lunedì 13 ottobre 2014

Autunno

Non ho mai pensato all'autunno come a una stagione triste. Le foglie morte  e le giornate che si fanno via via più corte non mi hanno mai evocato la fine di qualcosa, piuttosto l'attesa del futuro. C'è elettricità nell'aria di Parigi, le sere di ottobre al calare della notte. Anche quando piove. in quei momenti non provo malinconia , né la sensazione del tempo che passa. Tutto mi pare possibile. L'anno ha inizio con il mese di ottobre. Riaprono le scuole ed è, credo, la stagione dei progetti. Quindi, se lei è venuta al Condé in ottobre, è sicuro che aveva chiuso con tutta una parte della sua vita e voleva fare quello che nei romanzi si chiama: CAMBIARE PELLE.

Patrick Mofiano, Nel caffè della gioventù perduta, Einaudi, Torino 2010 p. 14

domenica 4 maggio 2014

Ci sono dei legami scintillanti fra le cose sotterranee - La luce del mondo (Christian Bobin)




Franz Hals (1580-1666)
link per diritti foto http://www.flickriver.com/photos/menesje/sets/72157607733217813/


Con il ritratto di un bambino sorridente di Frans Hals, dipinto nel 1615, scopro quello che ho vissuto nel 1985 con tutta una schiera di bambini. Una persona morta tre secoli fa mi rivela ciò che di me vibra ancora nel momento in cui vi parlo. Ciò mi piace, perché dice una cosa del tempo: che non è ordinato come si crede. C’è dunque una bellissima solidarietà fra vivi e morti. Ci sono solidarietà invisibili che bruciano tutte le pagine dei calendari. Una tortora su un albero parlerà di un pittore morto che, a sua volta, mi parlerà della luce che entra dalla finestra della mia stanza. Ci sono dei legami scintillanti fra le cose sotterranee.
Nel caso della pittura, oggetto della nostra attenzione, è raro dipingere dei bambini senza cadere nello sdolcinato. Il volto di quel bambino è un volto e nello stesso tempo è un cuore cresciuto all’aria aperta. Quelle luci brune e ocra non cercano di far colpo. Sono molto vicine all’argilla di cui parla la Bibbia, in cui scorre l’alito per arrivare agli imbecilli come noi. Forse un vero artista è sempre moralista, nel senso pascaliano della parola. È il bene che viene cercato con avidità, e allora la bellezza giunge inevitabilmente, come una piccola carretta fissata a una più grande, che va tutta birra, come dice ancora Francis Thompson : “Come una ricompensa accidentale”

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      tratto da La luce del mondo di Christian Bobin 

venerdì 2 maggio 2014

LA LETTERATURA ETERNA - Christian Bobin





foto di Edouard Boubat


La letteratura eterna è la più antica medicina del mondo.  È anteriore alla scrittura. Prima di depositarsi su tavolette di argilla, ha purificato delle voci, ha placato delle anime. Essa continua a farlo ogni volta che una madre si china sul suo bambino intorpidito dalla stanchezza, e racconta una storia, canta una canzone.


tratto da Autoritratto di Christian Bobin (AnimaMundi Edizioni)

SPOSERO' BERLUSCONI di Nicola Cinquetti





“Volevo raccontare le storie degli antichi filosofi ne è uscita una storia d’amore. Era il 2009: l’amore ai tempi di Berlusconi”. Così Nicola Cinquetti riguardo al suo romanzo Sposerò Berlusconi, edito da  Rizzoli nella collana rivolta ai giovani lettori. Già dalla frase di Salinger in esergo (“Il guaio è che a me piace quando uno va fuori tema”), si intuisce che la storia d’amore che ci viene raccontata, con garbo e ironia, altro non è che un’occasione per raccontare le incessanti divagazioni che animano la mente svagata e sognatrice di Noè, il quindicenne iscritto in prima liceo scientifico, protagonista del romanzo. Ma forse è anche il pretesto per l’autore di seminare spunti di saggezza e di ironia, per invitare il lettore giovane e meno giovane a riflettere, con grazia e leggerezza, sulla vita. Senza pretese. Non è quindi un romanzo sul Presidente del consiglio! ma un vero e proprio romanzo di formazione, pur se breve, come si potrà vedere dal finale della storia che qui, ovviamente, non abbiamo nessuna intenzione di rivelare.
Noè è un grande sognatore, timido, goffo e di poche parole che ha tre grandi passioni: Charlie Brown, le sorprese degli ovetti Kinder – di cui un po’ si vergogna perché fuori età - e la filosofia che ha scoperto in terza media grazie a un libricino Le storie dei filosofi e alle discussioni nate nell’ora di religione. Conduce una vita abbastanza agiata. Abita con la madre, molto apprensiva, non conosce il padre, non l’ha mia visto: non sa nemmeno che faccia abbia. Un grande vuoto che ha generato, nella sua vita scolastica, sempre forti imbarazzi: dalla maestra che gli fa preparare il lavoretto per la festa del papà, al tema sul papà richiesto da una supplente della scuola media fino alla professoressa del liceo che gli domanda lumi sulla professione paterna. Un’assenza generatrice di un tabù: ogni volta che Noè prova ad affrontare l’argomento con la madre si scontra con un muro di silenzio. Un papà mai esistito sostituito, per il tempo che ha potuto, dal nonno materno. Un cugino più grande, Ugo, che ogni tanto lo passa a trovare, con cui fa grandi chiacchierate su Dio, i draghi o le diverse modalità di sepoltura. Con lui, non si sente un idiota. Noè sa di non godere – nel mondo degli adulti, ma non solo - di una buona considerazione: “Non è mica stupido”, “Mah, cosa vuoi farci… è un po’ perso… vive in un mondo tutto suo…” e sa anche che i grandi mal sopportano la sua “abitudine di immaginare e di sognare”. La madre, per questa ragione, lo porta spesso dal dottor S. che gli prescrive una serie di preziosissime fiale omeopatiche. In classe, guarda sempre fuori dalla finestra perdendosi in fantasticherie: è attratto dalla grande statua dell’angelo posta all’ingresso del cimitero e non dalle compagne di classe. Ma un giorno, inaspettatamente, la sua attenzione viene distratta dalla voce di Arianna: “Mi voltai. La vidi mentre parlava dal fondo dell’aula, in piedi, la testa alta e lo sguardo fermo sul professore “. Ma la bella ragazza dai capelli ondulati, che ricordano quelli dell’angelo, pare non accorgersi del nostro “eroe” che porta questo strano nome e che desidererebbe tanto chiamarsi Alessandro, Andrea, Marco ma sa che Noè l’ha di fatto salvato dalle acque profonde dell’anonimato.
Sposerò Berlusconi è la storia di un innamoramento raccontata in prima persona dalla voce di Noè, vero flâneur de l’esprit, intercalata – a tratti - da aneddoti della vita dei filosofi: Zenone di Cizio, Cratete, il suo discepolo Metrocle, Empedocle d’Agrigento, Diogene, Eraclito, Pitagora, Anassagora.

“Talete di Mileto, il primo filosofo, se ne uscì una notte a studiare il cielo limpido, gremito di stelle. E mentre il cielo trascinava in alto il suo sguardo, precipitò in un pozzo” come il nostro eroe che ama vagare e divagare attraverso le proprie fantasticherie amorose e non si accorge di dove mette i piedi quando decide di fare un bel regalo alla sua amata Arianna. Ma per scoprirlo, bisognerà inseguirlo nei suoi 103 passi, cioè nelle pagine del bel romanzo di Cinquetti.

recensione di Maddalena Cavalleri pubblicata su Verona Fedele nel 2010


domenica 27 aprile 2014

LA MIA PENNA E' ASPRA - ANNA MARIA ORTESE



Io soffro di un disgusto del mondo moderno, che sta diventando, temo, malattia, e malinconia insanabile, e si traduce, nella vita quotidiana, in scontrosità e insuccesso […] Vorrei scrivere soltanto cose dolcissime, ma ho dovuto difendermi, e ora la mia penna è aspra, risentita. Appena posso, però, scrivo anch’io delle cose lievi.


Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese. 

sabato 26 aprile 2014

TRE PORTE - Consumazione, di Christian Bobin



Un evento, nella vita, è una cosa con tre porte separate – morire, amare, nascere. Non vi si può entrare se non varcando le tre porte simultaneamente, nello stesso tempo. Ciò è impossibile e tuttavia accade.

tratto da Consumazione, di Christian Bobin 

E’ una curiosa creatura il passato - EMILY DICKINSON, Poesie






E’ una curiosa creatura il passato
Ed a guardarlo in viso
Si può approdare all’estasi
O alla disperazione.
Se qualcuno l’incontra disarmato,
Presto, gli grido, fuggi!
Quelle sue munizioni arrugginite
Possono ancora uccidere!

EMILY DICKINSON, Poesie

RITI DI PASSAGGIO - MARGUERITE YOURCENAR




Alcuni suoi personaggi, in particolare suo nonno, compiono dei “riti di passaggio”. Che cosa intende con questo, qual è l’importanza di questi passaggi iniziatici in una vita?

C’è per tutti continuamente, una serie di passaggi iniziatici. Ogni accidente, ogni incidente, ogni gioia e ogni sofferenza sono un’ iniziazione. E anche la lettura di un bel libro può esserlo, e la vista di un paesaggio stupendo. Ma poca gente è abbastanza attenta o concentrata da rendersene conto. Tranne, credo, a modo loro, le persone molto "semplici", o supposte tali.

M. YOURCENAR, Ad occhi aperti

Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978)



Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978), racconta, attraverso alcune testimonianze dirette, la storia di migliaia di italiani che hanno vissuto, sulla loro pelle, la tragedia della Jugoslavizzazione delle terre d’Istria, di Fiume e Dalmazia, a seguito della 2^ Guerra Mondiale. Il lavoro di Bernas, giornalista italiano di origine polacca, è preziosissimo perché aiuta a districare una matassa di vite ferite, molto complessa da un punto di vista storico e politico. Il libro è presentato da una prefazione di Walter Veltroni e da un’introduzione storica dove lo stesso Bernas chiarisce che “questo non vuole essere un libro di storia, semmai un insieme di testimonianze capaci di ricostruire nella loro complessità i fatti, le sofferenze e le opposte ragioni che portarono un popolo con lingua, usi e tradizioni comuni a dividersi“. La scrittura di Barnes fa risuonare, sena alcuna retorica, le voci delle persone che raccontano l’esodo, o l’essere rimasti minoranza, stranieri nella loro terra, le stragi, i massacri, le foibe, le torture subite nei vari campi di concentramento jugoslavi, tra cui quello di Goli Otok, e molto altro ancora. Il tratto che accomuna tutte queste persone è l’essere stati italiani in una terra che italiana non è più stata.
Il libro si divide in quattro parti. La prima raccoglie le testimonianze degli “esuli” o dei “rimasti” nella costa occidentale dell’Istria: Buie, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Dignano. Nella seconda parte, ascoltiamo gli “esuli” e i “rimasti” a Pola, dove il 18 agosto 1946 è avvenuta la strage di Vergarolla da parte dei servizi segreti jugoslavi: “il culmine del terrorismo, il punto di non ritorno che ha spinto i polesani a optare per l’esilio, certi che la loro condizione, con l’ormai imminente occupazione slava, sarebbe solo potuta peggiorare”. In questa parte ascoltiamo ancora le voci di altri “rimasti”, nella costa orientale istriana, ad Albona, o a Fianona. Mentre nella quarta e ultima parte, troviamo le storie, forse, meno note, dei titini italiani e degli italiani del controesodo, comunisti convinti.
Nonostante il muro di Berlino sia caduto nel 1989, queste storie non sono ancora affrancate dall’ideologia. Lo si vede dalle diverse reazioni che sta suscitando lo spettacolo, tratto da questo libro, del cantautore romano Simone Cristicchi, Magazzino 18. Un’opera che riceve, insieme a una critica entusiasta e commossa, la scomunica dell’Associazione dei Partigiani Italiani unita però alla difesa di un deputato del PD, figlio di un partigiano. Ci auguriamo comunque di vedere presto a Verona Magazzino 18 che sicuramente ci può aiutare ad uscire da questa impasse ideologica che sembra riproporre pari pari quel passato che ci racconta Claudio Ugussi, un “rimasto”, pittore e scrittore di Buie nato a Pola:, “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (...) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.” E tra loro, ci sono stati anche i comunisti in buona fede che hanno visto crollare gli ideali cui avevano dedicato la vita, o perlomeno la loro giovinezza. Così Myriam Andreatini, esule con tutta la famiglia, racconta dello zio Giovanni, ateo e socialista, rimasto a Pola per costruire la Pola Jugoslava: “solo dopo alcuni anni, nel 1951, si decise a scrivere una lettera alla nonna. Con gli occhi chiusi, la nonna ascoltava in religioso silenzio le parole che le leggevo del figlio rimasto. Allo zio Giovanni il mondo era crollato addosso. Tutti i suoi ideali erano andati distrutti. Il 1° maggio invece di festeggiare il giorno dei lavoratori andava nell’unica chiesa dove era rimasto un sacerdote, quella dedicata alla Madonna del mare, per confessarsi e fare la prima comunione. Morì poco dopo, nel 1953, solo e deluso nella sua Pola.”

recensione di Maddalena Cavalleri
(pubblicata su Verona Fedele nel febbraio 2014)

MAGAZZINO 18 - SIMONE CRISTICCHI



In un Teatro Nuovo gremito, Simone Cristicchi ha presentato il suo musical civile, Magazzino 18, grazie all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che ha voluto offrire lo spettacolo a tutti i suoi soci, ai loro familiari e alla cittadinanza di Verona. Un modo nuovo e forte per celebrare la Giornata del Ricordo, istituita dieci anni fa per ricordare le vittime dei massacri delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 assegnava alla Jugoslavia l’Istria e buona parte della Venezia Giulia, ponendo gli italiani, che abitavano quelle terre, di fronte a una scelta forzata di andare o di restare. In circa trecentocinquantamila decisero di partire e molti, nella speranza di poter presto tornare, lasciarono le loro masserizie nei magazzini del Porto Vecchio di Trieste. “Oggi il Magazzino 18 è un cimitero di oggetti dove riposa, non in pace, la vita quotidiana di migliaia di esuli”. Un “cimitero” riportato in vita grazie alla magia del teatro dove l’artista, per raccontare questa tragedia, fa dialogare tra loro il presente e il passato grazie a due personaggi impersonati da lui stesso: l’archivista Persichetti e lo spirito delle masserizie. L’umile funzionario romano, un po’ faceto un po' burocrate, inviato da Roma per fare l’inventario degli oggetti del magazzino, dà voce all’inconsapevole ignoranza popolare che nulla conosce della tragedia istriana. Mentre la voce lirica dello spirito delle masserizie cerca di aiutare l’ignaro archivista a prendere coscienza della tragedia che si è consumata in queste terre, facendo rivivere gli oggetti legati alle tante storie di donne, uomini, vecchi e bambini: dal sopravvissuto alle foibe alla piccola Marinella morta di freddo in uno dei campi profughi allestiti dall’Italia, per accogliere gli esuli d’Istria. In questo viaggio nella storia perduta, Persichetti, e lo spettatore con lui, vivono una vera e propria catarsi che porta ciascuno verso una coscienza collettiva più consapevole, pacificatrice delle ferite ancora aperte della nostra storia. Una coscienza collettiva che anziché seguire le ideologie e i luoghi comuni di tanti “sapientoni”, ha l’umiltà di ascoltare una ad una le storie di coloro che hanno vissuto e pagato, a diverso titolo, per questa tragedia. Alla fine di questo viaggio nella memoria, il semplice, onesto e diligente Persichetti decide sì di archiviare tutto, tranne una pratica “che ne vale però trecentomila”. Vuole rispondere alla signora Biasiol, figlia di esuli istriani, che chiedeva notizie degli oggetti appartenuti ai propri genitori. Una delle tante lettere rimaste senza risposta. Così l’archivista, rammaricandosi per il ritardo, decide di rispondere a nome e per conto del ministero degli Interni della Repubblica, pregando la signora di accettare “le nostre più sentite scuse”. Lo spettacolo si chiude sulle note di una canzone che alterna recitativo e musica scandendo un nome e una storia per ogni sedia: simbolo di una quotidianità spezzata e spazzata via perché  “Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / “Non dimenticare”…
Nonostante Cristicchi sia stato accusato di revisionismo e che il suo spettacolo sia stato addirittura interrotto (non a Verona) da giovani contestatori, l’artista cerca di raccontare l’esodo istriano creando le condizioni culturali perché  "ognuno scenda a patti co’ li scheletri ne l’armadi sua”. Cristicchi, sfruttando al massimo la magia del teatro, riesce a tenere desta l’attenzione dello spettatore grazie a un’alternanza continua ed equilibrata tra narrazione storica e lirica, ora impetuosa, ora leggera, cadenzata da musica, cori di voci bianche, monologhi struggenti o esplosivi come le canzoni che si succedono, il tutto accompagnato da foto e filmati di repertorio. Tanta l’emozione in sala: il pubblico, commosso, si è alzato per applaudire Simone Cristicchi, il coro delle voci bianche e gli artisti  che hanno contribuito alla riuscita dello spettacolo (Jan Bernas, il regista Antonio Calenda). Un gesto per esprimere tutta la gratitudine per la memoria finalmente ritrovata. 

di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata su Verona Fedele a febbraio 2014)

L'ALTRA FACCIA di Christian Bobin (L'autre visage)





Ognuno di noi, a seconda dei periodi della vita e delle età, può scegliere di cosa nutrirsi. Esistono livres de chevet che accompagnano, soprattutto in alcuni momenti della vita. “Un vero scrittore è qualcuno che viene a casa mia e che scosta dal mio tavolo le cose che mi impedivano di vedere” – è una delle tante definizioni di scrittore che troviamo nella sterminata produzione di Christian Bobin, scrittore francese contemporaneo, ancora poco conosciuto in Italia dove, però, ha un pubblico di fedelissimi. Solo una minima parte della sua cospicua produzione letteraria è stata, a tutt’oggi, tradotta da noi: le Edizioni San Paolo, Qiqajon, Gribaudi, Servitium ma anche piccoli editori laici come Archinto, Perosini, Camelopardus hanno cercato di diffondere la sua opera. Ma è la casa editrice Servitium che, in questi ultimi anni, sta facendo lo sforzo di offrirci, a scadenza quasi annuale, piccoli sorsi bobiniani. L’ultimo in ordine di apparizione è il libriccino L’altra faccia (Servitium 2010): una breve meditazione poetica o forse una sorta di racconto filosofico, piacevole da leggere e da meditare, nulla di pesante o complicato.
Brevi frasi, riflessioni, aforismi si intercalano agli spazi bianchi che sono lì a ricordarci le pause della scrittura e della vita, come quando ci parla dei suoi stati d’animo, tanto comuni e frequenti nella vita di ciascuno di noi: Tristezza e stanchezza: un solo mantello, con il suo rovescio, con il suo dritto. / Tristezza – la stanchezza che entra nell’anima. / Stanchezza – la tristezza che entra nella carne.
Chez nous è l’incipit di ogni capitoletto. Chez nous, che vuol dire “da noi” ovvero nel nostro mondo, accade che… e così l’amore, la legge, la storia, il tempo, la morte scorrono tra le pagine in brevi massime illuminanti e provocazioni leggere che ci restituiscono in filigrana, il nostro mondo -  in un contro canto continuo. Come quando leggiamo: Da voi il tempo si accumula – e poi appassisce./ Da noi il tempo si perde – e poi fiorisce.
L’altra faccia sembra raccontare, in 43 paginette, la storia di un popolo felice in contrapposizione con l’altra faccia, ovvero l’altro mondo: il nostro - che ci viene restituito nella sua verità.
La scelta editoriale di Servitium si è concentrata più sulle opere brevi di Bobin: si tratta di veri e propri libriccini pieni di scintille di luce i cui titoli ci indicano già la via del silenzio e della meditazione: Il distacco dal mondo (Servitium 2005); Elogio del nulla (Servitium 2005); L’equilibrista (Servitium 2005); Consumazione (Servitium 2006), La parte mancante (Servitium, 2007), L’ottavo giorno (Servitium 2008).
Essi danno anche ragione del carattere di Bobin: un uomo schivo, appartato, lontano dalle luci della ribalta: “un eremita”, “un mistico in comunione con la natura”, “l’apostolo del dettaglio”, “l’innamorato del filo d’erba” – sono alcune definizioni della critica d’oltralpe. Immagini che danno appena un’idea del mondo che ci viene incontro quando conversiamo con Bobin. Perché per parlare di lui è necessario parlare con lui: riportare la sua voce e accordare la nostra alla sua fino all’unisono.
Consigliando questo libro mi vengono in mente le parole di Bobin quando dice – nella Luce del Mondo (Gribaudi 2001)“La vita dei libri e della gente è molto personale. Non si può indurre qualcuno a una lettura dicendogli: ‘Leggi, vedrai, è magnifico’, né ad un’amicizia dicendogli: ‘dovresti frequentare quel tale, è un tipo formidabile’. Non funziona mai così. Bisogna trovare se stessi. Da bambino, non volevo che mi si imponesse cosa dovevo fare e leggere. Il vero può solo passare da se stessi”.


Chissà… solo per questo, forse, vale la pena di leggere Christian Bobin.

di Maddalena Cavalleri
(recensione apparsa sul settimanale Verona Fedele diversi anni fa)

Il Medio Oriente cristiano di Antonio Picasso (2010)



“Il cristianesimo mediorientale è un mosaico che, osservato da lontano, appare uniforme. A mano a mano che ci si avvicina, però, i singoli tasselli emergono e si profilano nella loro singolarità, con una forma, una misura e un colore del tutto unici”. Ci aiuta ad osservare questo mosaico Antonio Picasso, viaggiatore-giornalista che con rispetto e curiosità tutta laica, ci propone questo reportage tra i cristiani nel cuore della mezza luna fertile. Il Medio Oriente cristiano (ed. Cooper, 2010) presenta otto capitoli scritti con chiarezza divulgativa che hanno il pregio di attraversare le diverse comunità sparse nelle terre dove è nato e si è poi diffuso il cristianesimo. Il viaggio inizia davanti alla chiesa del Santo Sepolcro, con una domanda tutta politica che il generale israeliano Moshe Dayan rivolge ai suoi soldati, nuovi conquistatori di Gerusalemme (Guerra dei sei giorni): “E ora cosa ci facciamo con tutto questo Vaticano?”.
Il viaggio, dopo una breve introduzione storico politica delle guerre che si sono succedute nel tempo per la conquista di Gerusalemme, procede nel suq della città vecchia, per continuare a Betlemme e a Nazareth, attraverso Israele, i Territori Occupati e la striscia di Gaza dove però l’autore non ha avuto il permesso di entrare. Egli riesce comunque a raccontarci come vivono i cristiani grazie alla testimonianza di Padre Mudros e dello stesso patriarca latino Twal Fouad.
In questo cammino, incontriamo anche i cristiani della Giordania, del Libano, della Siria, dell’ Egitto, dell’Iraq e della Turchia. Di ogni chiesa cristiana, ascoltiamo la storia, o meglio il dramma, direttamente dalla voce delle loro guide spirituali.
Pregevole lo sforzo di fornire al lettore delle chiavi di lettura interpretative dando il quadro storico politico e religioso in cui vive ogni comunità. Difficile, infatti,  prescindere dalla politica: sia quella giocata dalle grandi potenze europee nel grande “Risiko” di inizio secolo sia quella dei singoli stati, ieri come oggi.
Tuttavia la lettura scorre piacevolmente mentre l’autore ci conduce nelle diverse realtà con rispetto e a tratti con poesia. Come quando a Istanbul rimane incantato ad ascoltare una mamma assira fuggita dal Kurdistan iracheno mentre recita il rosario in una lingua incomprensibile: “non è arabo con la sua scorrevole dolcezza, cadenzata da suoni gutturali. E tanto meno turco, fatto di vocali strette costellato da dieresi continue.” E’ il sureth una forma moderna di aramaico. L’Iraq, dove il cristianesimo attecchisce già nel I sec. d.C., serba ancora questi tesori nonostante tutti i pogrom vissuti dai cristiani. Ma al di là della poesia, la testimonianza di monsignor Sleiman denuncia la situazione drammatica che vivono i cristiani in questa terra martoriata.
Purtroppo la diaspora cristiana attraversa tutto il Medio Oriente. Unica eccezione sembrano essere la Siria e, in tono minore, la Giordania dove i cristiani sono inseriti nella pubblica amministrazione e dove re Abdallah nel 2001 ha proclamato il 25 dicembre e il 1° gennaio feste nazionali alla pari di quelle islamiche.
“Ad Aleppo e a Damasco – dice Padre Selim di Nazareth - la vita è diversa, ecco forse lì i miei confratelli sono più poveri, oppure legati a un sistema politico meno democratico di quello israeliano. Chiedetevi però, voi occidentali, per quale motivo da Israele alla Palestina si fugga e non invece dalla Siria”.
Le chiese cristiane divengono agli occhi del viaggiatore come tante nebulose: frammentate, sparse qui e là, sempre più vittime di una situazione politica che sta provocando una diaspora inarrestabile. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, ci restituisce, a questo proposito, una realtà pesante da accettare:“Con le divisioni che ci caratterizzano, la povertà e le persecuzioni di cui siamo vittime, il nostro peso è nullo. Da anni poi la situazione ha provocato un’ondata migratoria, per cui i cristiani che abitano in Terra santa si sono ridotti all’1% della popolazione. Cosa possono fare quando sono così in pochi?”.
In aumento sono i matrimoni misti tra fedeli delle diverse chiese cristiane: la base delle parrocchie sembra agire con maggior ragionevolezza rispetto alle loro guide spirituali, ancora divise.
Ma i capitoli che forse attirano maggiormente l’ attenzione del lettore sono quelli dedicati alle chiese protestanti, al cui interno esiste una grandissima differenza di prospettiva nei confronti del Medio Oriente.
Il Kaiser Guglielmo II e poco dopo il generale Allenby entrano a Gerusalemme attraverso la Porta di Giaffa con stili e politiche diverse. La chiesa luterana e anglicana da allora iniziano a radicarsi nel territorio cercando di rispettare la popolazione nella loro identità. Ma è la chiesa evangelica statunitense, o meglio le sue miriadi di “nebulose” che stanno portando tra gli arabi cristiani maggior scompiglio. Questi “Sionisti cristiani” a differenza dei protestanti di origine europea, sono animati da un forte e autentico spirito evangelico, “appesantito da una forte componente politica” in quanto appoggiano apertamente la politica espansionistica dello Stato di Israele in contrasto e netta opposizione con le altre chiese e congregazioni protestanti (anglicani, calvinisti, luterani, metodisti etc..) i cui fedeli sono arabi.
Essere cristiani in Medio Oriente sta diventando sempre più difficile: il fondamentalismo islamico, il conflitto israelo-palestinese stanno rendendo sempre più difficile la vita dei cristiani. I giovani, grazie agli ottimi studi offerti dalle stesse scuole cristiane, scelgono di andare all’estero per darsi migliori opportunità di vita.
Il Medio oriente cristiano porta fino a noi questa diaspora silenziosa insieme a un salmodiare di donne.

“A fianco della donna irachena – in una chiesetta di Istanbul - una ragazza prega a voce più bassa, poi c’è un’anziana e infine una una signora di età imprecisabile. Sono rispettivamente un’araba della Siria – quindi melchita – un’anziana armena con gli occhi azzurri e luccicanti, e una signora turca… Nel salmodiare, ognuna segue il suo cammino. La prima prega in arabo, la seconda in armeno, l’ultima in turco” 

di Maddalena Cavalleri
(la recensione è stata pubblicata da Verona Fedele diversi anni fa)

NOI CREDEVAMO di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985)




Noi credevamo di Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985), pubblicato nel 1967, torna ora nelle librerie grazie al recente film omonimo di Mario Martone, uscito in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (lo ristampa Mondadori, negli “Oscar”). Scopriamo così una grande scrittrice ingiustamente dimenticata, dalla prosa raffinata, che ha saputo restituirci, con grande onestà intellettuale, una parte della nostra storia risorgimentale.
Il Risorgimento scritto con rabbia, titola la postfazione di Enzo Siciliano che accompagna la presente edizione (si tratta di un saggio uscito nel 1967 su “L’Espresso”). Noi, invece, preferiremmo parlare di un Risorgimento scritto con lucidità e senza retorica. Un Risorgimento raccontato dal punto di vista di un settantenne galantuomo calabrese di fede repubblicana che vede svanire, giorno dopo giorno, la realizzazione degli ideali democratici ai quali ha sacrificato un’intera vita. Ferite ancora aperte di un’Unità che fa ancora discutere. Un bellissimo romanzo (ignorato non solo dall’editoria italiana ma, ahimè, anche dai programmi scolastici) che ci può aiutare a ripercorrere alcune vicende risorgimentali senza l’enfasi del mito ma con la consapevolezza che sempre le grandi rivoluzioni portano con sé, irrimediabilmente, un senso di delusione e di fallimento: la giustizia degli uomini reca in sé luci e ombre.
“Il mondo è uguale a come l’ho trovato nascendo, sordo e falso. – scrive don Domenico, voce narrante del romanzo,  alla fine delle sue memorie - Tanto dire che ho vissuto e sofferto invano. Non saprò mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, non avrei meglio giovato alla realizzazione delle idee che ancora credo giuste: e questa è la mia sola salvezza”. 
La Banti scrive la storia in prima persona attraverso la voce di Domenico Lopresti. Egli inizia e conclude il racconto delle sue memorie, a Torino,  in un anno (giugno 1883-1884), attraverso un gioco di flash-back ben strutturato:  vecchiaia, maturità, giovinezza, adolescenza e infanzia scorrono in un flusso continuo di rimandi tra le diverse stagioni della vita. Un’esistenza avventurosa, la sua: dall’iscrizione alla Setta dei Figlioli della Giovine Italia alle cospirazioni segrete, fino all’arresto e al processo; i quasi dodici anni trascorsi nelle dure carceri borboniche; la sua liberazione rocambolesca  in coincidenza con lo sbarco dei Mille. Nonostante gli anni della dura prigionia, don Domenico continua a combattere e a inseguire i propri ideali democratici, benché la realtà gli mostri un mondo colmo di ingiustizie nel quale coloro che hanno i loro privilegi fanno di tutto per continuare a tenerseli, rinnegando, se necessario, gli ideali di giustizia e libertà. Il protagonista partecipa anche alla battaglia dell’Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i l’esercito regio (ovvero i “piemontesi”) e i sostenitori di Garibali fa sentire ancora aperte le ferite dell’Unità. Ricordando la battaglia Don Domenico scrive: “Tante volte mi era successo di designare, fra me, l’esercito regio, ‘i piemontesi’: ma sentirli chiamare così, da italiani che li temevano come nemici, mi sconvolse.”
Il romanzo dà voce a personaggi risorgimentali realmente esistiti: oltre al protagonista, nonno dell’autrice,  incontriamo Benedetto Musolino, liberale antiborbonico di Pizzo Calabro, fondatore della Setta detta dei Figlioli della Giovine Italia (1832), eletto deputato nel primo parlamento nazionale, il nobile democratico Sigismondo Castromediano, che condivide le carceri borboniche con Don Domenico e altre figure che restano però sullo sfondo, come Gioacchino Murat, Pisacane, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Ferdinando II di Borbone.
Un affresco risorgimentale senza miti ma attraversato da profonde ferite, compromessi e tradimenti, che vivono tuttora nelle pieghe della nostra storia contemporanea. Un romanzo comunque da leggere per capire da dove veniamo e per ascoltare una voce che ci restituisce un Risorgimento fatto di uomini che hanno creduto e che hanno visto frantumarsi davanti ai loro occhi tutti i sogni di uguaglianza e fratellanza.
Quando Don Domenico si trova, nel tardo autunno del 1861, a passeggiare tra i luoghi della sua infanzia, che ormai fanno parte del Regno Unito, sente viva la distanza dal suo nuovo Re: “… Poi, alzando gli occhi alle massicce torri rotonde dove, da bambino, avevo visto una volta i soldati borbonici in vedetta, ora sguarnite e nulla più che reliquie di una remota potenza, mi rallegravo pensando che adesso appartenevano a noi meridionali più che a re Vittorio: non lui, ma i Mille le avevano conquistate.”
Innumerevoli sono le pagine in cui sentiamo palpitare l’anima di un Sud che si è sentito tradito e che cerca e trova la propria dignità di popolo senza rancori o rivendicazioni ma con umanità e pietà. Per tale ragione è un libro che va letto per aiutarci ad abbracciare le ferite ancora aperte di un Paese che sta cercando la sua “unica” voce e stenta ogni giorno a trovarla: ma la storia di un popolo assomiglia per molti aspetti alla storia di un individuo che, solo quando decide di ascoltare, riconoscere e abbracciare le proprie ferite, può riconciliarsi con la propria storia, con le sue luci e le sue ombre.
A questo noi, oggi, crediamo.

di Maddalena Cavalleri
(recensione pubblicata sul settimanale Verona Fedele nel 2011)





LA SOLITUDINE - Christian Bobin


Nella mia vita non c’è un briciolo di saggezza. E neanche di follia. Non so esattamente cosa c’è nella mia vita. Forse, semplicemente la vita. E la solitudine, che è saggezza e follia fuse insieme. La solitudine s’impadronisce della mia casa con estrema disinvoltura. Non lascia nulla al di fuori di lei, con la sola eccezione della pagina bianca. È quando scrivo che io sono meno solo. La solitudine, quando cresce all’interno di una coppia, è terribile, malefica. Quando entra in casa mia è – come dire? – rilassata. Ha le sue abitudini, il suo luogo deputato. La solitudine è una malattia da cui non si guarisce se non lasciandola in tutta libertà e soprattutto non cercandone il rimedio, da nessuna parte. Ho sempre temuto coloro che non sopportano di restare soli e chiedono alla coppia, al lavoro, all’amicizia, perfino al diavolo ciò che né la coppia, né il lavoro né l’amicizia, né il diavolo possono dare: la protezione contro se stessi, l’assicurazione di non dover mai fare i conti con la verità solitaria della propria vita. Queste persone sono infrequentabili. La loro incapacità a stare sole fa di loro le persone più sole al mondo.
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       tratto da Consumazione di Christian Bobin 







Foto di Henri Cartier - Bresson

lunedì 21 aprile 2014

AMAREZZA


È impossibile proteggere dalla sofferenza coloro che amiamo: ho dovuto impiegare molto tempo per imparare una cosa così semplice. Imparare è sempre amaro, sempre a nostre spese. Non rimpiango questa amarezza.
tratto da La presenza pura di Christian Bobin





foto di Edouard Boubat
http://www.edouard-boubat.fr/




ANNA KARENINA - LEV TOLSTOJ





Anna Karenina di Lev Tolstoj, pubblicato nel 1877, è riconosciuto come uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi.
La storia di Anna Karenina, coniugata con Aleksjéj Aleksàndrovič Karenin, e del suo amore tormentato per il giovane ufficiale conte Alekséj Kirillovič Vronskij è nota: per lui Anna decide di lasciare il marito e il figlio di otto anni Serjòža, una scelta che la porterà a vivere un’ umiliazione a tutto campo che ella risolverà con il suicidio.
Parallela alla storia d’amore tormentata e infelice di Anna e Vronskij si dipana quella tra  Levin e Kitty che invece proprio nel matrimonio vede una serenità di vita possibile. I quattro personaggi sono legati tra loro da legami familiari, di amicizia o sentimentali: Kitty (Katerina Aleksandrovna Ščerbackaja) è la giovane diciottenne che il giovane Vronskj, aristocratico ufficiale in carriera, frequenta e “inconsapevolmente” corteggia prima di incontrare Anna; il timido trentaquattrenne Konstantin Dmitrič Levin è invece amico, sin dalla giovinezza, del fratello della Karenina, il principe Stepàn Arkàdjevič Oblonskj, (Stiva) che ha sposato la sorella maggiore di Kitty, Daria Alexandrovna (Dolly) dalla quale ha avuto sette figli.
La celeberrima frase che dà l’avvio al libro “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. “ accende i riflettori a Mosca nell’interno della casa di Stiva e Dolly in piena crisi matrimoniale, mentre Anna, in viaggio da Pietroburgo, sta andando in soccorso al fratello Stiva per mediare e convincere la cognata Dolly a non chiedere il divorzio. Anna ancora non conosce Vronskij ma sarà proprio la stazione dei treni a divenire un luogo di incontro ma anche di morte, luogo segnato sin dagli inizi da una premonizione che scandirà l’intera vicenda, fino al suo tragico epilogo, quando Anna troverà la morte lasciandosi cadere sotto un treno.

Tolstoij dipinge un grande affresco e in esso un trittico di coppie dove Stiva-Dolly non solo sono funzionali a legare i personaggi principali tra loro, ma offrono al lettore due ritratti stupendi e un altro esempio di matrimonio, dove l’amore extraconiugale del marito viene tollerato, suo malgrado, dalla moglie, la quale riverserà il proprio amore sui figli.
Anna e Dolly, cognate, entrambe sposate legate da un grande affetto, eppure così diverse e i cui destini si snodano tra ferite e sofferenze che sono la spia della condizione femminile del tempo. Agli inizi del romanzo è Anna ad andare in soccorso alla cognata Dolly ferita dal tradimento del marito, verso la fine sarà Dolly a ricambiare l’affetto di una visita ad Anna, rimasta esclusa dalla buona società per aver lasciato il marito e il figlio ed essere andata a convivere con Vronskij.
Dolly è sinceramente affezionata alla cognata che, a differenza di lei, ha avuto la forza di seguire il proprio cuore: invidia Anna proprio perché ha avuto il coraggio di fare ciò che lei invece non ha saputo fare. Durante il viaggio verso Vozdvíženskoje, dove Anna si è stabilita con Vronskij, i pensieri le si affastellano: ripensa alla sua vita e vorrebbe essere al posto di Anna, proietta su di lei ogni felicità e realizzazione possibili. In lei vede ciò che le sembra mancare alla propria vita; durante il viaggio Dolly fantastica, costruisce castelli ma poi, una volta giunta da Anna, si rende conto della situazione e della sua sofferenza. Ha fretta di rientrare a casa dove una volta arrivata dimenticherà “quell’indefinito senso di scontentezza e di disagio che aveva provato da loro”.

Tolstoij è magistrale nel dipingere tutte le contraddizioni, i lati chiari e oscuri dei suoi personaggi. Se ci concentriamo su ciascuno di loro, emergono volti e voci pieni di vita che il lettore attento ascolta e comprende. E a legger bene anche il marito ha la sua storia e i suoi dolori e il suo sentire. Lo stesso marito della Karenina, Aleksjéj Aleksàndrovič è cresciuto orfano, educato da uno zio, un burocrate importante, è stato instradato verso la carriera del funzionario governativo. Occupa uno dei posti più importanti nel ministero cui appartiene il tribunale. Prima di sposarsi, trascorre una vita un po’ in solitudine, senza coltivare né amicizie né relazioni. Si sposa con la giovane Anna per insistenza della zia di lei che “ l’aveva fatto incontrare […] con sua nipote e lo aveva messo nelle condizioni di dichiararsi o di andar via dalla città …. Ma la zia di Anna gli aveva già fatto dire per mezzo di un conoscente che lui aveva già compromesso la ragazza e che un dovere d’onore lo obbligava a far la proposta di matrimonio. Lui aveva fatto la proposta e aveva dato alla fidanzata e alla moglie tutto il sentimento di cui era capace. Karenin era un uomo di fatto congelato, che avevo represso le proprie emozioni e sentimenti. “Aleksjéj Aleksàndrovič aveva vissuto e lavorato per tutta la sua vita negli ambienti impiegatizi, che avevano a che fare coi riflessi della vita. E ogni volta ch’egli si imbatteva nella vita stessa, se ne scostava”. Egli veste i panni del cristiano bigotto che si è evoluto e irrigidito verso una fede “superstiziosa”. Quando, infatti, egli dovrà decidere se concedere o meno il divorzio alla moglie, si rivolgerà per chiedere consiglio sul da farsi, a un balordo e falso guaritore francese che finge di parlare nel sonno ma che in realtà sa ben spillare ai ricchi aristocratici russi fior di quattrini, ospitalità e onori.
Alekseij, abbandonato dalla moglie, è un uomo ferito e sa quanto la società sia spietata. Sa che ciò che la società gli rimprovera è proprio il suo dolore: “Sentiva che non poteva allontanare da sé il disprezzo della gente, perché quel disprezzo non derivava dal fatto che egli fosse cattivo (in questo caso avrebbe potuto sforzarsi di essere migliore), ma dal fatto che lui era infelice in modo vergognoso e ripugnante. Sapeva che per questo, per il fatto stesso che il suo cuore era dilaniato, loro sarebbero stati spietati nei suoi confronti. Sentiva che la gente lo avrebbe annientato, come i cani dilaniano un cane ferito che guaisce dal dolore. Sapeva che l’unica salvezza dalla gente stava nel nascondere le sue ferite, e questo aveva inconsciamente tentato di fare due giorni, ma adesso non si sentiva più le forze di continuare questa impari lotta. Karenin sa bene che la propria  “debolezza” può essere fonte di disprezzo.

Karenin e Anna. Un matrimonio senza amore, dove nessuno si sente amato. Ma Anna non solo non si sente amata dal marito, ma nemmeno da Vronskij, l’uomo per cui ha sacrificato tutto. “Cosa cercava egli in me? Non tanto amore quanto soddisfacimento di vanità. […] Sì, in lui c’era il trionfo del successo di vanità. S’intende c’era anche l’amore, ma la parte maggiore era l’orgoglio del successo. Egli si vantava di me. Adesso è passata.” Il terrore di essere abbandonata dal giovane ufficiale non fa che aumentare la sua ansia e la sua disperazione. Percependo se stessa come il problema e obnubilata dalla vendetta nei confronti dell’amante da cui si sente abbandonata, Anna decide di togliersi la vita. Il grande dramma di Anna è questo vuoto e mancanza di amore che Tolstoij ci restituisce in modo magistrale, attraverso i pensieri di Anna nei confronti del marito: “Ha ragione! Ha ragione!” si disse. “Si capisce, lui ha sempre ragione, lui è cristiano, lui è magnanimo! Sì, che uomo vile disgustoso! E questo nessuno all’infuori di me lo capisce e lo capirà; e io non posso spiegarlo. Dicono: è un uomo religioso, morale, onesto, intelligente; ma non hanno visto quello che ho visto io. Loro non sanno che per otto anni lui ha soffocato la mia vita, ha soffocato tutto ciò che c’era in me di vivo, che mai una volta ha pensato che io sono una donna viva che ha bisogno d’amore. Non sanno come mi offendeva a ogni passo e rimaneva soddisfatto di sé. E io non mi sono sforzata con tutte le forze di trovare una giustificazione alla mia vita? Ma è venuto il momento in cui ho capito che non potevo più ingannare me stessa, che ero viva, che non avevo colpa se Dio mi ha fatto così, che avevo bisogno di amare e di vivere. E adesso? Mi avesse uccisa, avesse ucciso lui, avrei sopportato tutto, perdonato tutto, ma no, lui….”

Le due storie d’amore “protagoniste” Anna-Vronskij e Levin-Kitty si fanno da contro canto l’una con l’altra, tutti e quattro i personaggi sono alla ricerca di un amore che li appaghi, ma ciascuno parte da premesse diverse e reagisce alla mancanza d’amore in modo diverso. Guardare a queste coppie secondo lo schema: l’amore-tormentato- è-bello- e-se-non-è–tormentato-vuol-dire-che–non-è–vero-amore-mentre-l’amore-coniugale-è-noioso-e-scontato sarebbe non rendere giustizia al grande affresco dipinto da Tolstoij, così profondo e magistrale nel restituire al lettore un’introspezione dei personaggi così attuale, nonostante i grandi cambiamenti e le profonde trasformazioni che la società e la condizione femminile hanno subito nei secoli.
Durante uno dei suoi monologhi interiori, Anna guarda alla vita da una prospettiva che non lascia spazio: “Non siamo forse tutti gettati nel mondo soltanto per odiarci a vicenda, e poi tormentare noi stessi e gli altri?” Agli inizi della sua relazione con Vronskij, Anna è convinta di non poter scegliere tra il suo amante e suo figlio (come suo marito cerca di imporle):“Sentiva che quella posizione di cui godeva nel mondo, e che al mattino le era sembrata così poco importante, che quella posizione le era cara, che lei non avrebbe avuto la forza di cambiarla nella posizione ignominiosa della donna che abbandona il marito e un figlio e si unisce con un amante; che per quanto si fosse sforzata, non sarebbe stata più forte di se stessa. Non avrebbe mai provato la libertà dell’amore ma sarebbe rimasta per sempre una moglie colpevole, sotto la minaccia incessante d’essere mascherata, una moglie che ingannava il marito per un legame vergognoso con un altro uomo, che nulla legava a lei, con il quale non poteva vivere una vita non doppia. Sapeva che così sarebbe stato, e nello stesso tempo ciò era così orribile che non poteva neppure immaginarsi come sarebbe andata a finire. E piangeva, senza trattenersi, come piangono i bambini puniti.”
Tuttavia l’amore per Vronskij farà allontanare Anna dal suo amato Serjòža, e le farà compiere ciò che fino a poco tempo prima le sarebbe parso inconcepibile: “Anch’io pensavo di volergli bene [a Serjòža] , e mi commovevo dinanzi alla mia tenerezza. E ho vissuto senza di lui, e l’ho scambiato con un altro amore e non mi sono lamentata di questo baratto, finché mi accontentavo di quell’amore.

Anna e Lévin sembrano percorrere due strade contrarie, opposte.
Anna è delusa dal proprio matrimonio che le è stato, comunque, imposto dalla sua condizione: è  la zia ad aver combinato tutto. Ma è anche delusa dal suo amante. La sua spirale emotiva e sentimentale è autodistruttiva. Non è così per Lévin che riesce, invece, a costruire negli anni una vita che sente propria.
La ricerca di Lévin dell’amore e della felicità non è tranquilla e lineare, al contrario essa segue un percorso accidentato, fatto di delusioni, paure. Ma per Lévin, uomo, sembra essere “più semplice”, sicuramente è diverso. Egli si allontana dalla società mondana, si ritira in campagna, va alla ricerca di una vita più vera, e in quanto uomo, lo può fare: è un possidente terriero, ha un nome di famiglia importante, insomma ha le spalle e le condizioni per poterselo permettere.
Quando Lévin si innamora della giovane Kitty infatuata di Vronskij, la va a chiedere in sposa. Ma Kitty, sebbene Lévin sia un buon partito, è  soggiogata dal mondano Vronskij (come sua madre lo è del patrimonio!). Eppure Levin, anche dopo il rifiuto di Kitty alla sua proposta di fidanzamento “si sentiva se stesso e non voleva essere un altro. Egli adesso voleva solo essere migliore di com’era prima. In primo luogo da quel giorno egli decise che non avrebbe più sperato una felicità straordinaria, come gliela doveva dare il matrimonio, e in conseguenza di ciò non avrebbe disdegnato tanto il presente. In secondo luogo, egli non si sarebbe mai più permesso di lasciarsi trascinare dalla sconcia passione, il cui ricordo lo aveva tormentato tanto quando era in procinto di far la proposta di matrimonio.
È la reazione di Lévin al rifiuto di Kitty ad indicargli una strada da percorrere. Osserva i matrimoni altrui, e mai vorrebbe fare la stessa fine. Per lui, è convinto, sarà diverso. Ma quando, finalmente, riuscirà a sposare Kitty, dopo averla tanto attesa e sognata, egli stesso non sfuggirà al sentimento di delusione nei confronti della vita matrimoniale: “Era felice, ma affatto diversamente da come se l’aspettava. A ogni passo trovava una delusione dei sogni di prima e un nuovo fascino inaspettato. Era felice, ma, entrato nella vita familiare, vedeva a ogni passo che la cosa era completamente diversa da come se l’era immaginata.” Ciò nonostante, la vita matrimoniale di Lévin, nel tempo troverà la sua realizzazione e pienezza, proprio nell’accettazione delle fragilità e dell’imperfezione. Lévin continuerà anche la sua ricerca spirituale, continuerà ad interrogarsi sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sul bene e il male.
Tolstoij chiuderà il grande affresco proprio con il pensiero di Levin, riconciliato nel profondo non solo con il proprio matrimonio ma con l’imperfezione della condizione umana, alla luce della fede: “Questo nuovo sentimento non mi ha cambiato, non mi ha reso felice, non mi ha rischiarato di colpo, come sognavo; così come non lo ha fatto il sentimento per mio figlio. Anche qui non c’è stata nessuna sorpresa. Si tratti o no della fede – di preciso non so cosa sia – questo sentimento è entrato in me attraverso le sofferenze in modo egualmente inavvertito e si è fermamente stabilito nella mia anima.
Mi arrabbierò egualmente con il cocchiere Ivan, egualmente discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci sarà sempre lo stesso muro fra il sacrario della mia anima e gli altri e perfino con mia moglie, la brontolerò egualmente per lo spavento che ho provato, e ne sentirò rimorso, egualmente non capirò con la ragione perché prego e potrò pregare, ma cha la mia vita, qualunque cosa accada, in ogni suo momento, non solo non è priva di senso come prima, ma ha un significato sicuro che le deriva dal bene su cui io posso fondarla.”

VAGANDO PER LE STRADE - di Dostoevskij


Vagando per le strade , mi piace osservare certi passanti del tutto sconosciuti, studiare i loro visi ed indovinare chi sono, come vivono, di che cosa si occupano e che cosa li interessa particolarmente in quel dato momento.

tratto dal Diario di uno scrittore di F. Dostoevskij

Edouard Boubat, Times Square, New York 1953



LE NOSTRE CHIACCHIERE


Il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin

In cielo c’è una stella per ciascuno di noi, sufficientemente lontana perché i nostri errori non possano mai offuscarla.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin

Scrivo con una minuscola bilancia come quelle utilizzate dai gioiellieri. Su un piatto depongo l’ombra e sull’altro la luce. Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili d’ombra. 
tratto da Resuscitare di Christian Bobin

Non c’è maggior infelicità al mondo che quella di non trovare nessuno con cui parlare e le nostre chiacchiere, lungi dal porre rimedio a questo silenzio, la maggior parte delle volte non fanno che appesantirlo.
tratto da Resuscitare di Christian Bobin

MADRI

Di tanto in tanto le madri smettono totalmente di amare i loro figli. Impazienti, esauste o deluse, escono un attimo dall’amore per farvi ritorno l’attimo dopo, così come si supera con passo allegro un abisso che non abbiamo visto. Noi siamo la causa di un totale disamore da parte di Dio: esasperato, egli ci ha lasciati alla nostra notte per un attimo che sembra durare secoli. Non ci resta altro che attendere l’attimo successivo in cui ci riprenderà.

tratto Resuscitare di Christian Bobin 

domenica 20 aprile 2014

PASQUA 2014 due poesie di Lorenzo Gobbi



Layla, vorrei dirlo questa sera
al mondo intero: c’è un perdono
alle radici dei ciliegi,
una parola-luna sulle grandi
acque. Testimoniano per me
le tue promesse - la sostanza
d’ogni cosa è questa Pasqua,
questo mare aperto, questi
fiori di bianchissima speranza.


Ho imparato, Layla, quanto
è giusto stendere la mano
al disperdersi dei passeri
per fame - senza foga di nutrire,
di salvare. impazzirei se non sognassi
un dio che è pane.

tratto da Nel chiaro del perdono di Lorenzo Gobbi, Book Editore 2002

sabato 19 aprile 2014

VOLTI

Ci sono anime in cui Dio vive senza che se ne accorgano. Nulla lascia indovinare questa presenza soprannaturale, tranne la grande naturalezza che essa infonde nei gesti e nelle parole di coloro in cui essa dimora

tratto da Resuscitare di Christian Bobin

foto di Edouard Boubat


DIO, I POVERI E L'OBLIO

Quel miliardario americano benediceva Dio prima di ogni pasto per i benefici di cui aveva colmato la sua famiglia. Egli credeva in un Dio che, interessato ai nostri successi, li favorisce. Non faceva che seguire la follia di un’epoca in cui non si adora altro che la forza. Ci sono sempre stati ricchi e poveri. Sempre ce ne saranno. La novità del nostro tempo è che i poveri sono considerati responsabili della loro sciagura e, in quanto tali, disprezzati. Per secoli si è pensato che Dio stesse, pallido e silenzioso, vicino a quelli che non avevano alcun bene. Questo pensiero dava alla povertà la vibrazione di un’icona. Esso la illuminava come una fiamma posta dietro ad un fiore. Oggi non lo si pensa più e non ci sono più parole per esprimere quest’infaticabile presenza dell’amore. Dio come i poveri è caduto nell’oblio.

tratto da Resuscitare di Christian Bobin


foto di Edouard Boubat
http://www.edouard-boubat.fr/



Teresa d'Avila

Un gatto ombroso si allungava su un lenzuolo di luce steso al sole sul pavimento a piastrelle di una cucina, e Teresa d’Avila mi intratteneva sull’invisibile con voce forte, come se mi parlasse da una stanza di fianco: queste scintille, intraviste un giorno, troppo numerose per scriverle tutte e troppo fugaci per bastarmi, mi hanno dato il piacere di cercare il fuoco che le generava e questo piacere non mi è mai passato, anzi si è accresciuto nello stesso momento in cui il freddo invadeva questo mondo e le sue false immagini.

tratto da Resuscitare di Christian Bobin