Christian Bobin, Une histoire dont personne ne voulait, nel suo vol. Une petite robe de fête, "Collection Folio" Gallimard, Paris 1991, pp. 13-21. (Nel 2008, una giovane casa editrice di Padova Camelopardus ha pubblicato il volume Une petite robe de fête: Mille candele danzanti)
Traduzione di Maddalena Cavalleri con la collaborazione di Lorenzo Gobbi.
Il manoscritto è sciupato. C’è una data nell’ultima pagina. Cinque anni. È stato scritto cinque anni fa. Vi arriva per posta. Lo lasciate in disparte, sul tavolo, non ci pensate più. Arriva il sabato. Il sabato è un giorno in cui siete molto occupato: fate da autista a un gruppetto di bambini. Vogliamo andare qui, vogliamo che ci porti alla festa, vogliamo questo, vogliamo quello, vogliamo tutto. Obbedite con grande gioia, facendo disperare i genitori che impiegano ore a contraddire quell’aria spensierata che portate con voi. La vita scorre così veloce, i giorni si dileguano così presto. Perché preoccuparsi del domani, l’oggi risponderà bene a tutto. Non aver pensieri è più forte di voi: una forma sorridente della fede in dio. Non insegnate nulla ai bambini. Piuttosto, siete voi alla loro scuola. A volte vi dicono tu esageri, non si deve lasciar fare tutto, dovresti essere più adulto. Ascoltate la lezione in silenzio, poi vi guardate attorno, a lungo: non una sola traccia di adulti. Bambini imbronciati, sì, molti. Bambini tristi che lavorano, guadagnano, consumano tempo, forza. Ma adulti, nessuno, nessuna traccia. Quel sabato, i bambini fanno a meno di voi, non chiamano. Rimanete a casa, inoperoso, tranquillo. La compagnia della solitudine è dolce come quella dei bambini. Leggere, sonnecchiare, camminare, non pensare a nulla, lasciare le luci del cielo impallidire sulla tappezzeria dei muri. Distrattamente, aprire il manoscritto alla prima pagina, cominciare a leggere. Quando levate il capo, il pomeriggio è trascorso, non è più giorno e non è ancora notte, resta solo una grande distesa di calma: un lento riaffiorare delle acque dalla calma, un’inondazione continua e luminosa. I pensieri dimorano in questa calma, al proprio culmine, un culmine di freschezza e leggerezza: non conoscono più l’impazienza. Non si turbano più. Riposano semplicemente e si mescolano a ciò che esiste, senza più cercare. Come chiamare questa leggerezza. La parola felicità non andrebbe bene: nessuna parola che porti in sé il suo contrario. La felicità va con l’infelicità, la gioia con il dispiacere. Ciò che vi accade, non va con nulla, oppure con tutto. Per esprimerlo bene, bisognerebbe ricopiare il manoscritto per intero: parola per parola. L’autrice è una donna di origine straniera. Non è lei a inviarvi il testo, ma il suo amico, l’amico di adesso. Non vi chiede nulla, solo cosa ne pensate. Un manoscritto è come un volto, un minuto basta per vedere, due, tre pagine e già sapete. Il racconto inizia con un abbandono, come nei racconti di fate: colui che questa donna ama, il principe prescelto dal sangue, il re di cuori, la lascia. La conduce nella più nera foresta dell’abbandono, poi se ne va. Lei resta là, seduta ai piedi di un albero. Attende. Attende, attende. Un mattino si alza, esce dalla foresta, entra in cucina, chiude la finestra, apre il gas. Una giovane donna che cade a terra e la sua anima che cade al suo fianco, l’anima pesante, più pesante di un uccello morto: la bianca colomba asfissiata dal gas, soffocata dal peso del suo stesso sangue. La giovane donna si risveglia all’ospedale. Si appoggia ai guanciali, guarda attorno a sé, guarda dentro di sé: niente più anima. Il corpo è là, funzionante. Le mani possono prendere, le labbra possono dire, gli occhi possono piangere. Tutto è là, eccetto l’anima. Il suo amico la deve aver portata via con sé in valigia senza badarci. Come si può essere così distratti. Lei lascia l’ospedale, torna alla vita di tutti i giorni. E sempre, niente anima. Ciò non si vede, non si sente, non impedisce nulla. Si può vivere benissimo senz’anima, non c’è di che farne una storia, accade spessissimo. Il solo problema è che le cose non vengono più verso di voi, quando le chiamate per nome. Potete essere assente dalla vostra vita e ingannare tutti eccetto gli animali, gli alberi, le cose. Tutti, eccetto la chiara luce d’autunno, questa luce che pesa con tutta la sua dolcezza sulla corteccia delle betulle e la carne dei rosai. Come raggiungere ciò che svanisce. Come toccare la vita immediata, come tornare alla vita semplice. Sì, come. L’amore è passato sopra di voi come i rossi incendi sulle foreste di Provenza. Ci vorranno anni prima che l’erba ricresca, prima che un nuovo amore ritorni a popolare i luoghi della sciagura – e i luoghi della sciagura siete voi, interamente voi: dal vestito di cotone ai pensieri proibiti, dal sapore del tè alla malinconia della primavera. Voi, interamente voi. Come fare. Innanzitutto cominciare dal più urgente: non potete più continuare a uscire così, senz’ anima da indossare, senza sorriso in fondo agli occhi. Sì, proprio i vostri occhi. Parliamone. Riescono solo a piangere e quando non piangono, leggono e un giorno leggono una pagina di Rilke, poi un’altra, poi un’altra ancora e tutti gli uccelli dell’anima ritornano a voi quando aprite la voliera d’inchiostro. Il vostro suicidio era riuscito, come tutti i suicidi mancati. Avevate perduto molto più della vita: la parola, il sapore della parola chiara, l’amore della parola vera. Eravate davanti alla parola come un bambino malato davanti al cibo. Rilke vi ridà da mangiare, una poesia dopo l’altra, un’immagine dopo l’altra. Con la parola nuda ritorna la verità. Con la verità ritorna l’anima. Colei che vive questa storia desidera raccontarla – per ringraziare. Allora scrive una lunga lettera a Rilke, una lettera che inizia nella piccola cucina buia e termina in fondo al giardino sotto la luce dei tigli. Storia di una lenta rieducazione, storia di una lunga migrazione di uccelli morti. Ha l’abitudine di scrivere. Qualche anno prima ha scritto libri che hanno conosciuto il favore degli editori e dei lettori. Si nascondeva molto di più dietro a quei libri ma la storia era la stessa, quella di una risurrezione. Di una morte e poi di una risurrezione. Scrive come si deve scrivere: senza preoccuparsi della scrittura ma avendo la massima cura di ciò che non affiorerà mai sulla pagina bianca, di ciò che la minima parola spaventerebbe – la vita, la vita, interamente nuda, la vita senza frasi, la vita come due bambini piccoli, la gioia e il dolore stretti l’uno all’altro nello stesso letto. I dizionari dicono che Rilke è uno dei più grandi poeti di lingua tedesca. Lei non scrive secondo i dizionari. Non si rivolge a chi è morto ma a chi è vivo e cammina con passo esitante nelle vie delle grandi città. Il suo nome non è ancora stato iscritto nei dizionari. Il cuore non è ancora congelato nella gloria. E’ un passante come gli altri, nell’incertezza e nell’esitazione della vita. Di giorno dorme, il sonno comune dei lavori necessari. Di notte veglia, la veglia speciale in compagnia degli angeli. Quando scrive, non cerca la consolazione ma la verità – che è il contrario della consolazione. È a quest’uomo che lei parla. Cosa vuol dire “grande poeta”. Non vuole dire nulla, assolutamente nulla. L’unica grandezza di chi si nasconde per scrivere viene dalla perfetta sottomissione alla vita così com’è. Chi, per notti intere, cerca la parola giusta, non fa che sviluppare in sé l’attenzione che hanno gli amanti l’uno per l’altro, le madri per i loro figli. L’arte, il genio dell’arte è soltanto ciò che resta della vita amorosa che è la sola vita. Grande, poeta, letteratura: non vogliono dire nulla e lei ha scritto a Rilke come daremmo notizie a un amico d’infanzia rimasto al paese – l’amante di ogni vita, l’idiota di ogni villaggio. Gli parla del gas nella piccola cucina, della luce delle stagioni, della bontà dei grandi alberi e di ciò che crede essere amore – di ciò che inventa credendolo. Finito il manoscritto, lo invia agli editori e gli editori le dicono: la sua storia non interessa, non si sa come prenderla, dove collocarla. E poi di chi parla, esattamente, di Rilke o di lei. Scelga, è seccante vederla saltare qua e là, da una parola all’altra. Ci prova ancora. Due volte, tre volte la stessa risposta. Rinuncia. È quasi guarita. Quasi: nel dolore ha trovato il canto. La sofferenza si è riversata nel dono del libro, ma questo dono nessuno lo vuole. Trascorrono gli anni, cinque. Non ci pensa più, ci pensa ancora. Per vie strane, per altre mani diverse dalle sue, questo testo giunge fino a voi, un chiaro sabato d’autunno. La lettura di quel sabato impregna i giorni che seguono. Scrivete all’autrice, lei vi risponde. Le lettere conoscono lo stesso destino del manoscritto: una sola lettura basta a renderle indimenticabili. Sempre la stessa voce calma. Sempre l’assenza di menzogna. Non una volta fa sua la parola generica, la parola di nessun corpo, di nessuna terra che serve per le idee, che serve per la menzogna. Parla solo di sé nei dettagli delle proprie ore e vi fa vedere il mondo molto più chiaramente di quanto non facciano i giornalisti, impazienti nella voce, malati di intelligenza. Ciò che vi colpisce in quella scrittura, è ciò che vi colpisce nella compagnia dei bambini: una presenza vera di tutto, un modo di essere nel mondo che rende il mondo leggero. Un giorno vi scrive che il suo libro finalmente è accettato: sarà pubblicato lontano da lei, in Germania, in una lingua che ha sempre temuto, in una terra che non è quella dell’infanzia. Un altro giorno, mentre passate la mano su una tovaglia di cotone per togliere le pieghe, vi giunge luminosa, evidente, un’immagine di lei. Come se fosse tutta in questo gesto semplice: dispiegare. Cancellare tutte le pieghe e tornare al più ampio, all’ininterrotto, all’ampia e ininterrotta dolcezza di vivere. Restate così per molto tempo, immobile, silenzioso, la mano distesa sulla tovaglia, tenendo tra le dita e il cotone questo bene, il più prezioso: un’anima bruciata fino alla trasparenza, una storia che nessuno voleva.
Il racconto è tratto da Une petite robe de fete (1991). Nel 2008 è stato (finalmente!) pubblicato in Italia dalla casa editrice Camelopardus. Il titolo è Mille candele danzanti.
1 commento:
ho sentito lorenzo gobbi parlare di questo racconto ad uomini e profeti. tutta la conversazione è stata una rivelazione, ma non vi annoio, vi chiedo: è il testo integrale del racconto?
grazie
mauro
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