sabato 26 aprile 2014

NOI CREDEVAMO di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985)




Noi credevamo di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985), pubblicato nel 1967, torna ora nelle librerie grazie al recente film omonimo di Mario Martone, uscito in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (lo ristampa Mondadori, negli “Oscar”). Scopriamo così una grande scrittrice ingiustamente dimenticata, dalla prosa raffinata, che ha saputo restituirci, con grande onestà intellettuale, una parte della nostra storia risorgimentale.
Il Risorgimento scritto con rabbia, titola la postfazione di Enzo Siciliano che accompagna la presente edizione (si tratta di un saggio uscito nel 1967 su “L’Espresso”). Noi, invece, preferiremmo parlare di un Risorgimento scritto con lucidità e senza retorica. Un Risorgimento raccontato dal punto di vista di un settantenne galantuomo calabrese di fede repubblicana che vede svanire, giorno dopo giorno, la realizzazione degli ideali democratici ai quali ha sacrificato un’intera vita. Ferite ancora aperte di un’Unità che fa ancora discutere. Un bellissimo romanzo (ignorato non solo dall’editoria italiana ma, ahimè, anche dai programmi scolastici) che ci può aiutare a ripercorrere alcune vicende risorgimentali senza l’enfasi del mito ma con la consapevolezza che sempre le grandi rivoluzioni portano con sé, irrimediabilmente, un senso di delusione e di fallimento: la giustizia degli uomini reca in sé luci e ombre.
“Il mondo è uguale a come l’ho trovato nascendo, sordo e falso. – scrive don Domenico, voce narrante del romanzo,  alla fine delle sue memorie - Tanto dire che ho vissuto e sofferto invano. Non saprò mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza”. 
La Banti scrive la storia in prima persona attraverso la voce di Domenico Lopresti. Egli inizia e conclude il racconto delle sue memorie, a Torino,  in un anno (giugno 1883-1884), attraverso un gioco di flash-back ben strutturato:  vecchiaia, maturità, giovinezza, adolescenza e infanzia scorrono in un flusso continuo di rimandi tra le diverse stagioni della vita. Un’esistenza avventurosa, la sua: dall’iscrizione alla Setta dei Figlioli della Giovine Italia alle cospirazioni segrete, fino all’arresto e al processo; i quasi dodici anni trascorsi nelle dure carceri borboniche; la sua liberazione rocambolesca  in coincidenza con lo sbarco dei Mille. Nonostante gli anni della dura prigionia, don Domenico continua a combattere e a inseguire i propri ideali democratici, benché la realtà gli mostri un mondo colmo di ingiustizie nel quale coloro che hanno i loro privilegi fanno di tutto per continuare a tenerseli, rinnegando, se necessario, gli ideali di giustizia e libertà. Il protagonista partecipa anche alla battaglia dell’Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i l’esercito regio (ovvero i “piemontesi”) e i sostenitori di Garibali fa sentire ancora aperte le ferite dell’Unità. Ricordando la battaglia Don Domenico scrive: “Tante volte mi era successo di designare, fra me, l’esercito regio, ‘i piemontesi’: ma sentirli chiamare così, da italiani che li temevano come nemici, mi sconvolse.”
Il romanzo dà voce a personaggi risorgimentali realmente esistiti: oltre al protagonista, nonno dell’autrice,  incontriamo Benedetto Musolino, liberale antiborbonico di Pizzo Calabro, fondatore della Setta detta dei Figlioli della Giovine Italia (1832), eletto deputato nel primo parlamento nazionale, il nobile democratico Sigismondo Castromediano, che condivide le carceri borboniche con Don Domenico e altre figure che restano però sullo sfondo, come Gioacchino Murat, Pisacane, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Ferdinando II di Borbone.
Un affresco risorgimentale senza miti ma attraversato da profonde ferite, compromessi e tradimenti, che vivono tuttora nelle pieghe della nostra storia contemporanea. Un romanzo comunque da leggere per capire da dove veniamo e per ascoltare una voce che ci restituisce un Risorgimento fatto di uomini che hanno creduto e che hanno visto frantumarsi davanti ai loro occhi tutti i sogni di uguaglianza e fratellanza.
Quando Don Domenico si trova, nel tardo autunno del 1861, a passeggiare tra i luoghi della sua infanzia, che ormai fanno parte del Regno Unito, sente viva la distanza dal suo nuovo Re: “… Poi, alzando gli occhi alle massicce torri rotonde dove, da bambino, avevo visto una volta i soldati borbonici in vedetta, ora sguarnite e nulla più che reliquie di una remota potenza, mi rallegravo pensando che adesso appartenevano a noi meridionali più che a re Vittorio: non lui, ma i Mille le avevano conquistate.”
Innumerevoli sono le pagine in cui sentiamo palpitare l’anima di un Sud che si è sentito tradito e che cerca e trova la propria dignità di popolo senza rancori o rivendicazioni ma con umanità e pietà. Per tale ragione è un libro che va letto per aiutarci ad abbracciare le ferite ancora aperte di un Paese che sta cercando la sua “unica” voce e stenta ogni giorno a trovarla: ma la storia di un popolo assomiglia per molti aspetti alla storia di un individuo che, solo quando decide di ascoltare, riconoscere e abbracciare le proprie ferite, può riconciliarsi con la propria storia, con le sue luci e le sue ombre.
A questo noi, oggi, crediamo.

di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)





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