martedì 19 ottobre 2010

DUE di IRENE NEMIROVSKY



In questi ultimi cinque anni, la casa editrice Adelphi ha iniziato a pubblicare tutte le opere di Irène Némirovsky (1903-1942), prima scrittrice ad aver vinto nel 2004, in Francia, il premio Renaudot con il romanzo Suite francese, pubblicato postumo, a più di cinquant’anni dalla morte dell’autrice: un’eccezione nel panorama dei premi letterari francesi destinati, di norma, agli scrittori viventi. Scrittrice di grande talento, di origine russa ma di lingua francese, negli anni Venti inizia a pubblicare diversi romanzi che le aprono le porte dei salotti letterari parigini. Nonostante la fama e le numerose raccomandazioni richieste da lei e dal marito Michel Epstein, negli ambienti letterari e politici, la Némirovsky verrà deportata ad Auschwitz. Epstein, anch’egli ebreo, riuscirà a lasciare alle due figlie una grande valigia contenente diversi manoscritti della loro madre.
Ultimo, in ordine di apparizione in Italia, il romanzo Due (Adelphi, Milano 2010), dove scorrono incandescenti dodici anni di vita di una giovane coppia appartenente all’alta borghesia: Antoine Carmontel e Marianne Segré. Con mente veloce, acuta e lucida, la Némirovsky narra gli anni della loro giovinezza folle e smisurata in contrasto con gli anni della maturità, quando sorgono i primi rimpianti su ciò che non è stato ma che avrebbe potuto essere e i primi ricordi di un tempo che non potrà più tornare. Antoine e Marianne, due giovani ventenni con tanta voglia divertirsi e con il desiderio di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra; figli di genitori che se ne vanno di festa in festa, alla ricerca del piacere, della bellezza, e della felicità dei vent’anni svaniti per sempre.
La Némirovsky ci restituisce una superba descrizione degli “années folles”: ne viviamo l’atmosfera, ne ammiriamo gli abiti e ci lasciamo sedurre dalle feste e dai balli che una società di giovani rampolli si può comunque permettere: “Uscivano da una casa calda e scintillante di luci; fuori pioveva, spuntava appena l’alba. La strada era triste, buia, sordida. Brandelli di un vecchio manifesto strappato volavano nel vento del mattino: «Loro hanno dato la vita. Voi date il vostro oro.» Tutto questo era vecchio, dimenticato”. Ma nonostante le luci e le atmosfere danzanti, ci sentiamo addosso la freddezza che dimora nelle famiglie dell’alta società, tutte tese a mantenere la propria posizione sociale. Dove l’amore diviene sinonimo di potere, egoismo e seduzione. Dove le dinamiche tra le coppie si nutrono della fragilità, delle paure e dei vuoti affettivi, ma anche della volontà di lasciarsi vivere e di vivere fino in fondo ogni forma di piacere, lasciandosi guidare dall’impulso e dal gioco della seduzione, il solo capace di rendere vivi e giovani i protagonisti. Due: un matrimonio dove l’altro è percepito fino a una certa soglia. Dove tra i coniugi vige il patto di non scalfire le rispettive barriere per fare in modo di tenere salda la nave. Dove il non detto è più forte del detto. Guai a violarlo: si potrebbero infrangere gli argini. Meglio che tutto resti come è. Eppure tutti i personaggi sono vivi: volti umani nella loro debolezza e incapacità di amare “bene”. “La donna che ho amato di più non è questa, – pensa Antoine vicino a Marianne morente – ma, in punto di morte rimpiangerò ciò che mi unisce a lei più di quanto non abbia rimpianto la passione. La passione sembra un dono di Dio, «troppo bello per essere vero». Si sente che Lui ce la concede solo per un certo tempo; una cosa così, invece, è tutta nostra… conquistata a fatica, accumulata lentamente, distillata come un miele. E un giorno ci toccherà abbandonarla, abbandonare anche questo. Che peccato…”
Un libro contro il matrimonio? Non direi, si tratta, per lo più, di un’invettiva contro il matrimonio-sistemazione, contro la società dell’alta finanza che poco concede ai sentimenti, dove tutto è potere - dei soldi e della seduzione. La Némirovsky non è contro il matrimonio: basta leggere la storia di altri due coniugi che vivono nell’amore e nella fedeltà reciproci, per cogliere la complessità della sua analisi e, quindi, la grandezza di questa scrittrice. Per cogliere il suo pensiero a trecentosessanta gradi, dovremmo sfogliare un altro romanzo che sembra fare da controcanto a Due, si tratta de I doni della vita (Adelphi 2009), dove sentiamo ancora vibrare i giorni che precedono il suo arresto e quello del marito, Michel Epstein: entrambi ebrei convertitisi al cattolicesimo, pur di avere salva la vita.

mercoledì 12 maggio 2010

CARO TODOROV, MA COSA MI DICI MAI?




alunno/a: “ Proffe… io non ci capisco niente, ma che senso ha tutto questo? A che cosa mi serve? Me lo dica lei! Narratore extradiegetico, focalizzazione interna…ma chissenegrega!!!”

Ricordo ancora il mio impatto con l’Università di Venezia. Mi sono laureata in Lingue e letterature straniere, studiando come prima lingua francese. Sono quindi subito venuta a contatto con l’analisi dei testi letterari di stampo strutturalista. Una doccia fredda! Ciò che conta è la struttura del testo, il suo impianto, come le parole si legano tra loro, lo stile. Aspetto sacrosanto ma che non può divenire il solo e unico parametro di riferimento quando si affronta un testo letterario.
Quando poi ho dovuto sostenere i vari concorsi, stessa musica. Si doveva fare l’analisi del testo letterario e si dovevano sapere, oltre a una serie di altre nozioni, anche quelle legate alla stilistica. Nulla di male in questo. Un docente deve sapere cos’è un asindeto e come si struttura un romanzo. Ma, a mio avviso, non deve perdere di vista la trasmissione e l’amore per la lettura.
Oggi nelle nostre scuole (licei e professionali non fa differenza) i ragazzi vengono “iniziati alla letteratura attraverso la conoscenza degli elementi strutturali del testo e non dalla riflessione delle tematiche di cui ci parla l’autore.
Analizzando l’opera di Perceval di Chrétien de Troyes, gli allievi di un liceo, saranno “interrogati – come scrive Todorov - sul ruolo di quel personaggio, di quell’episodio, di quel certo dettaglio nella ricerca del Graal e non più sul significato stesso di questa ricerca”[1].
I ragazzi vengono introdotti a conoscere da subito la struttura del testo. E non più a riflettere sulla condizione umana, l’individuo e la società, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione. Si chiederà loro: Che cos’è il narratore extradiegetico? Spiegami che cos’è un’analessi? Sapresti dirmi che cos’è la focalizzazione esterna? E quella interna?
Ma che cos’è lo strutturalismo? Oggi questa parola ha assunto diversi significati a seconda dei campi di indagine. Padre dello strutturalismo è De Saussure per il quale: la lingua è un sistema di relazioni ove ciascun elemento si può definire solo grazie alla relazione che ha con gli altri elementi (relazioni di equivalenza e di opposizione). L’insieme delle relazioni crea la struttura. De Saussure, Jackobson, Gerard Genette, Roland Barthes e Todorov sono solo alcuni dei nomi che ricorrono quando si parla di strutturalismo. Todorov ha scritto “Che cos’è lo strutturalismo?”, ha contribuito a diffondere il suo “virus” (perdonatemi l’espressione!). Ma poi nel 2007 se ne è uscito con un saggio “La littèrature en péril” dove ha attaccato duramente questo tipo di approccio.
“Per completare gli studi universitari bisognava comunque discutere, alla fine del quinto anno, una tesi di laurea. Come parlare di letteratura senza doversi piegare alle esigenze dell’ideologia dominante? Scelsi una delle poche vie che permettevano di sfuggire al reclutamento ufficiale. Si trattava di occuparsi di argomenti che non avessero nulla a che vedere con l’ideologia; perciò di tutto quello che nelle opere letterarie riguardasse il testo in quanto tale e le sue forme linguistiche. Non ero il solo a tentare questa soluzione: già negli anni Venti del secolo scorso i formalisti russi avevano aperto la via, seguita poi da altri. All’’università il nostro docente più interessante era, naturalmente, un esperto di versificazione. Così decisi di scrivere la mia tesi confrontando due versioni di un lungo racconto di un autore bulgaro, scritto all’inizio del XX secolo, e mi limitai all’analisi grammaticale delle modifiche che aveva apportato da una versione all’altra: i verbi transitivi sostituivano gli intransitivi , il perfetto diventava più frequente dell’imperfettivo… In tal modo le mie osservazioni sfuggivano a ogni forma di censura! Procedendo così, non correvo il rischio di trasgredire i tabù ideologici del partito.
Non potrò mai sapere come sarebbe andato a finire questo gioco del gatto e del topo, non necessariamente a mio vantaggio. Mi si presentò l’occasione di andare per un anno “in Europa”, come dicevamo allora, vale a dire al di là della “cortina di ferro”. Scelsi Parigi. [2]
E’ il 1963. Con in tasca una lettera di presentazione del preside della Facoltà di Sofia, Todorov riesce a introdursi nell’ambiente accademico francese. Come abbiamo appena letto, voleva studiare lo stile, il linguaggio e le teorie letterarie in generale. Ma a quell’epoca si studiava la letteratura in altri modi: in relazione ai secoli e alle nazioni. La Sorbona non offriva corsi che presentavano questo nuovo tipo di approccio. Todorov fu quindi dirottato da Gerard Genette che lo presentò a sua volta a Roland Barthes (semiologo francese). Da qui inizia la sua carriera nell’ambiente culturale e accademico francese. Collabora con l’università, traduce e fa conoscere i formalisti russi. Scrive la Teoria della letteratura. Ma una volta inseritosi nella società francese, quindi a partire da metà degli anni settanta, smette di occuparsi solo di Teoria della Letteratura per ampliare i suoi orizzonti. Si interessa di antropologia, psicologia della Conquista dell’America etc…
Sempre più lontano dall’ideologia comunista, apprezza la libertà di una cultura non soggetta a dogmi ideologici. Non c’è più bisogno di approfondire l’opera nei suoi aspetti strutturali, amplia i suoi orizzonti di ricerca letteraria.
Quando la figlia ha iniziato a ad andare al liceo, Todorov ha potuto toccare con mano i frutti di questo tipo di approccio al testo letterario. Un approccio che prepara lo studente francese agli esami di maturità a discutere se Il processo rientri nel registro comico o in quello dell’assurdo, piuttosto che analizzare quale posto occupi Kafka nel pensiero europeo.” [3]
Non ho mai trovato una citazione di Todorov nei libri di Christian Bobin ma azzardo, comunque. a metterli in relazione. Lo faccio perché entrambi - Todorov un grande saggista e studioso, Bobin un grande scrittore e appassionato lettore - mi hanno rallegrato il cuore e irrobustita nel mio rapporto con i libri e la letteratura, in generale. L’ambiente letterario mi ha sempre messa un po’ in soggezione. Ma alcuni libri mi hanno irritato. Soprattutto quella critica letteraria che mi veniva proposta a Venezia agli inizi degli anni 80. La trovavo assurda, vuota. Non la capivo. Confesso che mi sentivo stupida - e la mia soggezione mista a irritazione aumentava. Un approccio al testo che anziché invogliarmi a leggere, mi allontanava. Mi chiedevo, ma allora perché i libri?
Ci sono mille ragioni. Ne propongo una di Todorov, appunto:
“Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere. Non le chiedo più, come negli anni dell’adolescenza, di risparmiarmi le ferite che potevo subire durante gli incontri con persone reali; piuttosto che rimuovere le esperienze vissute, mi fa scoprire mondi che si pongono in continuità con esse e mi permette di comprenderle meglio. Non credo di essere l’unico a pensarla così. Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e di organizzarlo. Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. Ci procura sensazioni insostituibili, tali per cui il mondo reale diventa più ricco di significato e più bello. Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura o permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano. [4]
Todorov dà un grande potere alla letteratura, non quel potere narcisistico autoreferenziale che diventa – di fatto - una forma di idolatria, ma un potere “vitale”.
“La letteratura può molto. Po’ tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo. La letteratura ha un ruolo vitale da giocare, ma può ricoprirlo solo se viene presa nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo e che oggi è stata messa da parte, mentre sta trionfando una concezione assurdamente ristretta. Il lettore comune, continuando a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita, ha ragione rispetto a insegnanti, critici e scrittori quando gli dicono che la letteratura parla solo di sé, o che insegna solo a disperare. Se non avesse ragione, la lettura sarebbe condannata a scomparire nel giro di breve tempo. [5]
Todorov si riferisce a quella letteratura autoreferenziale, che parla di se stessa, solipsistica e narcisistica. In altre parole, quella letteratura che diventa astratta, difficile, per pochi. Di questo tipo di letteratura ci parla Christian Bobin nel suo Autoritratto:
“C’è una letteratura sontuosa, sovraccarica d’oro e di autocompiacimento. Essa considera la scrittura superiore alla vita. Non conosce niente di più nobile di una bella frase. Ha senza dubbio generato dei capolavori, e mi lascia tuttavia indifferente. E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame. Essa è antica quanto la prima. Non implica meno lavoro, ma non cerca la stessa cosa. O piuttosto: c’è una scrittura che cerca, non trova per caso che per grazia, e continua a cercare. E c’è una scrittura che si rigira davanti allo specchio, una sposa che prova i suo abito. Questa non cerca niente. Non ha niente da cercare, avendo trovato da sempre chi sposare: se stessa. La sua bellezza non m’ impressiona. Non ammiro un’opera perché mi si dice di ammirarla, ma per la forza dell’amore che vibra in essa. Ciò che intendo per amore non ha nulla di sentimentale. Il solo amore reale è di una durezza incredibile. Il poeta Henri Pichette dice che non si dovrebbe mai scrivere una sola frase che non si possa sussurrare all’orecchio di un agonizzante. Ebbene, è esattamente questo. La scrittura che amo è esattamente questa. E noi siamo tutti degli agonizzanti, non è vero? Dove mi conducono tali riflessioni? A niente, a niente. Non è grave: un piccolo accesso febbrile. Quello che ho detto lo poso dire in un altro modo: c’è una parola dei principi e una parola dei mendicanti. Quella dei principi è come una camera in cui non c’è nulla e in cui al tempo stesso tutto è pieno, riempito sino all’orlo. E’ una parola così sorda da bastare a se stessa. Quella dei mendicanti, al contrario, racchiude in sé abbastanza vuoto – spazio, silenzio – perché il primo venuto vi si possa intrufolare e scoprire la felicità. E’ una parola che lascia in sé un posto per l’altro. La conoscete la vecchia tradizione di disporre sulla tavola un piatto in più per un ospite inatteso, straniero. Sono queste le parole che amo. E’ a queste tavole che mangio meglio.[6]
Anche Bobin parla e critica questo tipo di letteratura. Non si sofferma sullo strutturalismo, no! Cita gli autori che gli piacciono e ciò che poco sopporta dell’ambiente letterario in genere che vuole far passare una persona colta per persona intelligente. Sentiamo invece come Bobin mette in relazione l’intelligenza alla lettura: ci parla addirittura della “cultura come malattia dell’accumulo”, ma sentiamo da lui:
“Una persona può essere riconosciuta dalla natura delle parole che mangia. Ho sempre visto le persone provenienti da ambienti culturali, con qualche felice eccezione, come persone che non si nutrivano che di nomi propri, quando questi nomi avevano raggiunto una certa celebrità. La cultura e l’intelligenza appartengono a due ordini differenti. Si può avere l’una e essere sprovvisti dell’altra. Si può essere acculturati e di una stupidità spaventosa. L’intelligenza viene dall’anima ed è concessa a tutti per il solo fatto di nascere, anche se tutti non ne fanno uso, non osano far uso della loro capacità personale alla solitudine, della intensità di solitudine della propria anima. L’intelligenza non è nient’altro: la maniera personale di stare di fronte a sé e di fronte al mondo, la maniera di ciascuno di lasciarsi trasformare da ciò che gli viene incontro e di cercare il proprio bene, il suo proprio bene, in ciò che l’attraversa e talvolta l’ uccide. Leggere, ad esempio, è una delle manifestazioni più semplici dell’intelligenza , ciò non ha niente a che vedere , assolutamente nulla con la cultura. Leggere è fare prova di sé nella parola di un altro, fare arrivare dell’inchiostro via sangue sino al fondo dell’anima così che essa ne sia impregnata, mangiare ciò che si legge, trasformarlo in sé e trasformarsi in esso. La lettura che non sconvolge la vita non è niente, non ha avuto luogo, non è nemmeno tempo perduto,è meno di niente. Ogni vita che non sia sconvolta dalla vita e che non vada, sola, senza il conforto di alcuna lezione , a trovare il proprio bene in questo sconvolgimento, è morta. Sta alla persona sola decidere ciò che è il bene d’una persona, facendo leva unicamente sulla sufficiente luce della propria solitudine, il più lontano possibile dalle convenzioni intellettuali e morali. L’intelligenza non la si impara – si esercita. La cultura invece sì, si impara – viene fuori a poco a poco dall’accumularsi di lunghi studi, si aggiunge a noi con il tempo e ad opera di altri. Se uno vive soltanto nella cultura, molto presto diventa analfabeta: c’è un tempo, negli ambienti culturali, in cui le opere non vengono più meditate, amate, mangiate, un tempo in cui non si mangiano che i nomi degli autori, il loro nome soltanto, per farsene vanto o per imbrattarlo. La cultura quando viene a tal punto privata d’intelligenza, diviene una malattia dell’accumulo, una cosa inconsumabile che si sa solo consumare.[7]

[1] Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, 2008 p. 22
[2] Todorov, La letteratura in perocolo pp. 10-11
[3] Todorov, la letteratura in pericolo, op. cit., p.22
[4] Todorov, La letteratura in pericolo, op. cit., pp. 10-11
[5] Todorov , La letteratura in pericolo, pp 65-66
[6] C. Bobin, Autoritratto, San Paolo, p. 76
[7] C. Bobin, Consumazione, Servitium, pp. 75-77

giovedì 1 aprile 2010

FRAMMENTI DEL TREDICESIMO MESE di Elena Petrassi






Tredici lunghi racconti introdotti da dodici mesi e un loro frammento. Tredici ouverture nelle quali la voce narrante della città avvolge nell’atmosfera, che è propria di ciascun mese, se stessa e i suoi abitanti. Una Milano tratteggiata e scandita nello spazio: vie, piazze, case, palazzi, locali, loft e nel tempo: frammenti di un mosaico disgregato che vorrebbero ricomporre la memoria degli anni settanta, ottanta e novanta ma che lasciano, volutamente, una sensazione di incompiutezza. Di frammento.
Un romanzo dai continui rimandi: vite che vorrebbero trovare una loro unità nella scansione dei dodici mesi ma che restano sospese: frammenti, volti appena tratteggiati che si dileguano nel tredicesimo mese dove la morte di Caterina (personaggio principale) anziché restituire a se stessa e a ogni vita senso e compimento, contribuisce a dare quella sensazione di incompiutezza, non solo alla propria esistenza ma anche a quelle di tutti gli altri personaggi. Nello sfondo, la eco della scrittrice americana Sylvia Plath, morta suicida.
Frammenti di relazioni e di amicizie che non riescono a dare a se stessi e agli altri un senso profondo a ciò che stanno vivendo. Personaggi naufraghi “Noi siamo naufraghi mia cara , naufraghi dei cieli. Fuori posto in qualsiasi luogo ci troviamo”, immersi nella grande quête dell’amore: dove solo la solitudine sembra regnare sovrana. Ogni personaggio sfugge all’altro: si sta insieme per colmare dei vuoti. Pochi progetti e tanti sogni. Un mondo di letterati trentenni alla ricerca di un qualcosa che loro stessi non sanno definire. Un oggetto del desiderio sfuocato. Forse l’eterna quête dell’amore. Tradimenti, solitudini, amori non corrisposti: difficile riconoscersi, impossibile camminare insieme se non per un tratto, per un frammento di spazio e di tempo.
Più ci si inoltra nella lettura e più i personaggi sembrano perdere i tratti che li avevano caratterizzati. Sfugge Caterina a se stessa ma sfuggono anche gli altri volti agli occhi attenti del lettore. Come i passanti delle strade, delle vie, dei locali. Passano e noi ascoltiamo le eco dei loro passi e delle loro vite, come i “sognatori di agosto” e i fantasmi che ancora vengono a visitare i luoghi cha hanno attraversato in vita: “Chi erano i fantasmi che vivono nell’ombra dei miei cortili? - si interroga la città nel mese di agosto - Forse quelli che hanno lasciato cose incompiute, saranno in molti a ritrovarsi su queste stesse strade in un tempo che chiamiamo futuro”.
La voce narrante della città si fa cinepresa che inquadra vie, registra rumori, passi che vanno e vengono come in un labirinto:“io sono un immenso labirinto a forma di spirale dove si finisce sempre per calpestare di nuovo i propri passi”, scandisce la voce della città nel mese di maggio. La voce di Milano sembra tramutarsi in una telecamera nascosta che filma e restituisce voce ai suoi interni e esterni. A volte l’inquadratura sosta davanti ad un palazzo, poi ecco una carrellata dei suoi inquilini e un fermo immagine degli stessi. Ancora si sofferma in una via, attraversa strade; altre volte ci porta, negli interni, oppure inquadra volti di passanti: immigrati, giovani madri, anziani o “sognatori di agosto”.
Lungo i mesi si frantumano eco: una via introdotta in un capitolo, viene ripresa in quello successivo: come quando nel mese di maggio, Caterina e il suo amico Kevin si fanno catturare da voci squillanti femminili che gridano divertite su una terrazza. Voci fuori campo che si materializzano in un fermo immagine di nomi che abitano il palazzo di via Morigi. Palazzo che diviene il vero protagonista del capitolo con tutti i suoi personaggi: il vecchio marinaio che ha una magnifica terrazza all’ultimo piano, l’analista junghiano, il pittore, la cantante lirica, l’architetto, la sartoria teatrale, la vecchia portinaia e Caterina, personaggio catalizzatore. Nucleo centrale dal quale si irradiano tutte le storie degli altri protagonisti (minori e maggiori), i quali sembrano rincorrersi e ruotarle intorno, oltre che a calpestare le strade di Milano, in un viavai incessante.
La voce-telecamera della città ci fa sostare in molte case. La grande casa di Carlo, sessantenne sindacalista bancario, comprata per poco e che anziché mutarsi nella realizzazione di una vita al mare dopo la pensione, si tramuta in una tomba che ospita una vita senza amore, dove ciò che conta è la deferenza, l’ammirazione e il potere. O la trattoria Il Teatro dell’Officina con i ritratti di Marx, Lenin, Che Guevara e Bakunin appesi alle pareti, dove si ritrovano a mangiare Caterina e il suo amico “poeta catastale” Luca. O il grande loft al primo piano dell’architetto Giorgio M, in una ditta dismessa di trasporti, posta in una via male illuminata, dove – nel mese della ripresa: settembre - ognuno ha occasione di rivedere o incontrare qualcuno. Oppure “ l’incompiuta” – che dà il titolo al racconto di marzo - la grande casa che accoglie la redazione della rivista attorno alla quale ruotano molti giovani letterati e artisti, e dove Sofia, l’ingegnere, che non ha nessuna voglia di tornare al suo cantiere, incontra per la prima volta la rossa Caterina.
Come un filo rosso, ella percorre tutti i mesi, dapprima sullo sfondo fino ad entrare prepotentemente in scena a primavera per essere portata via con la morte nel racconto d’inverno, a dicembre.
Ma chi è Caterina? Una giovane donna che lavora come editor in una grande casa editrice. Appassionata di poesia e di letteratura ma che ora vuole leggere solo poesia, il resto sembra non interessarle più. Collabora con una rivista letteraria. Ha avuto diverse storie: una durata otto anni e poi tante altre, fluttuanti. E’ l’oggetto del desiderio di tanti: uomini e donne. Tutti i personaggi che incontriamo si innamorano di lei o ne sono attratti. Dodici mesi, dodici nomi (anche se i personaggi del romanzo sono molti di più, come del resto i mesi). Dodici fotografie, introdotte dall’immagine di copertina, scelta dall’editore, dove vediamo l’autrice con la sua macchina fotografica appesa al collo. Ella ci restituisce a gennaio una fotografia di Carlo, il sessantenne bancario sindacalista mandato in prepensionamento dalla banca a sua insaputa che ogni mattina contempla la donna dai capelli rossi mentre sorseggia il caffè al bar prima di recarsi al lavoro. A febbraio una fotografia di Luca, il poeta catastale innamorato perso di Caterina con cui lei pasteggia al Teatro dell’Officina: due letterati amanti della poesia, la quale più che unirli sembra invece separarli. A marzo una foto di Sofia, l’ingegnere che la vorrebbe coinvolgere nella partecipazione ad un concorso letterario; Sofia una donna “incompiuta” che non sa decidersi, che non sa cosa fare della propria vita. Ad aprile una fotografia di Nino, il collega alcolista appassionato di mappe antiche con cui Caterina va alla ricerca, nei quartieri di Milano, del fiume che non c’è. A maggio uno scatto della coppia omosessuale Kevin e Fulvio che fa perno su Caterina e che le chiede di essere, tra le loro vite, a volte ponte, a volte ostacolo. A giugno una foto di Roberto S, il giovane bancario impazzito, convinto di vedere Dio nella pancia azzurra di un ragno; egli contempla il corpo nudo di Caterina dalla finestra del palazzo di via Morigi, dove entrambi vivono. A luglio l’autrice ci restituisce un fermo immagine dell’amico pittore, anch’egli bancario, che non smette di fare ritratti a Caterina, dipinti che lei regolarmente si porta via. Ad agosto viene ripresa Lea, l’amica di vecchia data di Francesco, con la quale la giovane rossa ha una vicinanza ambigua; nello stesso mese viene fotografato anche l’uomo del supermercato che approccia l’indifferente Caterina leggendole le poesie di Hernandez. A settembre, ecco un’inquadratura di Umberto, l’amico letterato che diviene suo amante per una notte, dopo la festa di settembre: “due sconosciuti che annega[va]no l’uno nell’altra le solitudini inquiete nelle quali viv[ono]”. A ottobre un’immagine sullo sfondo del marito di Silvia (che tradisce il marito con Francesco che è invece perdutamente innamorato di Caterina), uomo che subisce lo charme di questa donna dai capelli rossi. A novembre un primo piano di Francesco il sassofonista, il vecchio amico di Lea, che perde la testa per la donna dai capelli rossi; e infine dicembre, scatto al buio: quando la morte farà spegnere le luci sulla vita di Caterina. Eppure tutto riprenderà e gli amici: Sofia, Fulvio, Luca, Carlo, Giulio Francesco proseguiranno ciascuno la loro vita.
Sullo sfondo sempre la letteratura con le poesie di Salinas, Eliot, Hernandez, Sylvia Plath; e la pittura Picasso, Van Gogh, Chagall; ma anche la musica con il blues, il jazz, Officium.
Innumerevoli fotografie dove i personaggi restano sullo sfondo o sembrano, al contrario, volersi fare dei veri e propri autoscatti. Anche la cinepresa cambia punto di vista: alcune volte il racconto è in prima persona, il lettore segue la voce del personaggio, altre volte la cinepresa vuole essere più distante per raccontare, senza essere troppo coinvolta. Accade lo stesso per la voce della città cui capita di parlare in prima persona o di lasciarsi raccontare da qualche passante.
Le stesse storie sono incompiute, ne leggiamo solo dei frammenti. Coma la “storia d’amore” tra Caterina e Luca. Entrambi vivono in questa incertezza di naufraghi. Lui perennemente rifiutato, vive nell’attesa. Lei, alla perenne ricerca dell’amore incapace di accogliere un presente. Due giovani che sebbene simili in tutto e in tanto, non riescono ad incontrarsi in un quotidiano che vuole progettarsi un futuro. Solo il fluire dei giorni. Senza impegni, sempre nell’attesa che accada qualcosa. La letteratura nello sfondo che li conferma in questa incertezza. La poesia diventa ciò che li unisce ma non ciò che li fa stare insieme. Due perenni single, innamorati della letteratura. O l’amore omosessuale tra Kevin e Fulvio o l’attrazione adolescente che Lea prova per la compagna Viola. Oppure la storia di Francesco, il sassofonista che insegue tutti gli anni se stesso in Grecia senza mai trovarsi, gran seduttore solo delle donne che gli sfuggono, ora innamorato di Caterina. Una generazione già contaminata dall’incertezza ma che ancora vive anni di benessere. Ogni personaggio è a modo suo un artista, o vorrebbe esserlo. Un mondo di giovani letterati con tanti problemi ma dove tuttavia ancora non si avverte l’ansia per la sopravvivenza economica ma piuttosto quella della sopravvivenza o realizzazione artistica. La fotografia di questa generazione scorre nelle pagine del romanzo ed è Francesco, ricordando ciò che un giorno gli disse Caterina, a donarci una chiara e sincera fotografia: “Vedi Francesco, in vite come le nostre, senza problemi di lavoro e di sopravvivenza, gli unici drammi che possiamo inscenare sono quelli amorosi. Ma non basta essere grandi attori, bisogna trovare amanti che siano all’altezza del ruolo. Cercare tra i molti l’unico nel quale potersi specchiare.”
Appunti presi da Maddalena Cavalleri, a seguito della lettura del libro di Elena Petrassi, Frammenti del tredicesimo mese.




domenica 14 marzo 2010

IL CARRELLO DI THÉRÈSE


È uscito presso Atì editore il mio primo libro Il carrello di Thérèse: tre racconti scritti ancora nella metà degli anni novanta. Si tratta di esercizi di scrittura che ho rivisto più volte. Ho cercato in seguito di pubblicarli, ma senza successo. Non ci ho più pensato, convinta che la stagione che mi aveva vista intenta in questa attività creativa si fosse definitivamente conclusa. Ho smesso di scrivere. Qualche anno più tardi, ho buttato giù un raccontino per mio padre. Poi basta.
Dopo la stesura e le revisioni dei miei tre racconti ho iniziato a tradurre. Lo facevo per mio conto. Come esercizio di ascolto e di scrittura. Per questo sono grata a mio marito, perché mi ha mi ha sempre spinta nel lavoro di traduzione dal francese. Così ho iniziato da alcuni racconti di Bobin (alcune traduzioni le ho inserite in questo blog). Ho proseguito ascoltando la voce di Bella Chagall per poi approdare all’autrice belga Colette Nys- Mazure di cui uscirà a breve una mia traduzione. Dopo tanto esercizio, un po’ di ufficialità!
Oggi esce Il carrello di Thérèse. Sono grata a Lorenzo (mio marito) che mi ha sempre incoraggiata. Sono grata a Elena Petrassi e ad Amerio Pace che hanno voluto pubblicare presso la loro casa editrice i miei lavori proponendoli in una sorta di trittico: una fotografia della mia generazione e di me stessa.
La prima presentazione avverrà sabato 27 marzo 2010 alle ore 18.30, presso la Libreria Pagina 12, Corte Sgarzerie 6/A sita nel centro storico della città di Verona (la mia città).
Confesso che sono molto emozionata!