venerdì 28 marzo 2008

CHRISTIAN BOBIN: L'AMORE E LA SOLITUDINE di Gustavo Micheletti







A tutti gli amatori di Christian Bobin, un articolo di Gustavo Micheletti

L’amore e la solitudine(La loro relazione, in breve, nelle prose creaturali di Christian Bobin)
di Gustavo Micheletti

Le bolle di sapone che questo bambino
Si diverte a soffiar via da una cannuccia
Sono translucidamente tutta una filosofia
”.
Alberto Caeiro
Christian Bobin è uno scrittore e un poeta francese, nato nel 1951 in una città della Borgogna, Le Creusot, dove ha poi sempre vissuto. Una giorno ha scritto, nella pagina d’apertura di un suo romanzo (La folle Allure), la seguente dedica a un amico: “Pour (…) quelques taches d’encre (…) en souriant”, e si tratta, direi, di una dedica illuminante, perché il “sorriso” costituisce forse la tonalità predominante della sua prosa.
Nel vasto panorama della letteratura d’ispirazione cristiana, e in particolare di quella del Novecento, Christian Bobin rappresenta una voce singolare, sia per il tono sommesso della sua scrittura sia per la peculiare spiritualità che la traspare. Il cristianesimo non è per lo più, nell’opera di Bobin, una teoria religiosa dotata di un vero e proprio impianto metafisico e teologico; non è nemmeno una dottrina mistica, sebbene l’elemento mistico ne costituisca, in una forma priva di qualsiasi enfasi, un aspetto rilevante. L’ispirazione cristiana attraversa piuttosto i suoi scritti come un “sentimento della vita” che incessantemente si depura trasfigurandosi in un lieve e fervido disegno stilistico, in una sorta di vigile prosa creaturale.

I suoi romanzi sono esenti da trame complesse e importanti, l’intreccio narrativo è ridotto ai minimi termini; mentre nei suoi libri più filosofici, dove frammenti di pensieri diversi sono tenuti insieme da uno stato d’animo predominante e unitario, protagonisti assoluti sono brevi momenti estrapolati dall’incedere quotidiano della sua vita, sono impressioni leggere, riflessioni animate dalle luci e le ombre che affiorano tra i rami o su un prato al limitare di un bosco. In ogni pagina emerge però sempre la solitudine che accompagna il pensiero nella sua accezione più piena, ovvero quando esso non coincide con un esercizio intellettualistico e privo di vita. Si tratta della solitudine che costituisce la condizione preliminare di qualsiasi incontro d’amore.

Perché è così difficile amare? O più precisamente: cosa rende “tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra sorte”? (cfr. DM,15). La difficoltà che ciascuno incontra nel non oltrepassare la soglia della solitudine di chi pensa di amare: “quelli che sanno amarci – scrive Bobin - ci accompagnano fin sulla soglia della nostra solitudine, e qui si fermano, senza fare un passo in più. Quelli che pretendono di proseguire oltre in nostra compagnia restano di fatto molto più indietro” (ibidem).
Né della solitudine né dell’amore si può parlare come di due condizioni a se stanti, perché private della loro congiunzione svaniscono entrambe in una ridda di voci e pretesti. Ciò che sempre rimane oltre le scorie dei loro fraintendimenti occasionali è anche ciò che le salda nella stessa solidale e silenziosa resistenza all’oblio, nell’indugiare dell’attenzione e del cuore su tutto quanto è cedevole, su tutto ciò che è sul punto di svanire o di perdersi.

“Dal punto di vista dello spirito, – scrive Bobin – non c’è differenza alcuna tra sovrabbondanza e penuria: più ci addentriamo nella solitudine e più abbiamo bisogno di solitudine. Più siamo nell’amore e più manchiamo d’amore. Della solitudine non ne avremo mai abbastanza e lo stesso vale per l’amore – versante ripido della solitudine” (DM, 11). Ma per accedere alla solitudine del puro amore bisogna abbattere l’ostacolo che sorge tra noi e la nostra vita, bisogna neutralizzare “quell’ispessimento di noi in noi stessi che consideriamo una prova di maturità, certezza d’esistere” (ivi, 37), e imparare a procedere “nella nostra vita come se non ci fossimo più, con la leggerezza del gatto tra le erbe alte, o ancora con quell’amaro sorriso dell’innamorata dinanzi al suo cuore violato e derubato” (ivi, 37-39). E’ infatti grazie a tale leggerezza che possiamo sperare di veder nascere all’unisono un amore puro in una pura solitudine, perché questa nascita è sempre anche la condizione di ogni rinascita, ne è l’unica condizione essenziale e irrinunciabile.

“Cosa sperare da un amore puro se non che renda pura la nostra solitudine?” (ivi, 37) – si chiede Bobin. Una volta che abbiamo rinunciato a identificarci con l’ispessimento assordante del nostro io, null’altro. I santi costituiscono la testimonianza più piena di questa possibilità, perché “conoscono una porta tra il mondo e l’amore. Se la varcano in silenzio è perché questa porta e il loro silenzio formano una cosa sola” (ivi, 53). Ma questa porta è accessibile a tutti nella misura in cui ci ricordiamo della natura precaria, fragile e illusoria dell’io, perché “ciò che chiamiamo ‘io’ e a cui teniamo tanto è della stessa natura d’un fiocco di neve che si scontra con migliaia di altri fiocchi simili in una lotta temeraria e terribilmente breve” (ibidem).
E’ questa consapevolezza che può sospingerci a riconoscere la leggerezza silenziosa che è implicita nel significato del verbo “amare”. Questo verbo tanto comune, usato così spesso e sovente impropriamente, appartiene in realtà alla stessa famiglia del verbo “nevicare”. Se infatti ci chiedessimo: “chi è che nevica?”, la risposta sarebbe: “la neve”; e se ci domandassimo: “chi ama?”, analogamente, la risposta dovrebbe essere: “l’amore” (cfr. AU, 106-107). Bobin è, sotto questo profilo, in perfetta sintonia con molti santi cristiani (in particolare con S. Francesco) e non solo cristiani, che hanno visto nell’uomo solo un tramite dell’amore, un suo veicolo occasionale.

Dire “ti amo” vuol dire: “c’è l’amore, là, ora. C’è solo dell’amore e io non ci sono. Io sono soltanto colui che esprime quello che c’è là, dove, momentaneamente, io non ci sono più” (ibidem). E’ l’amore, così radicalmente inteso, che ci rivela sia la solitudine delle cose, il loro bastare a se stesse e il saper riempire “tutto il loro posto”, sia la solitudine che si manifesta in certi nostri gesti assorti, come ad esempio “l’allacciare le stringhe a un bimbo”, “leggere un libro tutto d’un fiato, con la notte intorno”; “cambiare l’acqua ai fiori” (ivi, 109). Gesti silenziosi e quasi inconsapevolmente portati, che si rispecchiano nello stupore per quel che si vede e con cui a poco a poco si può imparare a coincidere, come “l’impronta di un passero sulla neve fresca” (ibidem).

L’amore – scrive ancora Bobin - è questa benevolenza elementare a partire dalla quale una solitudine può parlare a un’altra solitudine e, all’occorrenza, accompagnarla nel buio” (ivi, 119-120), e “la solitudine in noi è come una lama, conficcata profondamente nella carne. Non possiamo estrarla senza ucciderci all’istante. L’amore non revoca la solitudine. La porta a compimento. Le apre tutto lo spazio per bruciare” (EN, 41), perché “l’amore non oscura ciò che ama. Non l’oscura perché non cerca di prenderlo. Lo tocca senza prenderlo. Lo lascia andare e venire” (ibidem).
L’amore è il miracolo di essere un giorno intesi sin nei nostri silenzi e di intendere in cambio con la stessa delicatezza” (RE, 18), l’unica possibile modulazione della relazione che intercorre tra la nascita e la morte, perché “davanti alla morte saremo come alla nascita, radicalmente privi di ogni potere. E’ a tale debolezza in noi che dovrebbe rivolgersi l’amore per non perdersi mai” (ivi, 16), per far fronte alla paura semplice e assoluta che attraversa la vita di ciascuno, alla sua origine esclusiva: la paura di non essere più amati (cfr. FA, 38), tanto che “la certezza d’essere stato amato, un giorno, una volta”, coincide per Bobin con “l’involarsi definitivo del cuore entro la luce” (DM, 19-21).
Questo involarsi del cuore costituisce l’unica resistenza che possiamo opporre alla pesantezza dell’essere che incessantemente ci lusinga con i suoi effetti rassicuranti. Noi siamo rassicurati da ciò che è pesante, certo di sé, adulto, sicuro; siamo rassicurati dalle chiese e dalle religioni: “noi crediamo al sesso, a l’economia, alla cultura e alla morte” (TB, 110). La loro pesantezza ci tiene lontani da quella leggerezza che ci consentirebbe invece di passare “da spirito a spirito” (ibidem) e che potrebbe protenderci verso l’incontro con l’altro.
E’ la leggerezza che ci fa orrore” (ibidem) – scrive Bobin – mentre è proprio nella leggerezza che la solitudine e l’amore si chiamano vicendevolmente per dare corso alla loro opera. E’ nella leggerezza della mancanza, nella sua freschezza sempre incipiente che la vita dell’anima può riempirsi di senso, perché “l’amore è mancanza piuttosto che pienezza. L’amore è pienezza della mancanza” (ivi, 119).
Ma la leggerezza ci fa orrore, e così la mancanza: per questo noi siamo alla perenne ricerca delle ossa dell’essere, di riferimenti strutturanti, di fondamenti; mentre la gioia più grande, l’unica gioia senza perché, priva cioè di una ragione sufficiente riconoscibile, assomiglia piuttosto ad una carezza del vento sulla pelle, al piacere di diventare, almeno per qualche istante, ciò a cui si passa accanto: “un albero che risplende nel verde. Un viso inondato di luce” (EN, 37). Perché “questo basta per ogni giorno. Anzi, è molto. Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede” (ibidem
).

Indice delle sigle bibliografiche
AU = C. Bobin: Autoritratto, trad. it. Milano, 1999.
DM = C. Bobin: Il distacco dal mondo, trad. it. Troina (Enna), 2005.
EN = C. Bobin: Elogio del nulla, trad. it. Troina (Enna), 2002.
FA = C. Bobin: La folle Allure, Paris, 1995.
RE = C. Bobin: Resuscitare, trad. it. Milano, 2003.
TB = C. Bobin: Le tres-bas, Paris, 1992.

Gustavo Micheletti è nato a Lucca nel 1956 e insegna filosofia e storia al liceo "Il Pontormo" di Empoli. E' autore di alcune prose narrative - tra le quali Peppermint (Avagliano , 1997) e Uomini a perdere (Edizioni dell'Erba , 2005) - e di alcuni saggi filosofici - tra cui I pensieri sordi e l'inconscio (Borla, 1991) e Il Gergo dell'essere (Edizioni dell'Accademia lucchese, 2002)- . Ha inoltre collaborato alla Nuova Sardegna, a Cinema Sessanta, a Erba d'Arno e ad alcune riviste filosofiche.

lunedì 24 marzo 2008

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap.XXII IL PROFETA ELIA

disegno di Marc Chagall
Gli episodi legati alla Pasqua, che ho tratto e tradotto da Lumières allumées di Bella Chagall (éd. Trois Collnes, 1948), andrebbero letti in quest'ordine:
cap. XX - LA VIGILIA DI PASQUA
cap. XXI - IL BANCHETTO DI PASQUA
cap. XXII - IL PROFETA ELIA

(Ecco come Bella ricorda il seder di Pasqua:)

Sfiniti dal mangiare e dal recitare la storia dell’Esodo, mastichiamo i pezzi del duro affikòimen[1]. Solo papà è seduto come si conviene a un Re. Appoggiato ai suoi cuscini, gli occhi chiusi, mangia lentamente, come se si stesse chiedendo: “Dove ci porta adesso il Signore?”. D’un tratto, apre gli occhi e rivolge uno sguardo a mamma. Lei cambia posto, sfoglia la Haggadàh – il racconto dell’Esodo –, prende una candela consumata a metà da un candelabro e si rivolge a me:
“Vieni, Bachinka. Prendi con te la Haggadàh!”.
Sussulto come toccata dal fuoco. La paura e l’emozione mi prendono il cuore perché, da sola con mamma, vado incontro al Profeta Elia per aprirgli la porta. Con la Haggaddah aperta in una mano e la candela nell’altra, tranquille, usciamo dalla sala da pranzo. Gli uomini restano seduti a tavola. Non si muove nulla. Tutti ci guardano e ci accompagnano con lo sguardo: sembrano benedirci come fossimo due messaggeri. Attraversiamo il salone buio, l’importante è non arrivare tardi! Ci mancherebbe solo che Elia, il Profeta, arrivasse in casa nostra e trovasse la porta chiusa! La piccola fiamma, resa esigua dal nostro respiro, ci illumina appena la strada e la candela, come se avesse essa stessa paura dell’oscurità circostante, lacrima gocce. Entriamo nel piccolo vestibolo. Il cuore batte ancora più forte: si allontana dal profondo per salire fino al cielo e poi ricadere, per lo spavento, sul pavimento scuro. “Attenzione! Tieni la candela!” mi dice di corsa la mamma e spinge di nuovo la porta che dà sulla strada. La notte buia si riversa dentro, accorre come il vento, soffia sul viso, sulle gonne e quasi spegne la candela, ci fa vacillare.
“Ecco! – penso – Il Profeta Elia deve essere vicinissimo, probabilmente sta per arrivare. Il suo carro volante fa vibrare l’aria con le sue ali. I suoi cavalli infuocati corrono dietro a una nuvola.”
Ho paura di guardare dall’altra parte della porta, di impigliarmi contro qualcosa. Le ombre avanzano sotto i nostri piedi. Scorgo solo un lembo di cielo. Brilla come un velluto nero che ha reso buia la via. Sulla volta buia, una piccola stella nuota come un pesce nell’acqua, e stupisce di luce le tenebre. All’improvviso, guarda dentro la porta e sosta proprio sopra di noi. Mamma tiene gli occhi bassi. Non vede nulla. E se la piccola stella volasse fino dentro alla porta? E se, d’un balzo, Elia o il Messia in persona si mettessero dietro di noi? Tremo. Ascolto. Ovunque silenzio. Cade dal cielo, sulla strada, sopra le case. Non si sente nessun passo. Nei lampioni, una fiammella si fa sempre più sottile. Nella casa di fronte, attraverso le finestre, erra il riflesso di una candela accesa. In ogni casa, adesso, una porta è aperta? E davanti a ogni porta, si trova una madre con la sua figlioletta e una candela in mano? D’un tratto, una confusione alle nostre spalle. Le sedie si muovono. Forse, tutta l’intera tavola si è mossa: gli uomini avranno sentito aprire la porta. Si sono alzati tutti e leggono la Haggadàh a voce così alta che sembrano voler svegliare addirittura la notte. Ce ne stiamo là, seppellite sotto le loro voci. Mi metto vicino a mamma. Vorrei stare incollata alla sua gonna. Se la notte buia ci travolge, io almeno sono con lei! La piccola candela vibra, oscilla e si china da tutte le parti. La prendo con le mani, la proteggo dal vento perché non si spenga, altrimenti restiamo al buio – che Dio ci protegga – di fronte al nero della porta spalancata!
Senza far rumore, mamma recita la Haggadàh : forse è convinta che la notte muta ascolterà meglio le sue preghiere silenziose. Le labbra si muovono appena. Le rughe le solcano il viso. Gli occhiali le scivolano giù dal naso. La candela fonde… Che ci abbiano dimenticate, qui in piedi? Metto la sedia sotto il Libro, sotto le mani di mamma: che le sue ardenti benedizioni scendano su di me e non avrò più paura.
“Profeta Elia! Abbi pietà! Vieni veloce da Lassù! Fa freddo e buio. Entra in casa. Tutti ti aspettano. Ci sarà più caldo, anche per te. Non senti come papà prega? Lui che non grida mai, oggi prega con una voce così forte. Vieni dunque, Profeta Elia! Vieni!”.
Un filo di luce passa attraverso alla porta, fende l’aria. Voglio alzare il capo, vedere ciò che fa mamma, ciò che accade al cielo. I miei occhi sono così colmi di oscurità che non riesco ad aprirli. Quasi non riesco a sopportare la luce e mi si contraggono gli occhi.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!”. Dalla sala da pranzo, scappa fuori un mezzo grido. Le sedie di nuovo si sono avvicinate alla tavola e c’è silenzio.
“Mamma, il Profeta Elia è già entrato in casa?”.
“L’anno prossimo a Gerusalemme!” esclama lei a mo’ di risposta, sulla porta aperta.
Guardo fuori, nella strada. Il vento si è calmato. Il cielo è cosparso di stelle, grandi, piccole, accorse fino a qui da tutti gli angoli del mondo. Occhieggiano come piccole candele accese con il capo chino. Si incrociano, una trafigge l’altra: tutte oscillano nella volta, come in un baldacchino, sotto cui si sistemerà presto la luna bianca, come una sposa in tutto il suo splendore.
Appena chiusa la Haggadàh, mamma fa un gesto con le mani, come se volesse accarezzare l’aria o far scendere qualcosa dal cielo. Forse, forse… non vuole andar via dalla porta aperta. Dà un’ultima carezza, un bacio e chiude la porta. In silenzio, rientriamo. La frescura della notte ci soffia sulla schiena, come se ci prendesse per le spalle con le sue mani fatte d’aria. Nella sala da pranzo, c’è luce e fa caldo. Tutti sono seduti, gli occhi bassi, mormorano la Haggadàh. Giro il capo qua e là. E’ venuto il Profeta Elia? Il mio cuore colmo d’emozione si fa muto
.
Traduzione di Maddalena Cavalleri
NOTE AL TESTO
[1] Durante il seder vengono utilizzate 3 matzot che vengono tenute coperte da un panno. all'inizio della cena viene spezzata in due pezzi quella di mezzo. Il pezzo più piccolo viene rimesso tra le due rimanenti, mentre il pezzo più grande viene utilizzato come Afikomen, ovvero l'ultimo pezzo di matzah che verrà consumata durante il pasto. Vi sono due usanze riguardo l'afikomen, entrambe con lo scopo di tenere i bambini attenti allo svolgersi della cerimonia. In entrambi i casi l'afikomen viene nascosta: nel primo caso da uno dei bambini per poi essere cercata dagli adulti e, nel caso questi non la trovassero pagando il bimbo per la sua restituzione. L'altra usanza prevede, invece, che a nascondere l'afikomen siano gli adulti e venga premiato il bambino che la ritrova. (fonte: it.wikipedia.org)

sabato 22 marzo 2008

LUCI ACCESE di BELLA CHAGALL: cap.XX LA VIGILIA DI PASQUA

LA VIGILIA DI PASQUA (cap. XX)
brano tratto da Lumières allumées di Bella Chagall, ed. Trois collines, 1948, tradotto da Maddalena Cavalleri con la collaborazione di Lorenzo Gobbi (in questo blog si può trovare il brano che racconta Il banchetto di Pasqua)
La prima a essere catturata dal vortice della Pasqua è Hava[1], la nostra grassa cuoca. Subito dopo il giorno di Purìm[2], inebetita, gira a vuoto. I giorni della settimana se ne vanno sotto terra. Un solo pensiero nella testa: una Pasqua santa. Sin dal mattino presto, tutta sottosopra, si precipita da noi nella sala da pranzo.
“Adesso basta, bambini! Finite veloci di fare colazione e fuori di qui! Sono arrivati i pittori”.
“I pittori, di già? Ma sapete quand’è, Pasqua? Il Messia può forse arrivare prima di Pasqua?”, brontolano i miei fratelli.
“Ebbene sì! Per il Messia, dobbiamo ridipingere la casa! - dice con una smorfia - Invece di predicare, aiutatemi piuttosto a spostare indietro gli armadi”.
“Gli armadi? Niente popò di meno! Una cosa da nulla! Chi sa cosa s’inventa, la nostra Hava! Chi può spostarli da lì?”.
Tutti insieme, facciamo forza contro l’armadio dei vestiti. Vacilla. Dentro, alla rinfusa, i vestiti neri si aggrovigliano con il cappotto di pelliccia di papà e con la volpe di mamma. Il pelo lungo pizzica e fa il solletico agli altri vestiti. Spingiamo l’armadio; ad ogni spinta, scricchiola, geme; le gambe corte grattano e si lasciano dietro una scia bianca.
“Ahi! Basta, fermatevi! - grida uno dei miei fratelli -Vedete Hava, cosa avete fatto! Una gamba si è già incurvata. Adesso, come lo rimettiamo al suo posto?”
“Ah! Signore dell’Universo! Cosa volete da me? Insomma, dobbiamo incollare la carta ai muri!”.
“Hava, ma volete andarlo a chiedere al rabbino se dobbiamo spostare tutta la casa?” – i miei fratelli tornano alla carica.
“Furba, lo sono da molto più tempo di te! Non prendetevela! Ho più cervello io nel mio tallone di quanto non ne abbiate voi tutti, in tutte le vostre teste messe insieme! - Hava s’infervora - Ecco una bella trovata: andare dal rabbino! Dovrei veramente andarci, a chiedergli com’è che ci sono dei simili epicurei
[3] in una casa di ebrei!”.
“Ci siamo! Hava è già arrabbiata!... Andiamo…” I miei fratelli si tirano per le maniche. “Piuttosto, andiamo a vedere in città come cuociono il pane azzimo!”
Subito Hava si gira verso la porta aperta e chiama: “Reb Yidle, Reb Nahman, entrate! cominciate dallo stanzino, dietro la sala da pranzo”.
Sbucano come da una nebbia due ombre bianche, quasi fossero lì ad aspettare il richiamo di Hava. Due pittori, tutti bianchi dalla testa ai piedi. Scarpe, capelli, guance, sopracciglia, tutti inzaccherati di puntini simili a briciole di neve. Uno ha una scala appesa alla spalla; in mano, un secchio di colore. L’altro sostiene a fatica con due mani, come Rotoli sacri, dei rotoli lunghi di carta da parati. I pittori, appena entrati, si precipitano nelle stanze. Spostiamo indietro i tavoli e le sedie: ci apriamo un varco. Sembriamo una compagnia di soldati che marcia con loro. In pochissimo tempo, occupano tutta la casa. Uno si arrampica sulla scala e gratta le cornici; l’altro sul tavolo e pulisce il soffitto con una grossa spazzola: gli cadono addosso schegge di intonaco.
“Ragazzina, vuoi assaggiare un po’ di calce?” Il pittore più giovane mi sorride, dall’alto della scala. La sua barbetta sporca di calce sembra incollata alle labbra bianche. Con loro, c’è allegria! Prima l’uno, poi l’altro, scoppiano a ridere. Cantano, fischiano, mescolano il colore, bagnano le spazzole. La tinta schizza e crepita. Rapidamente, avanti e indietro, uno dà un colpo di spazzola al soffitto; l’altro gli corre incontro: insieme passano i pennelli sul soffitto, come farebbero due uccellini con il loro becco. I pittori se la prendono con i muri. Sembra che vogliano strapparli dalla casa. La vecchia carta da parati cade a terra con fragore e trascina con sé pezzi secchi di intonaco. I muri spellati restano nudi, grattati, sporchi. Ai nostri piedi, colore ovunque. Carte strappate giacciono a terra con i loro fiorellini dipinti. I pittori saltano sopra, tagliano, incollano nuove colonne di carta da parati con nuovi fiorellini. La carta si imbarca, si gonfia, non vuole incollarsi ai muri. I pittori la sferzano con uno strofinaccio bagnato e la carta gonfia si distende su tutto il muro. La cameretta appena dipinta, tappezzata, risplende, tutta linda, come pronta per dei fidanzati. Ma per Hava nulla è ancora abbastanza santificato. Tappezza le pareti con lenzuoli bianchi come se le ricoprisse con scialli di preghiera
[4]. Anche sul pavimento di legno distende un lenzuolo: adesso, per lei, ci si potrebbe portare anche l’Arca Santa.
La prima cosa che portiamo, sono delle ceste di pane azzimo. Due ceste larghe, alte, avvolte con dei panni: ciascun pane azzimo sembra avvolto in un panno. Havah, tutta agitata, corre avanti, indica la strada.
“Attenzione! Qui!... Fermi! Qui, ci sono due gradini. Abbassate piano le ceste. Attenzione, mio Dio! che il pane azzimo non si rompa!”.
Corre attorno alle ceste, tocca, bisbiglia qualcosa, come una benedizione.
“Bene! Con il pane azzimo, un po’ di Pasqua è già entrata in casa”.
Un terzo uomo con la barba lunga, bella, porta per papà una cesta di pane azzimo della vigilia di Pasqua. La stringe tra le braccia, come se portasse le Tavole della Legge. L’uomo non dice una parola. Guarda da tutte le parti, poi nota sul soffitto un gancio da lampada: la appende lassù, in alto, in modo che nessuno ci possa respirare sopra con l’alito di lievito
[5]… La cesta è così ben avvolta di bianco che i vimini non si vedono.
Da questo momento, niente può più entrare nello stanzino. Soltanto Hava può cincischiare laggiù, nelle sue pantofole a treccia. Diventa la signora della cameretta e tutta la famiglia si sottomette senza una parola. Quando Hava passa per la casa, con un grembiule bianco legato addosso, un fazzoletto bianco sul capo, lo sappiamo: va nella piccola stanza. Il viso è teso come se laggiù si preparasse a rovesciare il mondo. Noi ci intrufoliamo da dietro, ma lei si chiude dentro. Ci sbatte la porta sul naso. Ci sediamo su uno degli scalini che portano alla cameretta e ascoltiamo il martellare del pestello di legno.
“Hava! - la supplichiamo attraverso il buco della serratura - Lasciateci entrare! Vi aiuteremo a macinare il pane azzimo”.
Il pestello batte, batte, come se volesse batterci sulla testa.
“Hava! Lo giuriamo! Abbiamo le mani pulite. Le abbiamo appena lavate!”
Il pestello batte ancora più forte. Forse non ci sente? Diamo un colpo alla porta, a ogni colpo di pestello.
“Hava! Cosa vi fa se anche noi, una volta, battiamo con il pestello?”.
Di colpo, la porta si spalanca. Ci spingiamo indietro, ci rovesciamo quasi sui gradini. Sulla soglia, la cuoca si fa sempre più grande, furente, come una nuvola giunta di corsa. Irriconoscibile. Sembra uscire da un mulino, ricoperta di farina.
“Cosa avete da starmi appiccicati addosso? Lasciatemi tranquilla, furfanti! Cosa volete? Contaminarmi in questo modo la Pasqua
[6]! Sciocchi che siete!” sbuffa con il suo fiato bianco. “Ah sì! Che vi lascio venire! E poi cosa ancora? Battere il pane azzimo con mani impure! Non ce la fate ad aspettare fino alla festa? Fuori di qui! …” Con le narici, ci spruzza addosso una nuvola di farina. “Che non vi passi per la testa di avvicinarvi alle ceste!”.
Ha sfogato la sua collera e si è precipitata di nuovo dentro lo stanzino. Il chiavistello si chiude e fa rumore. Di nuovo, ci incolliamo alla porta, appoggiamo gli orecchi al buco della serratura. Dall’interno, adesso, si sente come lo sciabordio di un’acqua tranquilla che si trascina dietro una montagna di sabbia.
“Hava, dateci anche un po’ di farina azzima da setacciare, Hava!”. Mette fuori il capo e, come raggiunta dal fuoco, si scosta da dov’è.
“Allora la smettete sì o no? – grida – La mollate, questa porta?”.
Un gran setaccio pieno di pezzettini di pane azzimo non macinati dondola sul suo ventre. La farina si sparge giù come pioggia sottile: sembra caderle dalla pancia. Uno dei miei fratelli le capovolge il setaccio.
“Ahi! Mascalzone! - dice Hava esasperata - Che le tue mani si secchino! Mongolo!”.
Con la mano già alzata, si ferma e si ricorda che ha in grembo un setaccio di Pasqua.
“Ahi! Maledetti i miei anni! - comincia a gemere - Signore Onnipotente! Già così non so dove sbattere la testa a forza di lavorare! Cos’avete da girare qui? Chi vi ha chiamati?”.
“Ma vogliamo essere d’aiuto…!”.
“Ma cosa mi importa cosa volete! Per quel che ho bisogno di voi! E come mai siete diventati improvvisamente così appiccicati? Una vera famiglia! Vediamo, chi dei due avrà la meglio? Che qualcuno provi ad avvicinarsi alla stanza e io gli….”.
Strana donna! Non fa che imprecare. Quando Hava si lascia andare, è meglio non fermarla. Possiamo prenderci due belle sberle… Può andarlo a dire anche al rabbino… Sa che il rabbino, papà, mamma, tutti le daranno ragione, purché la Pasqua avvenga secondo il rito! Lasciamo Hava tranquilla.
Si calma e si trascina di nuovo verso la cucina. Ad ogni passo, si lascia dietro una traccia bianca di farina, simile a quella di un animale sulla neve… Presto la sentiamo incamminarsi verso la via del ritorno. Tutta curva, trasporta un barile di barbabietole. Il barile oscilla, il succo di barbabietola freme: delle gocce rosse schizzano fuori dove passa. Hava è sfinita. Le gambe grosse sono gonfie. Come possiamo aiutarla? Per lei, tutti sono impuri. Nessuno può avvicinarsi a nulla.
“Hava, dateci da assaggiare almeno un po’ di succo. Sarà più facile da sopportare”. Le corriamo dietro. Agita il capo. Il viso muta dal rosso al nero. Gli occhi si direbbero tasche gonfie di cenere umida. Basta un pizzicotto, e le sgorgano subito le lacrime.
“Ahi!” Hava non si trattiene più. Senza volere, emette un sospiro. “Ahi! Le mie gambe mi uccidono!”. Ancora prima di raggiungere lo stanzino, Hava, di colpo, molla il barile. Resta in piedi, quasi senza conoscenza; fa cenno con la mano di non avvicinarsi al barile…
“Va’ a chiedere scusa!”
“No, tu! Va’ prima tu, parlerai meglio!”. Ciascun fratello spinge l’altro.
Hava si torce le mani.
“Chi può sapere che mani avete! Probabilmente sono piene di lievito!”.
“Cosa? Come? È tanto che non mettiamo qualcosa in bocca!”.
E d’un tratto, solleva il barile. Havah trattiene le lacrime. Se potesse, ci purificherebbe tutti seduta stante.
“Mio Dio, questi bambini! Sempre assaggiare, sempre a leccare!”

Lo stanzino di Pasqua si riempie di dolci gioiosi. Ci tenta, ci attira. Perché Hava deve assaggiare da sola tutte quelle cose buone? Non possiamo permetterglielo. Ma lei, come una gatta, tira l’orecchio. Non ci andiamo? Ha paura di lasciare lo stanzino incustodito. Ci dorme forse anche la notte? Noi bambini ci riuniamo tutti intorno e bisbigliamo. Hava spunta continuamente vicino a noi.
“Cosa ci fate qui? Cosa volete fare?”.
“Nulla! Siamo qui in piedi!”.
“Perché state in piedi qui fermi? Andrete di sicuro da qualche parte!”.
“Da nessuna parte! Dove possiamo andare?”.
Lei brontola e va a vedere cosa succede nello stanzino. Ogni giorno, portano lì prima zucchero di Pasqua, poi sale, noci, prugne, mandorle. In tutti gli angoli, sono sistemati sacchi di tela. Pare che Hava si diverta ad ammassare tutte queste cose buone. Lo fa per farci dispetto. Strana donna! Sin dal primo giorno di Pasqua, ci rimpinza al punto che ci dobbiamo tenere la pancia. E là, ci tormenta l’anima. Ogni giorno è la stessa storia. Abrachka gira intorno alla porticina, si avvicina correndo, si salva.
“Batchka, sembra che oggi abbiano portato dell’uva da Corinto!”.
“No! sa piuttosto di prugne!”.
Hava ci afferra all’istante.
“Cosa avete da annusare qui?”.
“Non si può neanche annusare?”.
“Andate a soffiarvi il naso da qualche altra parte. Se no farò a meno di cucinare qualcosa di buono per la festa. Che cosa potrà mai riuscir bene se vi lascio stare qui?”
Prima se la prende con le casseruole. Per purificarle. In cucina, ogni giorno, spariscono una dopo l’altra, le pentole di rame. Per tutto l’anno, tutte le pentole e casseruole di rame se ne stanno allineate sulla mensola in alto, come generali a una parata. Brillano, luccicano e dalla loro altezza mandano bagliori di fuoco. Verso Pasqua, ormai opache, Hava le tira giù dalla mensola prendendole per la coda: per i manici neri e bruciacchiati. Le trascina dallo stagnino per purificarle. Anche la vecchia brocca dello Shabbat e il samovar usato dove non si versa più neanche una goccia d’acqua, lei li purifica proprio come il samovar che ha bollito e ribollito per giorni e giorni. Forse da lì verrà fuori un pizzico di lievito? Gli utensili da cucina purificati si ricoprono, al loro interno, di una nuova pelle. Hava li porta nello stanzino e li avvolge ciascuno in un panno a parte
[7]. I panni emanano come una brezza di emozione sul resto della casa.
“Bachinka, tu sei già una ragazza grande, tieni, ecco la chiave, va’ e controlla bene l’armadio dei bicchieri. Mi sembra che l’anno scorso ne abbiamo rotto qualcuno”.
Fuori dallo stanzino, Hava adesso dà gli ordini. Un armadio tutto per la Pasqua è incastrato nel muro della sala da pranzo. Rimane chiuso tutto l’anno. Ci si dimentica che è pieno di vita. Apro le ante. Ne esce un odore di cose vecchie. Piatti, calici, bicchieri rinchiusi si destano.
“Cosa manca? Un bicchiere? Un calice?”.
Mi arrampico su di una sedia, ficco la testa dentro alle tre mensole. Conto i calici. Ce ne sono abbastanza per tutti? Faccio il calcolo a mente come se vedessi già ognuno seduto al suo posto. L’armadio dei bicchieri scintilla. Da tutte le parti, bicchieri e porcellane tempestate d’oro. Una mensola di calici. Abbagliante. Bicchieri: grossi, sottili, alti, piccoli. Si guardano gli uni gli altri come in uno specchio. Da un lato, se ne stanno in piedi, profondamente pensosi, resi opachi dai colori del loro cielo, rossi e blu, cristalli di Boemia. L’aroma del vino dell’anno scorso non è ancora svanito. Una spanna sopra gli altri si eleva, come un Re, il calice del Profeta Elia. Lo tocco appena. Ad ogni Pasqua, ho paura che si rompa per tutto il vino che ci versano. Anche se vuoto, sparge intorno bagliori rossi, come gocce di vino. Mi immagino seduta su di un albero su cui cantano e becchettano uccelli rossi e blu che non conosco. Le larghe bottiglie rosse aggiungono ancora più fuoco. Nel loro vetro scarlatto, un’acqua semplice diventerà rossa come sangue. Che succederà quando tutte queste bottiglie e calici verranno posti sulla tavola del banchetto, colmi di vino? La tovaglia bianca si accenderà. Un incendio divamperà. I miei occhi stanchi si arrampicano fino a un’altra mensola. Là, una zuppiera larga, decorata di fiori rossi. È pesante, come sollevarla? Adesso capisco perché le mani di Hava crocchiano quando la porta a mamma colma di brodo e polpettine cicciotelle, che galleggiano come tanti bimbi, col pancino in aria. Vicino alla zuppiera, ci sono dei piatti, un intero negozio di piatti! Controllo quelli più piccoli che si usano per servire cose buone agli invitati. Il mio compito è offrirle. Mi immagino dove devo disporre i dolci di nocciole e di miele, poi le focacce e le mandorle. Al centro di ogni piattino, una mela o una pera dipinte. Colpiscono gli occhi, come fosse frutta vera. Mi confondono. Tutto a un tratto, vedo, da una parte, impacciato, un bricco da latte con il beccuccio spezzato. Mi guardo intorno. Non ce n’è un altro. Quando tornerò al negozio, dirò a mamma che dobbiamo comprarne uno nuovo. Lei mi griderà dietro: “Cos’hai da rompermi la testa con il tuo bricco? Qui, fatichiamo come cavalli per guadagnare quattro soldi e a casa si continua a rubare e a rompere”.
Forse è meglio non parlarne con mamma. Dove troverò ancora un bricco blu come quello, che stia bene con la zuccheriera?

Se vado nel negozio di porcellane, mi perdo. L’aria vibra di tutti i suoi cristalli esposti. Mi specchio ovunque. In un bicchiere, una metà del viso, in un altro mi si allunga il naso, qui si appiattisce. Vicino a me, il proprietario, un uomo alto e grosso. Il suo abito nero non fa intravedere alcun oggetto di cristallo. Si muove tra le cose con leggerezza, toccandole con gli occhi. Ogni tanto, dà un buffetto a un bicchiere. Lo fa per assicurarsi che la merce sia intatta o per stupirmi, per mostrarmi una sua prodezza? Al suo tocco, il bicchiere risuona come un grido nello spazio. Il suono si propaga per tutto il negozio. Tutto il vasellame vibra. Alza il dito, il suono va a rannicchiarsi da qualche parte, in un angolo e poi, di nuovo, il silenzio. Si sentono solo i nostri passi. Dimentico quello che devo comprare. Hava mi ha chiesto di portarle qualcosa per la cucina.
“Guarda! - sussurra al mio orecchio il negoziante - “Guarda i nuovi bicchieri da liquore. Sono appena arrivati. Carini, vero?”. Me li butta lì senza badarci, e mi gira ancora di più la testa. I bicchierini sottili mi fanno l’occhiolino come teneri fiori. Possono scivolare giù dalla mensola, al primo soffio di vento. Il loro vetro affusolato è una tentazione. Verrebbe voglia di posarli sulle guance, sulla bocca. La voce di Hava risuona nelle orecchie:
“Ancora dei bicchierini?Per farne cosa? Per chi? Non c’è nemmeno il posto per metterli. Ma hai dimenticato di comprare per me qualche piatto semplice semplice? A cosa serve un bicchierino come questo?”.
Hava alza un bicchierino in controluce. “Guarda! Si scioglierà nell’acqua! Quanti di questi bicchierini mi sono rimasti tra le mani, nello strofinaccio?”.
“Ma sono davvero bellini! Non avevo il coraggio di lasciarli in negozio…”
Che mi gridino pure dietro! Non ci sono altre cose superflue in casa?

NOTE AL TESTO di Lorenzo Gobbi[1] Hava significa “sorriso, risata”, ed è un nome femminile molto diffuso.
[2] Simile al nostro carnevale, è una festa gioiosa che ricorda la salvezza degli ebrei per opera della regina Ester: precede di poco la festa di Pasqua.
[3] “Epicureo” significa propriamente seguace della dottrina del filosofo greco Epicureo (III-II sec. a. C.), che negava la provvidenza degli dei e l’immortalità dell’anima; in senso popolare, significa “miscredente”, “libertino”.
[4] Per pregare, soprattutto nella sinagoga ma anche a casa, gli ebrei indossano uno scialle particolare, detto tallèt, di colore bianco con righe azzurro scuro ai bordi e frange ai quattro lati che ricordano i precetti della Bibbia; solo un ebreo circonciso adulto può indossarne uno.
[5] Prima della Pasqua, le regole del rito ebraico impongono di eliminare dalla casa ogni traccia di chamètz, cioè “lievito”: per questo, gli ebrei puliscono perfettamente la casa, spostando i mobili e rivoltando i materassi (da qui, la tradizione della pulizie di primavera, che sono un uso ebraico). Per chamètz si intende non solo il lievito propriamente detto, ma tutto ciò che è cibo e può andare a male: briciole di pane, dolci, farina, pasta, riso… solo il sale non va a male, e per questo, nella cena di Pasqua e nei riti della vigilia del Sabato, rappresenta il Patto di alleanza tra Dio e il suo popolo (il patto si chiama, in ebraico, Berìt). La preoccupazione dell’uomo è che, tramite il fiato o la saliva delle persone, qualche minima traccia di chamètz raggiunga il pane, rendendolo meno santo.
[6] La preoccupazione di Hava è che, con le mani non lavate, i ragazzi possano portare nella stanza dove lei prepara il pane per la Pasqua delle tracce di Hamètz, e così rendano impuro, contaminato dallo chamètz, ciò che lei sta preparando.
[7] E’ importantissimo che gli utensili da cucina che verranno usati per preparare la cena di Pasqua non si contaminino in nessun modo, dopo essere stati puliti: non devono, cioè, venire in contatto con cibo o resti di cibo (con tutto ciò che è chamètz). Per questo, appena puliti (cioè appena purificati) vengono avvolti in panni bianchi puliti).


martedì 18 marzo 2008

CHRISTIAN BOBIN: LA VOCE NELLA RETE

Foto di André Dhotel (1900-1991)


Foto di Jean Follain (1903-1971)



CON GLI AMICI DI SEMPRE: ANDRE DHOTEL E JEAN FOLLAIN, ALLA RADIO SVIZZERA DI LINGUA FRANCESE.
Ho provato a cercare in internet dei video dedicati a Christian Bobin.
“ubujubu”, questo è il nome dell’autore che inserisce in youtube dei brevissimi video sullo scrittore francese: montaggi di immagini che accompagnano la voce di Bobin, che si possono scaricare dal sito della radio svizzera in lingua francese.
A qualcuno che ringrazia “ubujubu” per aver messo a disposizione queste perle, “ubujubu” risponde:

Monsieur Bobin le dimanche matin sur les ondes de la radio suisse romande (di lingua francese)- espace 2 –
Un régal
Je vais essayer de poster les autres chroniques,il y en a beaucoup, beaucoup”

Bobin la domenica mattina sulle frequenze della radio svizzera di lingua francese – espace 2.
Un piatto prelibato.
Proverò a postare altri episodi, ce ne sono molti molti


Il sito della radio svizzera è:
http://www.rsr.ch/, nello spazio della ricerca è sufficiente digitare Christian Bobin per veder comparire la pagina con tutte le sue trasmissioni registrate:

http://www.rsr.ch/search?SearchableText=christian+bobin&x=10&y=11

La trasmissione non dura più di quattro cinque minuti: “un piatto delizioso” che nutre lo spirito e la nostra vita. Brevi riflessioni dense di luce, come è la prosa di Bobin.
Poche righe che aiutano a vivere e a riflettere.
Ma anche, e soprattutto, a sorridere.

Ne riporto di seguito qualche breve traccia:
Hector et Marianne

Bobin racconta una storia di André Dhotel (1900-1991): un uomo parla agli uccelli che gli rispondono. Come avviene? Semplicemente, egli va nella foresta e attende, attende fino a quando un pettirosso o delle rondini gli rispondono ma la storia continua…
André Dhotel è l’amico e scrittore, che accompagna Bobin nella vita come nei libri.
Ascoltando il racconto, si capisce quanto Bobin si sia ispirato a questo scrittore (che non è ancora stato pubblicato in Italia). Ha vinto il premio Femina nel 1955 con Le Pays où l'on n'arrive jamais, il premio de l'Académie française nel 1974 e il Grand prix delle letteratura nel 1975.
Grande amico di Jean Follain, un altro autore molto amato da Bobin.

Il video su youtube è rintracciabile su:http://video.google.fr/videoplay?docid=-8050837649106160908&q=ubujubu&total=15&start=0&num=10&so=0&type=search&plindex=0
Jean Follain et l'écritureIn questi pochi minuti, Bobin prova a rispondere alla domanda che continua a tornare nelle tante lettere che gli scrivono. Questa è la domanda che pongono sempre i bambini quando incontrano uno scrittore.
In tutti i suoi libri incontriamo tentativi di risposta.
Per Bobin difficile e scoraggiante rispondere: perché un boxer continua a dare pugni all’avversario e a fatica smette di giocare quando è sul ring?
Non si decide di scrivere: si risponde a qualcosa, si è come “costretti” a rispondere a qualcosa che ci chiama. Lo scrittore è come colto da “visioni”: lembi di vita comune, nulla di straordinario, ma che si presentano come sono, illuminati da ciò che li distruggerà. Lo scrittore cerca di riportare questi piccoli lembi destinati a scomparire sulla propria pagina.
Per meglio far capire cos’è un’ “apparizione”e dare ragione dello scrivere, egli legge un brano di Jean Follain (1903-1971) tratto L’épicerie de l’enfance, pubblicato da Fata Morgana: è un ritratto di una maestra della scuola elementare intriso di fragilità e di vita.

Il video è rintracciabile qui:http://www.youtube.com/watch?v=_-LW2vmnWkE&feature=related

A onor di cronaca, di Jean Follain, è appena stato pubblicato (febbraio 2008) dalla San Paolo, Curato d'Ars: Quando un uomo semplice confonde i sapienti, tradotto da Gabriella Fiori.

Appena ho un po’ di tempo, ne posterò degli altri.

venerdì 14 marzo 2008

FRANÇOIS-RÉNÉ DE CHATEAUBRIAND: UN ARISTOCRATICO A GERUSALEMME – 1806 (7^ parte) : IL MURO DEL PIANTO E LA VALLE DI GIOSAFAT












Foto 1: Antica edizione dell' Itinéraire de Paris à Jérusalem de Chateaubriand
Foto 2: Il Presidente francese Nicolas Sarkozy riceve il Presidente Israeliano Shimon Perès nella sua visita ufficiale in Francia (marzo 2008)
Foto 3: Pianta di Gerusalemme antica
Foto 4: A Gerusalemme, la chiesa di Sant’Anna e la Piscina Probatica
Foto 5: A Gerusalemme, la Piscina Probatica
Foto 6:Il Muro del pianto oggi
Foto 5: Il Muro del Pianto – 1845 H. Bartlett
Foto 7: Il Monte Sion oggi
Foto 8: La Valle di Giosafat e le Tombe dei re.
Foto 9: Valle di Giosafat


SARKOZY E IL DONO SCELTO PER PERES

Leggo sulla pagina in internet de Le Figaro, dell’11 marzo 2008, che in occasione della visita ufficiale in Francia del Presidente israeliano Shimon Pérès, il Presidente francese Nicolas Sarkozy ha scelto come regalo da donare al suo ospite, una stampa raffigurante l’aristocratico francese Chateaubriand e quattro volumi antichi dell’ Itinéraire de Paris à Jérusalem pubblicato in Francia nel 1802.

Chissà se Sarkozy, e i suoi consiglieri, conoscono il contenuto del libro. Il titolo è chiaro: si tratta del viaggio che il giovane aristocratico francese compì a Gerusalemme nell’ottobre del 1806 e molto probabilmente, ciò basterebbe a sancire il legame forte tra la Francia e Israele, secondo i politici d’oltralpe.
Ma come vengono raccontati gli Ebrei dal nobile cristiano francese, paladino e difensore della fede cristiana? Un pensatore che aveva da poco pubblicato in patria Le Génie du Christianisme e che partiva per conoscere i luoghi prescelti da Dio per la sua Incarnazione in Gesù Cristo?
Chissà se Perès poi se lo legge sul serio…

Di seguito, anticipo alcune riflessioni, appunti e brani da me tradotti che possono in parte darci un’idea di come Chateaubriand percepisse il mondo ebraico agli inizi del XIX° secolo. Se me ne occupo nella mia bibliothèque, è perché il suo pensiero mi appare più che mai attuale. Ciò non significa che io sia d’accordo con ciò che egli scrive, ma che i suoi “reportages” d’inizio secolo, possono dare al lettore del secondo millennio, nuovi e inesauribili spunti di riflessione, dal momento che anche un capo di stato lo sceglie come dono, consapevolmente o meno, per il presidente dello Stato d’Israele!

Curiosa, agli occhi di noi contemporanei, è la suddivisione che Chateaubriand ci presenta delle antiche vestigia presenti a Gerusalemme. Il suo interesse, come già abbiamo visto dal suo itinerario di viaggio, non è rivolto alla Palestina, ma a Gerusalemme, dove c’è il luogo Santo per eccellenza: la tomba vuota di Gesù Cristo: il Santo Sepolcro. Da vero paladino della fede, va direttamente al cuore della cristianità per vedere con i propri occhi, il luogo che ha cambiato il corso della storia.

Egli, in modo molto preciso, dettagliato e diligente, mette a conoscenza il lettore dei diversi monumenti che si possono visitare a Gerusalemme, distinguendone sei tipi:
1. monumenti prettamente ebraici;
2. monumenti greci e pagani ai tempi dei romani;
3. monumenti greci e romani al tempo del cristianesimo;
4. monumenti arabi o moreschi;
5. monumenti gotici sotto i re francesi;
6. monumenti turchi.

Sentiamo cosa ci racconta:
Veniamo ai primi.
Non si vede più alcuna traccia di questi a Gerusalemme, eccezion fatta per la piscina Probatica; annovero infatti i Sepolcri dei Re e le Tombe di Assalonne , di Giosafat e di Zaccaria, nel numero dei monumenti greci e romani eseguiti dagli Ebrei.
E’ difficile farsi un’idea chiara del primo e del secondo Tempio, da ciò che riporta la Scrittura e dalla descrizione che ne fa Giosafat; ma due cose si intuiscono: gli Ebrei avevano una predilezione per ciò che è cupo e grande, come gli Egiziani; essi amavano i piccoli dettagli e gli ornamenti ricercati, sia nelle incisioni su pietra sia negli ornamenti in legno, in bronzo e in oro.
Il Tempio di Salomone, essendo stato distrutto dai Siriani e il Secondo tempio ricostruito da Erode, rientra nell’ordine di quelle opere per metà ebraiche e per metà greche, di cui presto parlerò. Nulla dunque resta dell’architettura primitiva degli Ebrei a Gerusalemme, al di fuori della Piscina Probatica.
[1] […]. Giuseppe (Flavio) chiama questa piscina “stagnum Salomonis” (in latino nel testo), il Vangelo la chiama Probatica, perché venivano purificate le pecore destinate ai sacrifici. Fu al bordo di questa piscina che Gesù disse al paralitico: “Alzati, e prendi il tu letto”
Ecco tutto ciò che resta oggi della Gerusalemme di Davide e di Salomone.

[…] I monumenti della Gerusalemme greca e romana sono più numerosi, e formano una classe nuova e molto singolare nelle arti. Inizio con le tombe della valle di Giosafat e della valle di Siloé. Quando si attraversa il ponte del torrente di Cedron, si trova ai piedi del mons Offensionis il sepolcro di Assalonne.
[…]
[2]

Passiamo ora al terzo tipo dei monumenti di Gerusalemme, ai monumenti del cristianesimo prima dell’invasione dei Saraceni. Non ho più nulla da dire poiché li ho descritti quando ho dato conto dei luoghi santi. Farò soltanto una sottolineatura: poiché tali monumenti debbono la loro origine a dei Cristiani che non erano Ebrei, essi non serbano nulla del carattere mezzo-egiziano, mezzo greco che ho osservato nelle opere dei principi Asmonei e di Erode; essi sono semplici chiese greche del tempo della decadenza dell’arte.
[3]

Quindi i monumenti che fanno parte della storia ebraica, come ad esempio le Tombe dei Re e di Assalonne, sono “percepiti” come espressione dell’ arte romana: “pagana”, perché eretti prima del cristianesimo. Chateaubriand, come già sappiamo, dispone delle fonti della sua epoca che non smette mai di citare.
[4].
In viaggio, abbiamo incontrato molti gruppi di giovani israeliani (ragazzi e ragazze), in divisa militare, radunati presso una di queste tombe per ascoltare una visita guidata sulla loro storia. (Nella foto n 8 che ho scelto, forse è possibile scorgerli in lontananza).

Nonostante Chateaubriand abbia studiato l’ebraico, come cristiano e studioso, si è formato sulle traduzioni greche e latine dei testi sacri, l’influsso della cultura di cui queste lingue sono portatrici, con le categorie mentali che le caratterizzano, ha profondamente formato non solo la mente del giovane pensatore ma anche il cristianesimo occidentale nelle sue fondamenta, facendogli completamente rimuovere le radici ebraiche, che solo con il papato di Karol Woytila hanno cominciato a essere riconsiderate dalla massa dei fedeli cattolici
[5].
Chateaubriand, a mio avviso, incarna tutta la grandezza e il limite di questo tipo di cristianesimo, fino a divenirne il simbolo.

Tutto il resoconto di Chateaubriand è caratterizzato da uno sguardo fortemente cristiano: tutto per lui è in funzione della storia della salvezza. Quindi anche gli Ebrei e la loro esistenza.
Egli, sembra infatti rimanere indifferente all’aspetto religioso “di ciò che resta del Tempio”, oggi diremmo Muro Occidentale o Muro del Pianto. D’altra parte, è bene ricordare che quando giunge in Egitto, in pieno Ramadam, non annota nulla nei suoi appunti di viaggio: nemmeno lo stupore per le diverse abitudini religiose.

Edward Said continua a sottolineare l’indifferenza di Chateaubriand nei confronti della realtà che incontra, non si stanca di sottolineare, che per lui, tutto è in funzione della storia della Salvezza.
Non vede e riconosce nulla per ciò che è. Infatti, non andrà a visitare il Muro del Pianto, e se ci va, non ce ne parla; egli non lo nomina mai come luogo di preghiera caro agli ebrei. Ci racconta sì del Tempio ma solo per presentare, come ho già detto, i monumenti ebraici di Gerusalemme, che alla fine sono solo due: quel che resta del Tempio e la piscina Probatica.
Ma il Tempio è nominato per ricordare Gesù e le sue visite al Tempio oppure per raccontare la storia della Moschea del Tempio o di Omar- così chiamata, perché costruita sulle sue rovine.
E’ chiaro quindi che su quel che si intravede ancora del Tempio non posa affatto uno sguardo “ebraico”, ma, al contrario, totalmente cristiano.

E’curioso a questo punto far rilevare che la lunga descrizione dedicata al Tempio di Salomone e alla sua storia, è apparsa solo nelle prime edizioni dell’Itinéraire, in seguito, è stata inserita in nota dall’autore stesso.
[6] Forse non era reputata così importante e significativa da lui e dal suo pubblico che lo leggeva in Patria.

Certo, egli è uomo del suo tempo, un cristiano cattolico non certo figlio del Concilio Vaticano II né del papato di Karol Woytila!
La cristianità allora, viveva rapporti diversi con l’Ebraismo. Non esisteva ancora lo Stato di Israele e il Muro non aveva davanti a sé la grande spianata che gli conferisce un’imponenza e un’importanza che oggi può essere percepita da qualsiasi visitatore o pellegrino.
[7]

Ma ciò che colpisce il pellegrino Chateaubriand, non è il Muro del Pianto ma la Valle di Giosafat, dove si trovano le Tombe dei Re, (che egli reputa monumenti pagani).
L’aspetto della vallata è di desolazione sia nella parte occidentale che nella parte orientale (Monte degli ulivi e dello scandalo). “Le pietre del cimitero degli Ebrei si mostrano come un ammasso di relitti ai piedi della montagna dello scandalo, sotto il villaggio arabo di Siloan”.
La parte occidentale è una grande falesia di gesso che sostiene le mura gotiche di Gerusalemme; sopra si intravede Gerusalemme. Di fronte: il Monte degli Ulivi e dello scandalo, essi hanno un colore rossastro scuro e sui fianchi deserti, sparute vigne nere e bruciate, boschetti di olivi, cappelle e oratori e rovine di moschea. Così ci descrive il panorama che si distende davanti ai suoi occhi.

Chateaubriand è fortemente impressionato da questo spettacolo di desolazione: la tromba del Giudizio Universale sembra essere già suonata. Qui giace la tomba di Giosafat e la Valle di Giosafat (o Valle dei Re) sembra servire da cimitero a Gerusalemme: gli Ebrei vengono a morire qui da tutte le parti del mondo, ci informa il nostro viaggiatore.
La valle è chiamata anche Valle dei Dolori: qui Davide compose i canti del lutto, Geremia fece sentire le sue Lamentazioni e Gesù Cristo iniziò la sua passione nella solitudine .

Valle così piena di misteri che secondo il profeta Gioele, tutti gli uomini vi devono comparire un giorno davanti al giudice temibile. Congregabo omnes gentes, et deducam eas in vallem Josaphat, et disceptabo cum eis ibi (Raccoglierò tutte le genti, e le porterò nella valle di Giosafat, e là emetterò un giudizio con loro)
[8]. È ragionevole, dice il padre Nau, che l’onore di Gesù Cristo sia riparato pubblicamente nel luogo dove è stato privato della vita attraverso tanti obbrobri ed ignominie e che egli giudichi giustamente gli uomini, nel luogo dove essi l’hanno giudicato così ingiustamente.”[9]

Anche poco prima di partire, si sofferma nella valle di Giosafat ai piedi della tomba di Giosafat, rivolto al Tempio per immergersi nella lettura della grande tragedia di Racine Athalie(1691)
Sceglie l’ultima tragedia del grande drammaturgo francese di ispirazione biblica, il riferimento è al passaggio del Libro dei Re. Athalie è una donna che ha preso il potere e ha instaurato il culto di Baal. Ella vuole distruggere la stirpe di Davide, ma perirà sotto le sue stesse trame. Tutta la scena dei cinque atti è il tempio di Gerusalemme.
Chateaubriand si lascia trasportare dai versi di Racine e gli sembra di sentire le voci dei profeti ma più che la Parola a smuoverlo sono i versi di Racine.
[10]
Dopo averli assaporati, con lo sguardo rivolto la tempio, se ne tornerà al convento dei francescani.
AL MONTE SIONNel suo girovagare per Gerusalemme, Chateaubriand si reca anche al Monte Sion dove incontra ebrei vestiti di stracci, seduti in mezzo alla polvere di Sion mentre cercano gli insetti che li stanno divorando, con gli occhi fissi sul Tempio.
Da studioso, ha fatto delle ricerche sulla condizione degli Ebrei a Gerusalemme dalla distruzione del Tempio di Tito fino ai suoi giorni ma preferisce rimandare il lettore ad altre opere, in particolare a quella dell’abate Guenée, uno studioso (1717-1803), autore di una eruditissima Recherche sur la Judée.
Chateaubriand, non ama fare come quei viaggiatori a lui contemporanei che attingono da altri autori senza citarli, per far sfoggio di un’ erudizione in realtà “rubata”. Egli, al contrario, essendo venuto a conoscenza di quest’opera che si trova pubblicata nelle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni, dichiara l’inutilità dei propri studi e delle proprie ricerche e, per questo, decide di non soffermarsi su questo aspetto, rimandando i lettori direttamente all’opera segnalata.
[11]

Un giorno, camminando attorno al Monte Sion, vorrebbe comprare una torah in una sinagoga (Chateaubriand aveva studiato un poco l’ebraico), ma il rabbino non glielo permette. L’episodio ci viene riportato così come è accaduto, senza alcun rancore o giudizio morale sul rabbino o sulle abitudini e usanze ebraiche.
Ciò che impressiona l’aristocratico francese è la miseria del quartiere e delle case, nient’altro.
Riguardo agli Ebrei di Gerusalemme, egli così annota nel suo Itinéraire: “Hanno osservato che gli Ebrei stranieri che si fissano a Gerusalemme, vivono per poco tempo. Quanto a quelli di Palestina, sono così poveri che ogni anno vanno a fare delle ricerche tra i loro fratelli d’Egitto e del Marocco”
[12]

Poco prima di lasciare la Palestina, egli annota alcune considerazioni sul popolo ebraico, che, come sempre, trasfigura in funzione della storia della salvezza:

Mentre la novella di Gerusalemme esce così “dal deserto, brillante di chiarezza”, buttate l’occhio tra la montagna di Sion e il Tempio; vedete questo piccolo popolo che vive separato dal resto degli abitanti della città. Oggetto particolare del disprezzo di tutti, china il capo senza lamentarsi; subisce tutte le umiliazioni che gli vengono fatte in pubblico, senza chiedere giustizia, si lascia aggredire senza lamentarsi; gli chiedono la testa: la presenta al cimitero. Se qualche membro di questa società messa ai margini, giunge qui per morire, il suo confratello lo seppellirà senza farsi vedere durante la notte, nella valle di Giosafat, all’ombra del tempio di Salomone. Penetrate nella dimora di questo popolo, lo troverete in una miseria spaventosa, mentre fa leggere un libro misterioso a dei bambini che, a loro volta, lo faranno leggere ad altri bambini. Questo popolo continua a fare ciò che faceva cinquemila anni fa. Ha assistito diciassette volte alla rovina di Gerusalemme, e nulla può scoraggiarlo; nulla può impedirgli di volgere lo sguardo da Sion. Quando vediamo gli ebrei dispersi sulla terra, secondo la parola di Dio, ne restiamo probabilmente sorpresi: ma per essere còlti da uno stupore soprannaturale, bisogna ritrovarli a Gerusalemme; è necessario vedere questi legittimi padroni della Giudea schiavi e stranieri nel loro stesso Paese; è necessario vederli mentre attendono sotto tutte le oppressioni, un re che deve venire a liberarli. Schiacciati dalla Croce che li condanna e che è piantata sulle loro teste, nascoste vicino al tempio, di cui non resta pietra su pietra, essi dimorano nella loro deplorevole cecità. I Persiani, i Greci, i Romani sono scomparsi dalla terra; e un piccolo popolo, la cui origine precedette quella dei grandi popoli, esiste ancora, senza essersi mai mescolato, nelle rovine della propria patria. Se qualcosa, tra le nazioni, porta in sé un carattere miracoloso, noi riteniamo che esso stia qui. E cosa può suscitare maggiore meraviglia, persino agli occhi del filosofo, se non questo incontrarsi dell’antica e della nuova Gerusalemme ai piedi del Calvario: la prima mentre si affligge al cospetto del sepolcro di Gesù Cristo risuscitato¸ la seconda, mentre si consola presso l’unica tomba che non avrà nulla da restituire alla fine dei secoli!”
[13]

Chateaubriand è un uomo intriso di una cultura tutta francese e cattolica che guarda e sosta in quei luoghi che hanno ospitato la nascita del figlio di Dio, con il cuore e lo sguardo di un mondo che guarda solo in funzione di se stesso e della propria storia.
Gerusalemme e i suoi luoghi lo confermano, infatti, della bontà del proprio mondo.
Egli non sembra percepire la grande apertura del Vangelo e non fa proprio lo sguardo che se assunto nel profondo, squarcerebbe tutte le coordinate che ognuno ha assimilato dentro di sé.

In queste pagine, incontriamo un uomo del XIX° secolo chiuso nel proprio universo: un viaggiatore che si vede confermare nelle proprie certezze, esaltando così la percezione di sé e della cultura di cui è espressione.
Eppure, a mio modestissimo parere, non è troppo lontano da tanti cattolici tradizionalisti che spesso occupano le pagine dei giornali per qualche manifestazione, invettiva pro-cristiana e, ahimé, anti-ebraica.
[14]

Chateaubriand, dopo aver ripercorso a suon di numeri e immagini atroci, il massacro che Tito fece del popolo ebraico, facendo riferimento alla fonte dell’abate Guenée, così scrive:

Dio ascoltò il voto degli ebrei e per l’ultima volta esaudì la loro preghiera, dopo di ché distolse lo sguardo dalla Terra Promessa e scelse un nuovo popolo
[15]
NOTE AL TESTO
[1] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.390-391. La Piscina Probatica o Piscina di Betsheda: “Il Vangelo racconta che un giorno Gesù venne condotto alla Piscina Probatica, nel quartiere di Bethesda, a nord di Gerusalemme, e che là guarì uno dei paralitici che si immergevano nelle sue acque. Ai tempi di Gesù la piscina era formata da due vasche rettangolari, profonde 20 m e circondate da un portico: queste grandi cisterne fornivano al Tempio, che non è lontano, l'acqua per le abluzioni rituali. La piscina deve il suo nome al greco probatiké (delle pecore), con cui si designava una porta nelle mura della Città Vecchia: con il passare dei secoli è stata trasformata prima in un tempio romano, consacrato al dio della medicina Esculapio, e quindi in una basilica paleocristiana dedicata alla Madonna. Oggi è un'area archeologica di proprietà dal 1856 del governo francese, ed è affidata ai Padri Bianchi.(http://www.sapere.it)/.”, insieme alla Chiesa di Sant’Anna aggiungiamo noi. Tale restituzione da parte dei Turchi alla Francia avvenne a seguito della Guerra di Crimea (1853-1856) come segno di riconoscenza per essere stati alleati, insieme agli inglesi, contro la Russia zarista.
[2] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.391
[3] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp.399
[4] Oggi l’Archeologi in Israele e nei Territori occupati è divenuta una vera e propria arma da guerra. Segnalo un articolo a mio avviso molto interessante, che ovviamente propone il “suo” punto di vista a questo proposito (!)http://www.custodia.org/spip.php?article2416&lang=it : Archeologia alternativa: “da Siloe a Silwan”. Preoccupati del sistematico uso politico delle ricerche archeologiche e del discredito a cui di conseguenza è sottoposta l’archeologia stessa, alcuni archeologi hanno deciso di fondare un’organizzazione con lo scopo di opporsi a questa deriva ideologica. Il gruppo si chiama “Da Siloe [il nome ebraico] a Silwan [il nome arabo]”. Messo on line il lunedì 18 febbraio 2008 da Eugenio
[5] Consiglio un bellissimo libro “Il Dio in armi”, di Jill Hamilton, una storica inglese che dimostra quanto la religione protestante , da sempre attenta all’Antico Testamento, abbia non poco influenzato i politici inglesi durante la politica estera del mandato britannico, e non solo. A suo parere, la cultura protestante ha dato un impulso non indifferente alla creazione dello Stato di Israele.
[6] Nelle prime edizioni dell’Itinéraire, si trova una descrizione dettagliatissima del tempio e dello stile. Nelle edizioni successive tale descrizione vien soppressa. Oggi fa parte del corredo di note della pubblicazione Gallimard.
[7] La grande spianata davanti al Muro Occidentale è stata fatta dopo la vittoria di Israele della guerra dei sei giorni (1967). Il muro si trovava racchiuso e confinato da case: molte di queste case erano abitate dalla popolazione araba. Dalle foto che ho scelto, si può vedere il muro come è oggi e come era prima del 1967. “Il 10 giugno le ruspe israeliane cominciarono a radere al suolo il quartiere medievale Mughrabi nella Città Vecchia cancellandolo completamente nel giro di quattro mesi con la distruzione di 135 case abitate da circa 650 mussulmani . L’operazione aveva lo scopo di realizzare una grande piazza di fronte al Muro occidentale che permettesse ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro del pianto” di Maurizio Debanne.
[8] Gioele, III,2.
[9] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 359
[10] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 407-408
[11] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 382
[12] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 381
[13] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 449-450
[14] (A questo proposito rimando – per chi ne avesse tempo e voglia - alla lettura del post del 9 febbraio (titolo La preghiera per gli Ebrei), che poco tempo fa mio marito, Lorenzo Gobbi, ha scritto in occasione del cambiamento voluto da papa Benedetto XVI nella preghiera del venerdì Santo, nel testo della Liturgia che si celebra in latino, http://www.lattenzione.blogspot.com/)
[15] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp. 369

domenica 9 marzo 2008

FRANÇOIS RÉNÉ DE CHATEAUBRIAND: UN ARISTOCRATICO A GERUSALEMME – 1806 (6^ parte) ALLA PORTA DI GIAFFA E AL CONVENTO DELLA CUSTODIA DI TERRASANTA










Foto 1 : Vista di Ramlah (AL-Ramla) oggi
Foto 2: Convento dei Padri Latini di terra Santa a Ramla (Al-Ramla)
Foto 3: Un Firman
Foto 4: Drogman, guida interprete
Foto 5: Porta di Giaffa a Gerusalemme
Foto 6: Torre di David a Gerusalemme
Foto 7: Chiesa di San Salvatore a Gerusalemme – Custodia di Terra Santa
Foto 8 Stemma della Custodia di Terrasanta

ARRIVO A GERUSALEMMEA Rama[1], Chateaubriand viene raggiunto da un drogman mandato dal Custode francescano di Gerusalemme, che insieme alla scorta araba, ha il compito di condurlo fino a Gerusalemme.

Buone notizie mi attendevano a Rama: ci trovai un drogman
[2] del convento di Gerusalemme che il Custode inviava davanti a me. Il capo Arabo che i Padri avevano mandato a chiamare e che doveva servirmi da scorta, si aggirava da qualche parte nella campagna; infatti, l’Aga di Rama non permetteva ai Beduini di entrare in città. La tribù più potente delle montagne della Giudea risiede nel villaggio di Geremia: essa apre e chiude a piacimento la strada di Gerusalemme ai viaggiatori.”[3]

Viaggiando con Chateaubriand incontriamo Arabi, Turchi e molto più raramente Ebrei, che restano confinati nell’Antico Testamento: una presenza ormai superata dalla buona novella, secondo l’aristocratico francese. Degli Arabi non ha una buona opinione (come abbiamo visto nei post precedenti), ma nemmeno dei Turchi ha molta stima, poiché essi non fanno altro che vessare pellegrini e religiosi con imposte arroganti e spesso arbitrarie. Sin dal suo arrivo a Gerusalemme, alla Porta dei Pellegrini o Porta di Giaffa, dovrà pagare il tributo di ingresso, somma che dovrà versare anche quando si recherà al Santo Sepolcro, dove un Turco sarà già stato avvisato per accoglierlo e per aprirgli le porte, l’irritazione di Chateaubriand è, a questo proposito, senza ambiguità: “Di nuovo pago a Maometto il diritto di adorare Gesù Cristo
[4]

Il Padre francescano Bonaventura, sarà perciò felicissimo di accogliere, nel convento di Gerusalemme, i due pellegrini francesi che viaggiano sotto la protezione del Ministro degli Esteri Talleyrand. I religiosi si trovano, infatti, in serie difficoltà nei confronti del Pascià Abdallah che governa la città. Quando Chateaubriand giunge al convento, i soldati di Abdallah sono già lì per farsi dare tutto quello di cui hanno bisogno.

Ma procediamo con ordine: il 4 ottobre 1806, giorno di San Francesco e dunque festa del Patrono dei Padri Latini, Chateaubriand arriva finalmente alla Porta di Giaffa, detta anche porta dei Pellegrini, ascoltiamolo:

Entrammo a Gerusalemme dalla porta dei Pellegrini. Vicino a questa porta si erige la torre di David, conosciuta di più con il nome della torre dei Pisani. Pagammo il tributo, e seguimmo la strada che si presentava dinnanzi a noi: poi girando a sinistra, tra due specie di prigioni di pietra intonacata che chiamano case, arrivammo a mezzogiorno e 22 minuti al monastero dei Padri Latini. Lo invadevano i soldati di Abdallah che si facevano dare tutto ciò che poteva convenir loro. Bisogna essere al posto dei Padri di Terra-Santa, per comprendere il piacere che provarono al mio arrivo. Si credettero in salvo per la presenza di un solo Francese. Rimisi al Padre Bonaventura di Nola, Custode del convento, una lettera del generale Sebastiani. «Signore, mi dice il Custode, è la Provvidenza che vi ha guidato fino a noi. Avete delle ordinanze di strada (rilasciate dall’autorità turca)
[5]? Permetteteci di inviarle al Pascià; saprà che un Francese è disceso al convento; crederà che noi abbiamo una protezione speciale dell’Imperatore. L’anno scorso ci costrinse a pagare 60.000 piastre, secondo ciò che è in uso, noi gliene dobbiamo soltanto 4.000, ancora a titolo di semplice offerta. Quest’anno vuole riuscire a strapparci la stessa somma e ci minaccia di usare tutta la forza in suo potere, se noi ci rifiutiamo. E poiché da quattro anni non riceviamo più nessuna offerta dall’Europa, ci vedremmo obbligati a vendere i vasi sacri: se andiamo avanti così, saremmo costretti ad abbandonare la Terra-Santa e lasciare ai Maomettani la Tomba di Gesù Cristo.” [6]

In tutto il suo Itinéraire, Chateaubriand non perde occasione per elogiare le istituzioni cristiane preposte ad ospitare i pellegrini; ne celebra il coraggio, il martirio e la generosità poiché il viaggiatore che si trovasse a visitare i luoghi santi, potrà sempre trovare in esse: carità, amicizia e aiuto.

Toccanti istituzioni cristiane grazie alle quali il viaggiatore trova degli amici e dei soccorritori nei paesi più barbari; istituzioni di cui ho già parlato altrove e che non saranno mai abbastanza ammirate.”
[7]

Ma i pellegrini latini, continua a raccontarci Chateaubriand, non sono poi così tanti. I più numerosi sono quelli greco-ortodossi, armeni ed ebrei. Pochissimi sono invece i pellegrini cattolici latini che giungono a Gerusalemme: una ragione, questa, per cui i Francescani vivono una situazione di difficoltà sia economica che politica, nei confronti dell’autorità turca, verso la quale Chateaubriand spende, il più delle volte, parole e giudizi molto negativi.
Per di più - egli continua - i pellegrini che giungono a Gerusalemme non sono ricchi, sicché non possono lasciare grandi offerte. Per suffragare il suo racconto, Chateaubriand riporta, come è solito fare nel suo Itinéraire, la testimonianza dei tanti che l’hanno preceduto, tra questi troviamo Jean Doubdan, noto pellegrino del XVII° secolo, che egli cita testualmente:

I Religiosi – è Jean Doubdan che scrive - che vi dimorano (nel convento di San Salvatore) e che militano sotto la regola di San Francesco, conservano una strettissima povertà, vivono soltanto di elemosine e carità che la Cristianità invia loro e che i pellegrini donano loro, ciascuno secondo le proprie facoltà; ma poiché questi sono ancora lontani dal loro paese, non sanno ancora le grandi spese che dovranno affrontare per il ritorno, cosicché lasciano loro poche elemosine; ma ciò non impedisce che essi siano ricevuti e trattati con grande carità
[8]

Come abbiamo già sottolineato più volte, Chateaubriand è un vero e proprio difensore, non solo della fede cristiana, ma di tutti i Religiosi, soprattutto quelli cattolici, chiamati a custodire i luoghi santi. Persone che, costrette a vivere lontano (a quel tempo erano occidentali, per lo più italiani, francesi e spagnoli), sanno comunque serbare generosità e gentilezza verso tutti i pellegrini che vengono a chiedere loro ospitalità, che non sempre viene ripagata come si converrebbe.

Parliamo ora dei pellegrini. Le narrazioni moderne hanno un po’ esagerato le ricchezze che i pellegrini devono diffondere al loro passaggio in Terra Santa. E innanzitutto di quali pellegrini si tratta? Non sono pellegrini latini, giacché non ce ne sono più, e tutti generalmente concordano. Nello spazio dell’ultimo secolo, i Padri di San Salvatore hanno forse visto non più di 200 viaggiatori cattolici, compresi i Religiosi dei loro Ordini, e i missionari nel Levante. Che i pellegrini latini non siano mai stati numerosi, lo si può provare con mille esempi
[9]

Per di più i pellegrini cristiani devono sempre sostenere molte spese per i diritti di passaggio che devono pagare ai Turchi o agli Arabi: per l’ entrata ai luoghi santi, pedaggi etc…Chateaubriand sopporta male questo aspetto: ne è addirittura indignato. Diverse volte troviamo nel suo Itinéraire, una lista ben dettagliata delle spese di viaggio, e del soggiorno a Gerusalemme:

Spesa solita che fa un pelerino en la sua intrata da Giaffa sin a Gerusalemme, e nel ritorno a Giaffa
Cafarri:
in Giaffa dopo il suo sbarco Cafarro 5 piastre e 20 para
in Giaffa prima del imbarco al suo ritorno 5 piastre e 20 para
Cavalcatura sin a Rama, e portar al Avaro, che accompagna sin a Gerusalemme 1 piastra e 20 para
Pago al Aravo che accompagna 5 piastre e 30 para
Pago al vilano, che accompagna da Gérasma 5 piastre e 30 para
Cavalcatura per venire da Rama ed altra per ritornare” 10 piastre
[10]
(Etc.. aggiungo io che non ricopio tutto!!)

Oltre alla povertà, Chateaubriand si sofferma a ricordare il martirio subìto dai religiosi: la lista è talmente lunga che sarebbe “abusare della pazienza del lettore” per raccontare tutte le sofferenze sopportate. Le sue fonti non sono solo i viaggiatori che l’hanno preceduto, come Jean Doubdan (XVII secolo), ma è anche il registro dei firman
[11] dei francescani a rivelarsi una fonte preziosissima per conoscere le angherie, le umiliazioni e le sofferenze che questi frati hanno dovuto sopportare negli anni, o meglio nei secoli. E sebbene ne restino pochi fogli, perché sono andati bruciati in occasione di qualche assalto o devastazione da parte dei Turchi, ne restano a sufficienza per testimoniare la loro grande fede.
E oltre alla sorpresa di scoprire questo “catalogo evangelico” vedere che questi firman sono stati ottenuti su sollecitazione dell’ambasciatore di Francia inorgoglisce ancor di più il nostro aristocratico francese.

Confesso che la mia ammirazione per sì tante sofferenze così coraggiosamente sopportate era davvero grande e sincera; ma quanto rimasi colpito nel ritrovare di continuo questa formula: Copia di un firman ottenuto per sollecitazione dell’Ambasciatore di Francia, etc.! Onore a un paese che, dal cuore dell’Europa, veglia fino in fondo all’Asia, per la difesa del povero, e protegge il debole contro il forte! Mai la mia patria è parsa ai miei occhi così bella e gloriosa, se non quando ho ritrovato le gesta della sua beneficenza nascoste a Gerusalemme nel registro in cui sono iscritte le sofferenze ignorate o le iniquità sconosciute dell’oppresso e dell’oppressore."
[12]

Siamo nel 1806, Napoleone è diventato da poco imperatore (1804) e la campagna d’Egitto ha già avuto luogo. Chateaubriand, nonostante sia ben contento di poter essere utile al Custode di Terra Santa (che come abbiamo visto gli chiedeva espressamente di far avere al più presto i firman al Pascià di modo che questi venisse a conoscenza che essi godono della protezione dell’Imperatore), lo prega vivamente di attendere qualche giorno, perché vorrebbe recarsi subito al fiume Giordano e a Betlemme: una volta rientrato, non avrebbe esitato a inviare le ordinanze al Pascià, come richiestogli dal Custode.
Per recarsi fino al Giordano e a Betlemme, il francescano mette a disposizione dei due viaggiatori francesi una guida turca: Ali-Aga, la quale consiglia ai due pellegrini di indossare nuovamente i loro vestiti francesi, poiché essi hanno il potere di suscitare timore e rispetto nei confronti della popolazione del luogo.

I nostri due pellegrini si accingono a partire, ma mentre Chateaubriand si prepara per la partenza, sente un canto salire dalla chiesa del monastero. In quel momento, si ricorda che non solo è il giorno di San Francesco ma è anche il suo onomastico! Allora si precipita a pregare per sua madre, “per colei che un tempo mi aveva dato la vita
In chiesa, si commuove nel vedere questi religiosi cantare lode a Dio in un luogo che dista poco più di 300 passi dal Santo Sepolcro: “Mi sentivo toccato alla vista di questa debole ma invincibile milizia rimasta sola per la custodia del Santo Sepolcro
[13]

Sembrerebbe che lo spirito crociato non si sia ancora spento nell’animo di molti cristiani europei. Mentre, oggi, molti cristiani arabi stanno fuggendo dal Medio oriente: è un esodo che non sembra volere arrestarsi. Dov’è la grande stampa europea cristiana Kattolica? Perché non ci narra delle vere tragedie che si stanno consumando in questi giorni?
Perché i nostri vescovi sono sempre lì a gridare alla chiesa aggredita e non si ricordano di difendere e sostenere le migliaia di cristiani che, non vedendo più possibilità di una vita dignitosa, decidono di emigrare? Perché i nostri vescovi e politici Kattolici sono così tiepidi al riguardo?

Consiglio vivamente la lettura del sito:
http://www.terrasanta.net/ e http://www.custodia.org/ (sito della Custodia di Terrasanta).
E qui mi sento un po’ “Chateaubriand”: davvero non deve essere facile per i frati francescani, ma anche e soprattutto per tutti i cristiani (cattolici e non), vivere in Medio Oriente di questi tempi.

Un altro sito che consiglio, per tutt’altri motivi, è un sito messo in rete dalla Bibliothèque Nationale de France dove è possibile trovare documenti, fotografie e testi che raccontano il Voyage en Orient del XIX° secolo.
http://expositions.bnf.fr/veo/index.htm
NOTE AL TESTO
Le traduzini dei brani qui riportati sono opera della sottoscritta.
[1] Ramla o Ramlé o Al- Ramla da non confondere con Rama vicino a Betlemme. E’ stata la capitale musulmana nel VII sec nell’ l’antica Arimatea. Si trovava sulla strada che da Jaffa (oggi Tel-Aviv Jafo) portava a Gerusalemme. Dal 1948 fa parte dello Stato di Israele e ha preso il nome di Ramlah. La popolazione è sia ebrea che araba. Nel sito della Nakba palestinese, essa è ancora ricordata come terra perduta (http://www.palestineremembered.com/al-Ramla/al-Ramla/SatelliteView.html).
[2] Guida interprete
[3] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp. 292-293
[4] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, op.cit., pp 389
[5] Si tratta dei “firman”: un firman è un decreto reale emesso dal sovrano di alcuni paesi islamici che includono l’Impero Ottomano, l’Impero moghol o l'Iran durante il periodo monarchico. La parola firman viene dal persiano farmân e significa "décreto" o "ordine". In turco, viene chiamato un ferman. (informazione tratta dal sito fr.wikipedia.org)
[6] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp. 299
[7] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp. 281
[8] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp 419
[9] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp 413
[10] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp 415
[11] Vedi nota 5.
[12] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp 423
[13] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp 300