lunedì 13 maggio 2013

CHRISTIAN BOBIN, LA LETTURA E LA SCRITTURA - suoi brani tratti da Folli i miei passi, Sovranità del vuoto, Luce del mondo



I primi libri di Christian Bobin sono letteralmente “invasi” dal tema della lettura e della scrittura.  Gli stessi titoli Souveraineté du vide (Sovranità del vuoto, Fata Morgana 1985), Lettres d’or  (Fata Morgana 1987), Un livre inutile (Fata Morgana 1992) evocano la preziosità del vuoto e la mancanza di pretese che uno scrittore deve avere quando si accinge a scrivere.
Sviluppa e approfondisce questi temi, un libro intervista (La luce del mondo, Gribaudi 2006) in cui la poetessa e scrittrice Lydie Dattas conversa con Bobin sui tanti temi a lui cari, tra i quali non potevano mancare: il valore e la funzione della scrittura e della lettura. 

                               
                                                                                  (Luce del Mondo, Gribaudi p. 37)

In una recentissima intervista, alla domanda quale sia la funzione di un libro, Bobin risponde:
Un vero libro ascolta il lettore. La mia esperienza di lettore sa che in rari momenti da un libro esce qualcosa che viene a sederci accanto a noi e si mette ad ascoltarci. Le parole sono scritte e tessute in modo tale che noi ci sentiamo ascoltati. Quando la cosa vera ci viene detta, non abbiamo bisogno di un esperto per autenticarla. Il nostro cuore e la nostra esperienza la riconoscono, risuonano con lei.”
E ancora: “Un libro è un veggente o non è nulla. Il suo lavoro è di accendere la luce nei palazzi dei nostri cervelli deserti”. Non a caso le parole che ritornano nelle pagine dei suoi primi libri sono: leggere, scrivere, amare, pagina bianca, inchiostro, solitudine, mancanza, attesa, dono gratuità.

Traggo alcuni passaggi dal libro Souveraineté du vide, (pubblicato nel 1985 dalla piccola casa editrice Fata Morgana, quando Bobin aveva 34 anni; oggi ne ha 62).
Tra i libri e le lettere si trova sempre anche l'infanzia.

I libri. Sono sul mio tavolo. Li ho aperti, a caso. Li ho sfogliati. E’ giunta una quiete: non sapevo di averne bisogno. Una felicità di leggere, anteriore all’atto stesso di leggere. Una luce carpita da questo primo sguardo, distratto, rapido. Una luce che anticipa la luce racchiusa in queste pagine. Poi ho richiuso i libri. Più tardi. La lettura sarebbe giunta più tardi, molto più tardi. La notte era più adatta per leggere, la notte è più adatta, quest’uguaglianza finalmente stabilita tra l’oscurità dentro e l’oscurità fuori. Sono uscito. Sono andato a passeggiare, ho visto persone. Mi è venuta l’idea di scrivervi una lettera, questa lettera, l’idea di una lettera infinita, senza nesso. Interrotta, spesso, come è interrotta la lettura: come viene revocato lo stato del lettore, lo stato di assenza, dal rumore di una porta che si chiude, dall’irrompere improvviso dell’alba, dal disastro del sonno.
[…]
Il bambino, il lettore, preso nell’apprendistato insonne della vita in società, tenuto in questa stupidità generale dall’obbligo di parlare, sempre, di rispondere presente, sempre, perché ci sono domande, perché ci sono richiami, sempre, che non smettono di ferire il silenzio che dorme dentro di lui, il bel silenzio, il silenzio sonnambulo. Che gioia per lui distrarsi, aprire un libro, lasciare andare le sollecitazioni, le compagnie, i legami approssimativi. Purificarsi. Entrare nella lettura. Entrare nella rêverie. Purificarsi.

Leggere, non per sapere, non per imparare, non per accumulare, per ammassare, per acquisire. No, nulla di tutto ciò. Leggere piuttosto per dimenticare, per liberarsi, per perdere, per perdersi. Tornare solo, infinitamente solo. (Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985)

Sovranità del vuoto: un vuoto di sé che aiuta a riempire non solo la scrittura, ma soprattutto la vita stessa.

Anche Lucie, protagonista di Folli i miei passi, giungerà alla scrittura per poter approdare alla sua vera vita e poi si vedrà : è la regola che si è data.  Ma prima di approdare alla scrittura, la giovane  non può non passare dalla lettura: i due momenti sono profondamente interconnessi. 
Dopo le varie fughe e peripezie, Lucie torna finalmente a casa dai genitori. Lì si chiude in camera sua, dove inizia a divorare i libri e a nutrirsi di quella letteratura che la aiuta a chiarirsi, a trovare ciò che le serve per vivere. Qui Lucie è Bobin. E Bobin è Lucie.

Molti sono infatti i passaggi del libro di Folli i miei passi che possono essere letti come “autobiografici”.
Ne riporto solo due (poi ne aggiungerò altri, nei prossimi post)

Lucie si trova nell’albergo del Jura dove è andata per scrivere il suo libro. Vorrebbe uscire ma….

Sono peggio di mia madre. Frutta, pile, giornali e regali – tra due giorni ci sarà il compleanno dei gemelli: avevo dei motivi per uscire dall’albergo e il vestito si abbinava con quei motivi. Ho accennato dei passi sulla moquette rossa del corridoio e sono rientrata di corsa nella mia stanza, ho chiuso la porta a chiave, mi sono distesa sul letto da dove non mi sono mossa per due giornate intere. Lo chiamo: un morire, qualche volta mi assale. Vedere, parlare, nulla, niente esiste più. Non sono tanti due giorni. Avrei veramente potuto trascorrere l’intero mio soggiorno in albergo così. La scrittura ha di sicuro posto un limite a questo intorpidire, l’ha tenuto in una dimensione ragionevole. (Folli i miei passi, p. 85)
  
Lucie è rientrata a casa dai genitori  e si è chiusa in camera sua a leggere.

Divoro i libri che ho scelto per la loro dimensione – non meno di sette o ottocento pagine. Il tempo trascorso a leggere non è proprio del tempo. Passando da una pagina all’altra, supero frontiere, entro in case addormentate: è la fuggitiva che è in me a leggere e nessun poliziotto può ritrovarla prima che lei abbia raggiunto l’ultima frase e levato il capo su di un cielo azzurro all’inizio del primo capitolo e ora divenuto buio. Ho ventisette anni ma i lettori non hanno età. Davanti al libro aperto c’è solo un’infanzia lasciata ai suoi giochi sulla strada, anche dopo le dieci di sera.

Trascorro tre giorni e tre notti con Anna. Anna Karenina, 909 pagine. Lei e il giovane Vrònskij al loro primo incontro ballano sotto gli occhi di Kitty, innamorata di Vrònskij, e io li guardo tutti e tre: i due amanti nell’inconsapevolezza del loro desiderio e colei che viene distrutta da quella visione. Attraverso la finestra scostata del palazzo Nikítiny, mescolata ai suoni dell’orchestra, la voce di mia madre che mi chiede cosa voglio per cena, insalata di carote o indivia gratinata al forno. Potrei trascorrere così la mia vita: in quella camera dentro acque dove il sogno e il reale sono uniti. Mi piacciono così tanto le ombre nei libri. Nessuno può sciogliermi dal loro abbraccio.” (Folli i miei passi pp 87-88).









venerdì 3 maggio 2013

LA LEGGEREZZA PER CHRISTIAN BOBIN - FOLLI I MIEI PASSI




Non scrivo con l’inchiostro. Scrivo con la mia leggerezza. Non so se riesco a farmi capire: l’inchiostro, lo compro; ma non esiste un negozio per la leggerezza. Viene, oppure no: dipende. Quando non viene, è già presente. Mi capite? È ovunque, la leggerezza: nella freschezza insolente delle piogge estive, sulle ali di un libro abbandonato ai piedi del letto, nel suono delle campane del monastero all’ora delle funzioni, un clamore infantile e palpitante, in un nome mille e mille volte sussurrato come quando si mastica un filo d’erba, nella fata che è la luce alle svolte delle strade serpeggianti del Jura, nella povertà esitante delle sonate di Schubert, nel rito di chiudere lentamente le imposte sul far della sera, nel tocco sottile di blu, blu pallido, quasi viola, sulle palpebre di un neonato, nella dolcezza di aprire una lettera attesa, prolungando di un secondo l’istante di leggerla, nel rumore delle castagne che si schiantano al suolo e nella goffaggine di un cane che scivola su di uno stagno ghiacciato: mi fermo qui, la leggerezza, lo vedete, è donata ovunque. Se allo stesso tempo è rara, di una rarità incredibile, è perché ci manca l’arte di ricevere, semplicemente ricevere ciò che ci è donato ovunque. (Folli i miei passi, Christian Bobin).

FOLLI I MIEI PASSI - CHRISTIAN BOBIN



Folli i miei passi ci restituisce il Christian Bobin più narrativo: quello dei romanzi brevi come Geai (San Paolo edizioni 2000), L’amore è proprio una piccola cosa (Gribaudi 2007), Isabelle Bruges (Le temps qu’il fait 1992, non ancora edito in Italia), La donna che sarà (Archinto 1995, oggi introvabile) o dei brevi racconti come Mille candele danzanti (Camelozampa 2008). La maggior parte degli altri libri pubblicati in Italia seguono, invece, una prosa poetica più meditativa, meno romanzata, fatta di frammenti. Ma ciò che accomuna tutti i suoi scritti è il timbro della voce: misurato, fermo e fortemente evocativo. In ogni libro, la sua voce cerca il respiro nella brevità delle frasi, dei periodi o dei brevi capitoli, spesso inframmezzati da pause, visualizzate dagli spazi bianchi della pagina. Quasi la sua voce avesse bisogno di silenzio, di fermarsi, di far risuonare le parole che, se “non vere”, possono allontanare il silenzio necessario che aiuta il lettore a mettersi in contatto con la propria interiorità. La scrittura di Christian Bobin genera silenzio. Una pausa di ristoro. È lui stesso a sottolineare, in un libro dal titolo fortemente evocativo, Souveraineté du vide (Sovranità del vuoto,  non ancora pubblicato in Italia), il valore profondo del silenzio:“Tacere: progredire in solitudine, lungi dal disegnare una chiusura, apre la sola e durevole e reale via d’accesso agli altri: a questa alterità che è in noi e negli altri, come l’ombra portata da un astro, solare, benevolo”. (Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985-Gallimard 1995, pag. 53). Ma innumerevoli sono le frasi che, in Bobin, mettono in luce il valore del silenzio: “Ciò che impariamo dai libri, è la grammatica del silenzio, la lezione di luce”. Un silenzio che vuole suggerire una via per vivere, senza arroganza: “Ho sempre ritenuto che uno scrittore avesse più doveri che diritti, e uno di questi doveri è aiutarci a vivere”. Bobin riesce a farlo con estrema naturalezza e rispetto per chi legge.
La sua scrittura entra a poco a poco nel lettore, offrendogli delle schiarite, delle pause non di una riflessione noiosa ma di una gioia leggera, pulita, fresca. Scrive Bobin: “Perché una cosa sia vera, è necessario che, oltre a essere vera, entri nella nostra vita”. È ciò che fa Lucie, la protagonista di Folli i miei passi , entrando, pagina dopo pagina, non solo nella sua vita per rischiararla, ma anche in quella di noi lettori. Con leggerezza, Lucie riesce a portare dentro di sé, un po’ di luce. Ma ciò che è straordinario, è che porta un po’ di quella luce anche in noi che leggiamo le sue peripezie e le sue fughe. Folli i miei passi  è un libro dall’andatura vivace, picaresca. Lucie è una bambina speciale (ma esistono bambine, bambini che non siano “speciali”?) alla ricerca dell’amore, della vita, o meglio della vita “vera”, della “sua”vita. Sin da piccola sembra avere chiaro (prima per intuito, poi per esperienza) il desiderio di vivere ciò che ha nel cuore, giusto o sbagliato che sia.

Il libro è scritto alla prima persona: una giovane donna, Lucie, si racconta per ritrovare se stessa. Non scrive per diventare una scrittrice ma per ritrovare la propria infanzia e quindi se stessa. Il suo motto è “Dopo, si vedrà”. Dal suo primo amore dei suoi due anni, un lupo dai denti gialli, al suo primo vero amore, Alban, un violoncellista dell’Opera di Parigi. Tra questi due grandi amori, un marito, Roman, figlio di una famiglia cosiddetta bene, alto borghese, molto distante da lei cresciuta invece in un circo.
Racconta delle sue fughe iniziate a soli due anni per andare a cercare il suo lupo, della vita nel circo, dei suoi fratellini gemelli, di suo padre, malato di perfezionismo e di sua madre, malata di un amore folle per i suoi figli.
Dopo una serie di fughe, la giovane approda al cinema per caso, come comparsa. Un giorno deve partire per delle riprese in Canada, ma stanca e disorientata, decide di fare dietro front – è il suo angelo custode a tirarla per la giacchetta - e di andare a trascorrere un periodo in solitudine nel Jura, per raccontare al suo angelo (è lui a chiederglielo!) tutto ciò che le è capitato fino in quel momento.

Ma la vicenda la si potrebbe anche riassumere in altro modo (e mille altri ancora). Storia di una bimba a cui piace inventarsi dei nomi per le sue fughe. La piccola nasce e vive in un circo fino a quando i suoi genitori non vengono licenziati. Un giorno se ne va a Parigi dove incontra un ragazzo della Parigi bene che sposa contro il parere della famiglia di lui, la quale nutre, per il figlioletto, ben altre ambizioni. Il giovane marito lascia la promettente carriera di notaio contro la volontà dei genitori e decide di diventare scrittore. È talmente preso da questa parte, quella dello scrittore appunto, che tutto il resto è funzionale al suo scrivere. La stessa moglie è fonte di ispirazione per interminabili lettere. Nel frattempo, la ragazza si mette al suo servizio: fa lavoretti per aiutarlo a scrivere. Ma un giorno, stanca, lo lascia. Se ne torna a casa dai genitori. Si mette a leggere e a scrivere. Per caso, inizia a fare la comparsa per un film. Segue le diverse troupes fino a quando non decide di lasciare la brillante carriera cinematografica di comparsa per andare a scrivere il suo libro. E poi, “si vedrà”.
Grazie alla scrittura si riapproprierà della sua vita. Lucie infatti si mette a scrivere non per diventare scrittore, ma per “trovare quell’amore che manca ad ogni amore”.

La giovane si racconta in prima persona per trovarsi. Dice di chiamarsi Lucie, ma forse è solo un pretesto per svelarci la sua madrina luce, colei che avrebbe continuato a seguire nelle sue fughe. Fughe da se stessa ma anche da ciò che le impedisce di essere se stessa. “Non si scrive per diventare scrittori ma per amore che manca ad ogni amore”(C.B.). Questo il motivo della scrittura per la protagonista del romanzo ma anche per lo stesso Bobin. Lo scrittore è un mestiere di infanzia. Per lui lo scrivere non è un mestiere, ma se lo si vuole considerare tale, allora c’est un métier d’enfant.
L’infanzia è fondamentale perché è il regno dell’attenzione – come l’intendeva Cristina Campo. “Se ci fosse per me una saggezza, sarebbe l’arte di esserci pienamente, con un’attenzione estrema, costante. E’ per questo che i bambini mi affascinano, per questo dono che hanno di esserci pienamente nel puro presente. Ho una profonda complicità con loro» (C.B.).

La folle allure viene pubblicato nel 1995 da Gallimard, il libro appartiene alla prima produzione di Bobin. Pochi anni dopo moriva la sua giovane amica di C. Bobin, Ghislaine (il lutto è raccontato in Autoritratto e in Più viva che mai).

Da quando ho iniziato a leggere Christian Bobin (1998), molto tempo è trascorso, molti suoi libri sono stati pubblicati. Molte cose sono cambiate nelle vite di ciascuno. So che ha cambiato casa grazie a una pregevole intervista che si può trovare in internet su un suo libro molto bello La présence pure, che racconta la malattia del padre. So che oggi vive con una compagna Lydie Dattas, scrittirice che vorrei presto iniziare a leggere.