Noi
credevamo di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985),
pubblicato nel 1967, torna ora nelle librerie grazie al recente film omonimo di
Mario Martone, uscito in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia
(lo ristampa Mondadori, negli “Oscar”). Scopriamo così una grande scrittrice
ingiustamente dimenticata, dalla prosa raffinata, che ha saputo restituirci, con
grande onestà intellettuale, una parte della nostra storia risorgimentale.
Il
Risorgimento scritto con rabbia, titola la postfazione di Enzo
Siciliano che accompagna la presente edizione (si tratta di un saggio uscito
nel 1967 su “L’Espresso”). Noi, invece, preferiremmo parlare di un Risorgimento
scritto con lucidità e senza retorica. Un Risorgimento raccontato dal punto di
vista di un settantenne galantuomo calabrese di fede repubblicana che vede
svanire, giorno dopo giorno, la realizzazione degli ideali democratici ai quali
ha sacrificato un’intera vita. Ferite ancora aperte di un’Unità che fa ancora
discutere. Un bellissimo romanzo (ignorato non solo dall’editoria italiana ma,
ahimè, anche dai programmi scolastici) che ci può aiutare a ripercorrere alcune
vicende risorgimentali senza l’enfasi del mito ma con la consapevolezza che
sempre le grandi rivoluzioni portano con sé, irrimediabilmente, un senso di
delusione e di fallimento: la giustizia degli uomini reca in sé luci e ombre.
“Il mondo è uguale a come l’ho trovato nascendo,
sordo e falso. – scrive don Domenico, voce narrante del romanzo, alla fine delle sue memorie - Tanto dire che
ho vissuto e sofferto invano. Non saprò mai se agendo diversamente, con più
accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle
idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza”.
La
Banti scrive la storia in prima persona attraverso la voce di Domenico
Lopresti. Egli inizia e conclude il racconto delle sue memorie, a Torino, in un anno (giugno 1883-1884), attraverso un
gioco di flash-back ben strutturato:
vecchiaia, maturità, giovinezza, adolescenza e infanzia scorrono in un
flusso continuo di rimandi tra le diverse stagioni della vita. Un’esistenza
avventurosa, la sua: dall’iscrizione alla Setta dei Figlioli della Giovine
Italia alle cospirazioni segrete, fino all’arresto e al processo; i quasi
dodici anni trascorsi nelle dure carceri borboniche; la sua liberazione
rocambolesca in coincidenza con lo
sbarco dei Mille. Nonostante gli anni della dura prigionia, don Domenico
continua a combattere e a inseguire i propri ideali democratici, benché la
realtà gli mostri un mondo colmo di ingiustizie nel quale coloro che hanno i
loro privilegi fanno di tutto per continuare a tenerseli, rinnegando, se
necessario, gli ideali di giustizia e libertà. Il protagonista partecipa anche alla
battaglia dell’Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i l’esercito regio (ovvero
i “piemontesi”) e i sostenitori di Garibali fa sentire ancora aperte le ferite
dell’Unità. Ricordando la battaglia Don Domenico scrive: “Tante volte mi era
successo di designare, fra me, l’esercito regio, ‘i piemontesi’: ma sentirli
chiamare così, da italiani che li temevano come nemici, mi sconvolse.”
Il romanzo dà voce a personaggi risorgimentali realmente
esistiti: oltre al protagonista, nonno dell’autrice, incontriamo Benedetto Musolino, liberale antiborbonico
di Pizzo Calabro, fondatore della Setta
detta dei Figlioli
della Giovine Italia (1832), eletto deputato nel primo parlamento
nazionale, il nobile democratico Sigismondo Castromediano, che condivide le carceri borboniche con Don
Domenico e altre figure che restano però sullo sfondo, come Gioacchino
Murat, Pisacane, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Ferdinando II di Borbone.
Un
affresco risorgimentale senza miti ma attraversato da profonde ferite,
compromessi e tradimenti, che vivono tuttora nelle pieghe della nostra storia
contemporanea. Un romanzo comunque da leggere per capire da dove veniamo e per
ascoltare una voce che ci restituisce un Risorgimento fatto di uomini che hanno
creduto e che hanno visto frantumarsi davanti ai loro occhi tutti i sogni di
uguaglianza e fratellanza.
Quando
Don Domenico si trova, nel tardo autunno del 1861, a passeggiare tra i luoghi
della sua infanzia, che ormai fanno parte del Regno Unito, sente viva la
distanza dal suo nuovo Re: “… Poi, alzando gli occhi alle massicce torri
rotonde dove, da bambino, avevo visto una volta i soldati borbonici in vedetta,
ora sguarnite e nulla più che reliquie di una remota potenza, mi rallegravo
pensando che adesso appartenevano a noi meridionali più che a re Vittorio: non
lui, ma i Mille le avevano conquistate.”
Innumerevoli
sono le pagine in cui sentiamo palpitare l’anima di un Sud che si è sentito
tradito e che cerca e trova la propria dignità di popolo senza rancori o
rivendicazioni ma con umanità e pietà. Per tale ragione è un libro che va letto
per aiutarci ad abbracciare le ferite ancora aperte di un Paese che sta cercando
la sua “unica” voce e stenta ogni giorno a trovarla: ma la storia di un popolo
assomiglia per molti aspetti alla storia di un individuo che, solo quando decide
di ascoltare, riconoscere e abbracciare le proprie ferite, può riconciliarsi
con la propria storia, con le sue luci e le sue ombre.
A
questo noi, oggi, crediamo.
di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)
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