per farci dispetto. Strana donna! Sin dal primo giorno di Pasqua, ci rimpinza al punto che ci dobbiamo tenere la pancia. E là, ci tormenta l’anima. Ogni giorno è la stessa storia. Abrachka gira intorno alla porticina, si avvicina correndo, si salva.
“Batchka, sembra che oggi abbiano portato dell’uva da Corinto!”.
“No! sa piuttosto di prugne!”.
Hava ci afferra all’istante.
“Cosa avete da annusare qui?”.
“Non si può neanche annusare?”.
“Andate a soffiarvi il naso da qualche altra parte. Se no farò a meno di cucinare qualcosa di buono per la festa. Che cosa potrà mai riuscir bene se vi lascio stare qui?”
Prima se la prende con le casseruole. Per purificarle. In cucina, ogni giorno, spariscono una dopo l’altra, le pentole di rame. Per tutto l’anno, tutte le pentole e casseruole di rame se ne stanno allineate sulla mensola in alto, come generali a una parata. Brillano, luccicano e dalla loro altezza mandano bagliori di fuoco. Verso Pasqua, ormai opache, Hava le tira giù dalla mensola prendendole per la coda: per i manici neri e bruciacchiati. Le trascina dallo stagnino per purificarle. Anche la vecchia brocca dello Shabbat e il samovar usato dove non si versa più neanche una goccia d’acqua, lei li purifica proprio come il samovar che ha bollito e ribollito per giorni e giorni. Forse da lì verrà fuori un pizzico di lievito? Gli utensili da cucina purificati si ricoprono, al loro interno, di una nuova pelle. Hava li porta nello stanzino e li avvolge ciascuno in un panno a parte
[7]. I panni emanano come una brezza di emozione sul resto della casa.
“Bachinka, tu sei già una ragazza grande, tieni, ecco la chiave, va’ e controlla bene l’armadio dei bicchieri. Mi sembra che l’anno scorso ne abbiamo rotto qualcuno”.
Fuori dallo stanzino, Hava adesso dà gli ordini. Un armadio tutto per la Pasqua è incastrato nel muro della sala da pranzo. Rimane chiuso tutto l’anno. Ci si dimentica che è pieno di vita. Apro le ante. Ne esce un odore di cose vecchie. Piatti, calici, bicchieri rinchiusi si destano.
“Cosa manca? Un bicchiere? Un calice?”.
Mi arrampico su di una sedia, ficco la testa dentro alle tre mensole. Conto i calici. Ce ne sono abbastanza per tutti? Faccio il calcolo a mente come se vedessi già ognuno seduto al suo posto. L’armadio dei bicchieri scintilla. Da tutte le parti, bicchieri e porcellane tempestate d’oro. Una mensola di calici. Abbagliante. Bicchieri: grossi, sottili, alti, piccoli. Si guardano gli uni gli altri come in uno specchio. Da un lato, se ne stanno in piedi, profondamente pensosi, resi opachi dai colori del loro cielo, rossi e blu, cristalli di Boemia. L’aroma del vino dell’anno scorso non è ancora svanito. Una spanna sopra gli altri si eleva, come un Re, il calice del Profeta Elia. Lo tocco appena. Ad ogni Pasqua, ho paura che si rompa per tutto il vino che ci versano. Anche se vuoto, sparge intorno bagliori rossi, come gocce di vino. Mi immagino seduta su di un albero su cui cantano e becchettano uccelli rossi e blu che non conosco. Le larghe bottiglie rosse aggiungono ancora più fuoco. Nel loro vetro scarlatto, un’acqua semplice diventerà rossa come sangue. Che succederà quando tutte queste bottiglie e calici verranno posti sulla tavola del banchetto, colmi di vino? La tovaglia bianca si accenderà. Un incendio divamperà. I miei occhi stanchi si arrampicano fino a un’altra mensola. Là, una zuppiera larga, decorata di fiori rossi. È pesante, come sollevarla? Adesso capisco perché le mani di Hava crocchiano quando la porta a mamma colma di brodo e polpettine cicciotelle, che galleggiano come tanti bimbi, col pancino in aria. Vicino alla zuppiera, ci sono dei piatti, un intero negozio di piatti! Controllo quelli più piccoli che si usano per servire cose buone agli invitati. Il mio compito è offrirle. Mi immagino dove devo disporre i dolci di nocciole e di miele, poi le focacce e le mandorle. Al centro di ogni piattino, una mela o una pera dipinte. Colpiscono gli occhi, come fosse frutta vera. Mi confondono. Tutto a un tratto, vedo, da una parte, impacciato, un bricco da latte con il beccuccio spezzato. Mi guardo intorno. Non ce n’è un altro. Quando tornerò al negozio, dirò a mamma che dobbiamo comprarne uno nuovo. Lei mi griderà dietro: “Cos’hai da rompermi la testa con il tuo bricco? Qui, fatichiamo come cavalli per guadagnare quattro soldi e a casa si continua a rubare e a rompere”.
Forse è meglio non parlarne con mamma. Dove troverò ancora un bricco blu come quello, che stia bene con la zuccheriera?

Se vado nel negozio di porcellane, mi perdo. L’aria vibra di tutti i suoi cristalli esposti. Mi specchio ovunque. In un bicchiere, una metà del viso, in un altro mi si allunga il naso, qui si appiattisce. Vicino a me, il proprietario, un uomo alto e grosso. Il suo abito nero non fa intravedere alcun oggetto di cristallo. Si muove tra le cose con leggerezza, toccandole con gli occhi. Ogni tanto, dà un buffetto a un bicchiere. Lo fa per assicurarsi che la merce sia intatta o per stupirmi, per mostrarmi una sua prodezza? Al suo tocco, il bicchiere risuona come un grido nello spazio. Il suono si propaga per tutto il negozio. Tutto il vasellame vibra. Alza il dito, il suono va a rannicchiarsi da qualche parte, in un angolo e poi, di nuovo, il silenzio. Si sentono solo i nostri passi. Dimentico quello che devo comprare. Hava mi ha chiesto di portarle qualcosa per la cucina.
“Guarda! - sussurra al mio orecchio il negoziante - “Guarda i nuovi bicchieri da liquore. Sono appena arrivati. Carini, vero?”. Me li butta lì senza badarci, e mi gira ancora di più la testa. I bicchierini sottili mi fanno l’occhiolino come teneri fiori. Possono scivolare giù dalla mensola, al primo soffio di vento. Il loro vetro affusolato è una tentazione. Verrebbe voglia di posarli sulle guance, sulla bocca. La voce di Hava risuona nelle orecchie:
“Ancora dei bicchierini?Per farne cosa? Per chi? Non c’è nemmeno il posto per metterli. Ma hai dimenticato di comprare per me qualche piatto semplice semplice? A cosa serve un bicchierino come questo?”.
Hava alza un bicchierino in controluce. “Guarda! Si scioglierà nell’acqua! Quanti di questi bicchierini mi sono rimasti tra le mani, nello strofinaccio?”.
“Ma sono davvero bellini! Non avevo il coraggio di lasciarli in negozio…”
Che mi gridino pure dietro! Non ci sono altre cose superflue in casa?

NOTE AL TESTO di Lorenzo Gobbi[1] Hava significa “sorriso, risata”, ed è un nome femminile molto diffuso.
[2] Simile al nostro carnevale, è una festa gioiosa che ricorda la salvezza degli ebrei per opera della regina Ester: precede di poco la festa di Pasqua.
[3] “Epicureo” significa propriamente seguace della dottrina del filosofo greco Epicureo (III-II sec. a. C.), che negava la provvidenza degli dei e l’immortalità dell’anima; in senso popolare, significa “miscredente”, “libertino”.
[4] Per pregare, soprattutto nella sinagoga ma anche a casa, gli ebrei indossano uno scialle particolare, detto tallèt, di colore bianco con righe azzurro scuro ai bordi e frange ai quattro lati che ricordano i precetti della Bibbia; solo un ebreo circonciso adulto può indossarne uno.
[5] Prima della Pasqua, le regole del rito ebraico impongono di eliminare dalla casa ogni traccia di chamètz, cioè “lievito”: per questo, gli ebrei puliscono perfettamente la casa, spostando i mobili e rivoltando i materassi (da qui, la tradizione della pulizie di primavera, che sono un uso ebraico). Per chamètz si intende non solo il lievito propriamente detto, ma tutto ciò che è cibo e può andare a male: briciole di pane, dolci, farina, pasta, riso… solo il sale non va a male, e per questo, nella cena di Pasqua e nei riti della vigilia del Sabato, rappresenta il Patto di alleanza tra Dio e il suo popolo (il patto si chiama, in ebraico, Berìt). La preoccupazione dell’uomo è che, tramite il fiato o la saliva delle persone, qualche minima traccia di chamètz raggiunga il pane, rendendolo meno santo.
[6] La preoccupazione di Hava è che, con le mani non lavate, i ragazzi possano portare nella stanza dove lei prepara il pane per la Pasqua delle tracce di Hamètz, e così rendano impuro, contaminato dallo chamètz, ciò che lei sta preparando.
[7] E’ importantissimo che gli utensili da cucina che verranno usati per preparare la cena di Pasqua non si contaminino in nessun modo, dopo essere stati puliti: non devono, cioè, venire in contatto con cibo o resti di cibo (con tutto ciò che è chamètz). Per questo, appena puliti (cioè appena purificati) vengono avvolti in panni bianchi puliti).


martedì 18 marzo 2008

CHRISTIAN BOBIN: LA VOCE NELLA RETE

Foto di André Dhotel (1900-1991)


Foto di Jean Follain (1903-1971)



CON GLI AMICI DI SEMPRE: ANDRE DHOTEL E JEAN FOLLAIN, ALLA RADIO SVIZZERA DI LINGUA FRANCESE.
Ho provato a cercare in internet dei video dedicati a Christian Bobin.
“ubujubu”, questo è il nome dell’autore che inserisce in youtube dei brevissimi video sullo scrittore francese: montaggi di immagini che accompagnano la voce di Bobin, che si possono scaricare dal sito della radio svizzera in lingua francese.
A qualcuno che ringrazia “ubujubu” per aver messo a disposizione queste perle, “ubujubu” risponde:

Monsieur Bobin le dimanche matin sur les ondes de la radio suisse romande (di lingua francese)- espace 2 –
Un régal
Je vais essayer de poster les autres chroniques,il y en a beaucoup, beaucoup”

Bobin la domenica mattina sulle frequenze della radio svizzera di lingua francese – espace 2.
Un piatto prelibato.
Proverò a postare altri episodi, ce ne sono molti molti


Il sito della radio svizzera è:
http://www.rsr.ch/, nello spazio della ricerca è sufficiente digitare Christian Bobin per veder comparire la pagina con tutte le sue trasmissioni registrate:

http://www.rsr.ch/search?SearchableText=christian+bobin&x=10&y=11

La trasmissione non dura più di quattro cinque minuti: “un piatto delizioso” che nutre lo spirito e la nostra vita. Brevi riflessioni dense di luce, come è la prosa di Bobin.
Poche righe che aiutano a vivere e a riflettere.
Ma anche, e soprattutto, a sorridere.

Ne riporto di seguito qualche breve traccia:
Hector et Marianne

Bobin racconta una storia di André Dhotel (1900-1991): un uomo parla agli uccelli che gli rispondono. Come avviene? Semplicemente, egli va nella foresta e attende, attende fino a quando un pettirosso o delle rondini gli rispondono ma la storia continua…
André Dhotel è l’amico e scrittore, che accompagna Bobin nella vita come nei libri.
Ascoltando il racconto, si capisce quanto Bobin si sia ispirato a questo scrittore (che non è ancora stato pubblicato in Italia). Ha vinto il premio Femina nel 1955 con Le Pays où l'on n'arrive jamais, il premio de l'Académie française nel 1974 e il Grand prix delle letteratura nel 1975.
Grande amico di Jean Follain, un altro autore molto amato da Bobin.

Il video su youtube è rintracciabile su:http://video.google.fr/videoplay?docid=-8050837649106160908&q=ubujubu&total=15&start=0&num=10&so=0&type=search&plindex=0
Jean Follain et l'écritureIn questi pochi minuti, Bobin prova a rispondere alla domanda che continua a tornare nelle tante lettere che gli scrivono. Questa è la domanda che pongono sempre i bambini quando incontrano uno scrittore.
In tutti i suoi libri incontriamo tentativi di risposta.
Per Bobin difficile e scoraggiante rispondere: perché un boxer continua a dare pugni all’avversario e a fatica smette di giocare quando è sul ring?
Non si decide di scrivere: si risponde a qualcosa, si è come “costretti” a rispondere a qualcosa che ci chiama. Lo scrittore è come colto da “visioni”: lembi di vita comune, nulla di straordinario, ma che si presentano come sono, illuminati da ciò che li distruggerà. Lo scrittore cerca di riportare questi piccoli lembi destinati a scomparire sulla propria pagina.
Per meglio far capire cos’è un’ “apparizione”e dare ragione dello scrivere, egli legge un brano di Jean Follain (1903-1971) tratto L’épicerie de l’enfance, pubblicato da Fata Morgana: è un ritratto di una maestra della scuola elementare intriso di fragilità e di vita.

Il video è rintracciabile qui:http://www.youtube.com/watch?v=_-LW2vmnWkE&feature=related

A onor di cronaca, di Jean Follain, è appena stato pubblicato (febbraio 2008) dalla San Paolo, Curato d'Ars: Quando un uomo semplice confonde i sapienti, tradotto da Gabriella Fiori.

Appena ho un po’ di tempo, ne posterò degli altri.

venerdì 14 marzo 2008

FRANÇOIS-RÉNÉ DE CHATEAUBRIAND: UN ARISTOCRATICO A GERUSALEMME – 1806 (7^ parte) : IL MURO DEL PIANTO E LA VALLE DI GIOSAFAT












Foto 1: Antica edizione dell' Itinéraire de Paris à Jérusalem de Chateaubriand
Foto 2: Il Presidente francese Nicolas Sarkozy riceve il Presidente Israeliano Shimon Perès nella sua visita ufficiale in Francia (marzo 2008)
Foto 3: Pianta di Gerusalemme antica
Foto 4: A Gerusalemme, la chiesa di Sant’Anna e la Piscina Probatica
Foto 5: A Gerusalemme, la Piscina Probatica
Foto 6:Il Muro del pianto oggi
Foto 5: Il Muro del Pianto – 1845 H. Bartlett
Foto 7: Il Monte Sion oggi
Foto 8: La Valle di Giosafat e le Tombe dei re.
Foto 9: Valle di Giosafat


SARKOZY E IL DONO SCELTO PER PERES

Leggo sulla pagina in internet de Le Figaro, dell’11 marzo 2008, che in occasione della visita ufficiale in Francia del Presidente israeliano Shimon Pérès, il Presidente francese Nicolas Sarkozy ha scelto come regalo da donare al suo ospite, una stampa raffigurante l’aristocratico francese Chateaubriand e quattro volumi antichi dell’ Itinéraire de Paris à Jérusalem pubblicato in Francia nel 1802.

Chissà se Sarkozy, e i suoi consiglieri, conoscono il contenuto del libro. Il titolo è chiaro: si tratta del viaggio che il giovane aristocratico francese compì a Gerusalemme nell’ottobre del 1806 e molto probabilmente, ciò basterebbe a sancire il legame forte tra la Francia e Israele, secondo i politici d’oltralpe.
Ma come vengono raccontati gli Ebrei dal nobile cristiano francese, paladino e difensore della fede cristiana? Un pensatore che aveva da poco pubblicato in patria Le Génie du Christianisme e che partiva per conoscere i luoghi prescelti da Dio per la sua Incarnazione in Gesù Cristo?
Chissà se Perès poi se lo legge sul serio…

Di seguito, anticipo alcune riflessioni, appunti e brani da me tradotti che possono in parte darci un’idea di come Chateaubriand percepisse il mondo ebraico agli inizi del XIX° secolo. Se me ne occupo nella mia bibliothèque, è perché il suo pensiero mi appare più che mai attuale. Ciò non significa che io sia d’accordo con ciò che egli scrive, ma che i suoi “reportages” d’inizio secolo, possono dare al lettore del secondo millennio, nuovi e inesauribili spunti di riflessione, dal momento che anche un capo di stato lo sceglie come dono, consapevolmente o meno, per il presidente dello Stato d’Israele!

Curiosa, agli occhi di noi contemporanei, è la suddivisione che Chateaubriand ci presenta delle antiche vestigia presenti a Gerusalemme. Il suo interesse, come già abbiamo visto dal suo itinerario di viaggio, non è rivolto alla Palestina, ma a Gerusalemme, dove c’è il luogo Santo per eccellenza: la tomba vuota di Gesù Cristo: il Santo Sepolcro. Da vero paladino della fede, va direttamente al cuore della cristianità per vedere con i propri occhi, il luogo che ha cambiato il corso della storia.

Egli, in modo molto preciso, dettagliato e diligente, mette a conoscenza il lettore dei diversi monumenti che si possono visitare a Gerusalemme, distinguendone sei tipi:
1. monumenti prettamente ebraici;
2. monumenti greci e pagani ai tempi dei romani;
3. monumenti greci e romani al tempo del cristianesimo;
4. monumenti arabi o moreschi;
5. monumenti gotici sotto i re francesi;
6. monumenti turchi.

Sentiamo cosa ci racconta:
Veniamo ai primi.
Non si vede più alcuna traccia di questi a Gerusalemme, eccezion fatta per la piscina Probatica; annovero infatti i Sepolcri dei Re e le Tombe di Assalonne , di Giosafat e di Zaccaria, nel numero dei monumenti greci e romani eseguiti dagli Ebrei.
E’ difficile farsi un’idea chiara del primo e del secondo Tempio, da ciò che riporta la Scrittura e dalla descrizione che ne fa Giosafat; ma due cose si intuiscono: gli Ebrei avevano una predilezione per ciò che è cupo e grande, come gli Egiziani; essi amavano i piccoli dettagli e gli ornamenti ricercati, sia nelle incisioni su pietra sia negli ornamenti in legno, in bronzo e in oro.
Il Tempio di Salomone, essendo stato distrutto dai Siriani e il Secondo tempio ricostruito da Erode, rientra nell’ordine di quelle opere per metà ebraiche e per metà greche, di cui presto parlerò. Nulla dunque resta dell’architettura primitiva degli Ebrei a Gerusalemme, al di fuori della Piscina Probatica.
[1] […]. Giuseppe (Flavio) chiama questa piscina “stagnum Salomonis” (in latino nel testo), il Vangelo la chiama Probatica, perché venivano purificate le pecore destinate ai sacrifici. Fu al bordo di questa piscina che Gesù disse al paralitico: “Alzati, e prendi il tu letto”
Ecco tutto ciò che resta oggi della Gerusalemme di Davide e di Salomone.

[…] I monumenti della Gerusalemme greca e romana sono più numerosi, e formano una classe nuova e molto singolare nelle arti. Inizio con le tombe della valle di Giosafat e della valle di Siloé. Quando si attraversa il ponte del torrente di Cedron, si trova ai piedi del mons Offensionis il sepolcro di Assalonne.
[…]
[2]

Passiamo ora al terzo tipo dei monumenti di Gerusalemme, ai monumenti del cristianesimo prima dell’invasione dei Saraceni. Non ho più nulla da dire poiché li ho descritti quando ho dato conto dei luoghi santi. Farò soltanto una sottolineatura: poiché tali monumenti debbono la loro origine a dei Cristiani che non erano Ebrei, essi non serbano nulla del carattere mezzo-egiziano, mezzo greco che ho osservato nelle opere dei principi Asmonei e di Erode; essi sono semplici chiese greche del tempo della decadenza dell’arte.
[3]

Quindi i monumenti che fanno parte della storia ebraica, come ad esempio le Tombe dei Re e di Assalonne, sono “percepiti” come espressione dell’ arte romana: “pagana”, perché eretti prima del cristianesimo. Chateaubriand, come già sappiamo, dispone delle fonti della sua epoca che non smette mai di citare.
[4].
In viaggio, abbiamo incontrato molti gruppi di giovani israeliani (ragazzi e ragazze), in divisa militare, radunati presso una di queste tombe per ascoltare una visita guidata sulla loro storia. (Nella foto n 8 che ho scelto, forse è possibile scorgerli in lontananza).

Nonostante Chateaubriand abbia studiato l’ebraico, come cristiano e studioso, si è formato sulle traduzioni greche e latine dei testi sacri, l’influsso della cultura di cui queste lingue sono portatrici, con le categorie mentali che le caratterizzano, ha profondamente formato non solo la mente del giovane pensatore ma anche il cristianesimo occidentale nelle sue fondamenta, facendogli completamente rimuovere le radici ebraiche, che solo con il papato di Karol Woytila hanno cominciato a essere riconsiderate dalla massa dei fedeli cattolici
[5].
Chateaubriand, a mio avviso, incarna tutta la grandezza e il limite di questo tipo di cristianesimo, fino a divenirne il simbolo.

Tutto il resoconto di Chateaubriand è caratterizzato da uno sguardo fortemente cristiano: tutto per lui è in funzione della storia della salvezza. Quindi anche gli Ebrei e la loro esistenza.
Egli, sembra infatti rimanere indifferente all’aspetto religioso “di ciò che resta del Tempio”, oggi diremmo Muro Occidentale o Muro del Pianto. D’altra parte, è bene ricordare che quando giunge in Egitto, in pieno Ramadam, non annota nulla nei suoi appunti di viaggio: nemmeno lo stupore per le diverse abitudini religiose.

Edward Said continua a sottolineare l’indifferenza di Chateaubriand nei confronti della realtà che incontra, non si stanca di sottolineare, che per lui, tutto è in funzione della storia della Salvezza.
Non vede e riconosce nulla per ciò che è. Infatti, non andrà a visitare il Muro del Pianto, e se ci va, non ce ne parla; egli non lo nomina mai come luogo di preghiera caro agli ebrei. Ci racconta sì del Tempio ma solo per presentare, come ho già detto, i monumenti ebraici di Gerusalemme, che alla fine sono solo due: quel che resta del Tempio e la piscina Probatica.
Ma il Tempio è nominato per ricordare Gesù e le sue visite al Tempio oppure per raccontare la storia della Moschea del Tempio o di Omar- così chiamata, perché costruita sulle sue rovine.
E’ chiaro quindi che su quel che si intravede ancora del Tempio non posa affatto uno sguardo “ebraico”, ma, al contrario, totalmente cristiano.

E’curioso a questo punto far rilevare che la lunga descrizione dedicata al Tempio di Salomone e alla sua storia, è apparsa solo nelle prime edizioni dell’Itinéraire, in seguito, è stata inserita in nota dall’autore stesso.
[6] Forse non era reputata così importante e significativa da lui e dal suo pubblico che lo leggeva in Patria.

Certo, egli è uomo del suo tempo, un cristiano cattolico non certo figlio del Concilio Vaticano II né del papato di Karol Woytila!
La cristianità allora, viveva rapporti diversi con l’Ebraismo. Non esisteva ancora lo Stato di Israele e il Muro non aveva davanti a sé la grande spianata che gli conferisce un’imponenza e un’importanza che oggi può essere percepita da qualsiasi visitatore o pellegrino.
[7]

Ma ciò che colpisce il pellegrino Chateaubriand, non è il Muro del Pianto ma la Valle di Giosafat, dove si trovano le Tombe dei Re, (che egli reputa monumenti pagani).
L’aspetto della vallata è di desolazione sia nella parte occidentale che nella parte orientale (Monte degli ulivi e dello scandalo). “Le pietre del cimitero degli Ebrei si mostrano come un ammasso di relitti ai piedi della montagna dello scandalo, sotto il villaggio arabo di Siloan”.
La parte occidentale è una grande falesia di gesso che sostiene le mura gotiche di Gerusalemme; sopra si intravede Gerusalemme. Di fronte: il Monte degli Ulivi e dello scandalo, essi hanno un colore rossastro scuro e sui fianchi deserti, sparute vigne nere e bruciate, boschetti di olivi, cappelle e oratori e rovine di moschea. Così ci descrive il panorama che si distende davanti ai suoi occhi.

Chateaubriand è fortemente impressionato da questo spettacolo di desolazione: la tromba del Giudizio Universale sembra essere già suonata. Qui giace la tomba di Giosafat e la Valle di Giosafat (o Valle dei Re) sembra servire da cimitero a Gerusalemme: gli Ebrei vengono a morire qui da tutte le parti del mondo, ci informa il nostro viaggiatore.
La valle è chiamata anche Valle dei Dolori: qui Davide compose i canti del lutto, Geremia fece sentire le sue Lamentazioni e Gesù Cristo iniziò la sua passione nella solitudine .

Valle così piena di misteri che secondo il profeta Gioele, tutti gli uomini vi devono comparire un giorno davanti al giudice temibile. Congregabo omnes gentes, et deducam eas in vallem Josaphat, et disceptabo cum eis ibi (Raccoglierò tutte le genti, e le porterò nella valle di Giosafat, e là emetterò un giudizio con loro)
[8]. È ragionevole, dice il padre Nau, che l’onore di Gesù Cristo sia riparato pubblicamente nel luogo dove è stato privato della vita attraverso tanti obbrobri ed ignominie e che egli giudichi giustamente gli uomini, nel luogo dove essi l’hanno giudicato così ingiustamente.”[9]

Anche poco prima di partire, si sofferma nella valle di Giosafat ai piedi della tomba di Giosafat, rivolto al Tempio per immergersi nella lettura della grande tragedia di Racine Athalie(1691)
Sceglie l’ultima tragedia del grande drammaturgo francese di ispirazione biblica, il riferimento è al passaggio del Libro dei Re. Athalie è una donna che ha preso il potere e ha instaurato il culto di Baal. Ella vuole distruggere la stirpe di Davide, ma perirà sotto le sue stesse trame. Tutta la scena dei cinque atti è il tempio di Gerusalemme.
Chateaubriand si lascia trasportare dai versi di Racine e gli sembra di sentire le voci dei profeti ma più che la Parola a smuoverlo sono i versi di Racine.
[10]
Dopo averli assaporati, con lo sguardo rivolto la tempio, se ne tornerà al convento dei francescani.
AL MONTE SIONNel suo girovagare per Gerusalemme, Chateaubriand si reca anche al Monte Sion dove incontra ebrei vestiti di stracci, seduti in mezzo alla polvere di Sion mentre cercano gli insetti che li stanno divorando, con gli occhi fissi sul Tempio.
Da studioso, ha fatto delle ricerche sulla condizione degli Ebrei a Gerusalemme dalla distruzione del Tempio di Tito fino ai suoi giorni ma preferisce rimandare il lettore ad altre opere, in particolare a quella dell’abate Guenée, uno studioso (1717-1803), autore di una eruditissima Recherche sur la Judée.
Chateaubriand, non ama fare come quei viaggiatori a lui contemporanei che attingono da altri autori senza citarli, per far sfoggio di un’ erudizione in realtà “rubata”. Egli, al contrario, essendo venuto a conoscenza di quest’opera che si trova pubblicata nelle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni, dichiara l’inutilità dei propri studi e delle proprie ricerche e, per questo, decide di non soffermarsi su questo aspetto, rimandando i lettori direttamente all’opera segnalata.
[11]

Un giorno, camminando attorno al Monte Sion, vorrebbe comprare una torah in una sinagoga (Chateaubriand aveva studiato un poco l’ebraico), ma il rabbino non glielo permette. L’episodio ci viene riportato così come è accaduto, senza alcun rancore o giudizio morale sul rabbino o sulle abitudini e usanze ebraiche.
Ciò che impressiona l’aristocratico francese è la miseria del quartiere e delle case, nient’altro.
Riguardo agli Ebrei di Gerusalemme, egli così annota nel suo Itinéraire: “Hanno osservato che gli Ebrei stranieri che si fissano a Gerusalemme, vivono per poco tempo. Quanto a quelli di Palestina, sono così poveri che ogni anno vanno a fare delle ricerche tra i loro fratelli d’Egitto e del Marocco”
[12]

Poco prima di lasciare la Palestina, egli annota alcune considerazioni sul popolo ebraico, che, come sempre, trasfigura in funzione della storia della salvezza:

Mentre la novella di Gerusalemme esce così “dal deserto, brillante di chiarezza”, buttate l’occhio tra la montagna di Sion e il Tempio; vedete questo piccolo popolo che vive separato dal resto degli abitanti della città. Oggetto particolare del disprezzo di tutti, china il capo senza lamentarsi; subisce tutte le umiliazioni che gli vengono fatte in pubblico, senza chiedere giustizia, si lascia aggredire senza lamentarsi; gli chiedono la testa: la presenta al cimitero. Se qualche membro di questa società messa ai margini, giunge qui per morire, il suo confratello lo seppellirà senza farsi vedere durante la notte, nella valle di Giosafat, all’ombra del tempio di Salomone. Penetrate nella dimora di questo popolo, lo troverete in una miseria spaventosa, mentre fa leggere un libro misterioso a dei bambini che, a loro volta, lo faranno leggere ad altri bambini. Questo popolo continua a fare ciò che faceva cinquemila anni fa. Ha assistito diciassette volte alla rovina di Gerusalemme, e nulla può scoraggiarlo; nulla può impedirgli di volgere lo sguardo da Sion. Quando vediamo gli ebrei dispersi sulla terra, secondo la parola di Dio, ne restiamo probabilmente sorpresi: ma per essere còlti da uno stupore soprannaturale, bisogna ritrovarli a Gerusalemme; è necessario vedere questi legittimi padroni della Giudea schiavi e stranieri nel loro stesso Paese; è necessario vederli mentre attendono sotto tutte le oppressioni, un re che deve venire a liberarli. Schiacciati dalla Croce che li condanna e che è piantata sulle loro teste, nascoste vicino al tempio, di cui non resta pietra su pietra, essi dimorano nella loro deplorevole cecità. I Persiani, i Greci, i Romani sono scomparsi dalla terra; e un piccolo popolo, la cui origine precedette quella dei grandi popoli, esiste ancora, senza essersi mai mescolato, nelle rovine della propria patria. Se qualcosa, tra le nazioni, porta in sé un carattere miracoloso, noi riteniamo che esso stia qui. E cosa può suscitare maggiore meraviglia, persino agli occhi del filosofo, se non questo incontrarsi dell’antica e della nuova Gerusalemme ai piedi del Calvario: la prima mentre si affligge al cospetto del sepolcro di Gesù Cristo risuscitato¸ la seconda, mentre si consola presso l’unica tomba che non avrà nulla da restituire alla fine dei secoli!”
[13]

Chateaubriand è un uomo intriso di una cultura tutta francese e cattolica che guarda e sosta in quei luoghi che hanno ospitato la nascita del figlio di Dio, con il cuore e lo sguardo di un mondo che guarda solo in funzione di se stesso e della propria storia.
Gerusalemme e i suoi luoghi lo confermano, infatti, della bontà del proprio mondo.
Egli non sembra percepire la grande apertura del Vangelo e non fa proprio lo sguardo che se assunto nel profondo, squarcerebbe tutte le coordinate che ognuno ha assimilato dentro di sé.

In queste pagine, incontriamo un uomo del XIX° secolo chiuso nel proprio universo: un viaggiatore che si vede confermare nelle proprie certezze, esaltando così la percezione di sé e della cultura di cui è espressione.
Eppure, a mio modestissimo parere, non è troppo lontano da tanti cattolici tradizionalisti che spesso occupano le pagine dei giornali per qualche manifestazione, invettiva pro-cristiana e, ahimé, anti-ebraica.
[14]

Chateaubriand, dopo aver ripercorso a suon di numeri e immagini atroci, il massacro che Tito fece del popolo ebraico, facendo riferimento alla fonte dell’abate Guenée, così scrive:

Dio ascoltò il voto degli ebrei e per l’ultima volta esaudì la loro preghiera, dopo di ché distolse lo sguardo dalla Terra Promessa e scelse un nuovo popolo
[15]
NOTE AL TESTO
[1] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.390-391. La Piscina Probatica o Piscina di Betsheda: “Il Vangelo racconta che un giorno Gesù venne condotto alla Piscina Probatica, nel quartiere di Bethesda, a nord di Gerusalemme, e che là guarì uno dei paralitici che si immergevano nelle sue acque. Ai tempi di Gesù la piscina era formata da due vasche rettangolari, profonde 20 m e circondate da un portico: queste grandi cisterne fornivano al Tempio, che non è lontano, l'acqua per le abluzioni rituali. La piscina deve il suo nome al greco probatiké (delle pecore), con cui si designava una porta nelle mura della Città Vecchia: con il passare dei secoli è stata trasformata prima in un tempio romano, consacrato al dio della medicina Esculapio, e quindi in una basilica paleocristiana dedicata alla Madonna. Oggi è un'area archeologica di proprietà dal 1856 del governo francese, ed è affidata ai Padri Bianchi.(http://www.sapere.it)/.”, insieme alla Chiesa di Sant’Anna aggiungiamo noi. Tale restituzione da parte dei Turchi alla Francia avvenne a seguito della Guerra di Crimea (1853-1856) come segno di riconoscenza per essere stati alleati, insieme agli inglesi, contro la Russia zarista.
[2] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.391
[3] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.399
[4] Oggi l’Archeologi in Israele e nei Territori occupati è divenuta una vera e propria arma da guerra. Segnalo un articolo a mio avviso molto interessante, che ovviamente propone il “suo” punto di vista a questo proposito (!)http://www.custodia.org/spip.php?article2416&lang=it : Archeologia alternativa: “da Siloe a Silwan”. Preoccupati del sistematico uso politico delle ricerche archeologiche e del discredito a cui di conseguenza è sottoposta l’archeologia stessa, alcuni archeologi hanno deciso di fondare un’organizzazione con lo scopo di opporsi a questa deriva ideologica. Il gruppo si chiama “Da Siloe [il nome ebraico] a Silwan [il nome arabo]”. Messo on line il lunedì 18 febbraio 2008 da Eugenio
[5] Consiglio un bellissimo libro “Il Dio in armi”, di Jill Hamilton, una storica inglese che dimostra quanto la religione protestante , da sempre attenta all’Antico Testamento, abbia non poco influenzato i politici inglesi durante la politica estera del mandato britannico, e non solo. A suo parere, la cultura protestante ha dato un impulso non indifferente alla creazione dello Stato di Israele.
[6] Nelle prime edizioni dell’Itinéraire, si trova una descrizione dettagliatissima del tempio e dello stile. Nelle edizioni successive tale descrizione vien soppressa. Oggi fa parte del corredo di note della pubblicazione Gallimard.
[7] La grande spianata davanti al Muro Occidentale è stata fatta dopo la vittoria di Israele della guerra dei sei giorni (1967). Il muro si trovava racchiuso e confinato da case: molte di queste case erano abitate dalla popolazione araba. Dalle foto che ho scelto, si può vedere il muro come è oggi e come era prima del 1967. “Il 10 giugno le ruspe israeliane cominciarono a radere al suolo il quartiere medievale Mughrabi nella Città Vecchia cancellandolo completamente nel giro di quattro mesi con la distruzione di 135 case abitate da circa 650 mussulmani . L’operazione aveva lo scopo di realizzare una grande piazza di fronte al Muro occidentale che permettesse ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro del pianto” di Maurizio Debanne.
[8] Gioele, III,2.
[9] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 359
[10] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 407-408
[11] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 382
[12] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 381
[13] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 449-450
[14] (A questo proposito rimando – per chi ne avesse tempo e voglia - alla lettura del post del 9 febbraio (titolo La preghiera per gli Ebrei), che poco tempo fa mio marito, Lorenzo Gobbi, ha scritto in occasione del cambiamento voluto da papa Benedetto XVI nella preghiera del venerdì Santo, nel testo della Liturgia che si celebra in latino, http://www.lattenzione.blogspot.com/)
[15] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp. 369