venerdì 2 novembre 2007

L’INFANZIA E L’ATTENZIONE SONO INCHIOSTRO PER I LIBRI DI CHRISTIAN BOBIN.

Leggendo le prime pubblicazioni, che risalgono ormai a più di vent’ani fa, ci si rende conto che Bobin è hanté, ossessionato dalle ragioni dello scrivere e del leggere. I suoi scritti sono pieni di definizioni al riguardo. Egli non vuole proprio appartenere alla categoria degli scrittori “professionisti”: ovvero a quelle persone che sentono di aver raggiunto un traguardo e, per questo, si pongono al di sopra degli altri e della stessa vita. Per lui lo scrivere non è un mestiere e se lo si vuole considerare tale allora c’est un métier d’enfant. L’infanzia è fondamentale perché è il regno dell’attenzione – come l’intendeva Cristina Campo. “Se ci fosse per me una saggezza, - scrive Bobin - sarebbe l’arte di esserci pienamente, con un’attenzione estrema, costante. E’ per questo che i bambini mi affascinano, per questo dono che hanno di esserci pienamente nel puro presente. Ho una profonda complicità con loro.»[1] Il bambino è in grado di vedere. L’adulto – ognuno di noi ne fa esperienza - di rado. Bobin ci invita, con garbo e delicatezza, a riconoscere il valore della nostra vita. Parole come “luce”, “gioia”, “presenza pura” sembrano essere disseminate nei suoi libri in modo così vasto quasi a voler accompagnare, con estrema delicatezza, chi legge, a se stesso; all’attenzione, all’importanza dell’esserci pienamente: alla purezza dello sguardo.
Di una giovane donna che vive una vita che non è la sua, scrive: “Ora, tutto quello che aveva vissuto era avvenuto in sua assenza, lontano da lei. È una cosa che accade spesso: si può rimanere per dieci anni celibi in un matrimonio. Si può parlare per delle ore senza dire una parola. Si può andare a letto con la terra intera e rimanere vergini.”[2]
Si può dichiarare al mondo “sono uno scrittore!”, si possono pubblicare anche dei libri, ma non è questo che fa, secondo Bobin (e qui si può essere d’accordo oppure no), uno scrittore. Per lo meno non per lui.
Tra le tantissime frasi disseminate nei suoi libri a questo proposito, ne scelgo solo alcune:

Ho impiegato 43 anni per pensare e pronunciare questa frase: faccio lo scrittore” (La lumière du monde)
Io attendo sempre una presenza: la mia e quella dell’altro” (La lumière du monde)
Non si scrive per diventare scrittore. Si scrive per raggiungere in silenzio quest’amore che manca ad ogni amore”. (La part manquante)
Ciò che impariamo dai libri, è la grammatica del silenzio, la lezione di luce
I giorni in cui non scrivo sono quelli più numerosi” (L’épuisement)
Quando inizio a scrivere, la scrittura è già là, pronta, aspetta solo di essere ricopiata. Altrimenti è inutile – inutile cercarla, chiamarla, volerla.” (L’épuisement)
Preferisco la vita alla scrittura. Amo la scrittura quando è al servizio della vita. Leggere per divenire colti, che brutta cosa. Leggere per riunire la propria anima nella prospettiva di un nuovo slancio, che cosa meravigliosa.” (L’épuisement)

Bobin non ama una scrittura autoreferenziale: niente orpelli né narcisismi o intellettualismi: una persona che ha il dono dello scrivere non si deve prender troppo sul serio e porre la propria scrittura, ma anche la scrittura in generale, al di sopra della stessa vita. Egli sembra voler difendere soprattutto se stesso da questo rischio:
un passero si è posato sul bordo della finestra, mi ha guardato con curiosità non priva di canzonatura, chiedendosi cosa potesse occuparmi così tanto. E’ volato via quando ha capito che si trattava soltanto della scrittura di un libro” (Ressusciter)

Ma un vero scrittore è qualcuno che viene a casa mia e che scosta dal mio tavolo le cose che mi impedivano di vedere[3]. È ciò che Rilke compie a casa della protagonista del racconto Una storia che nessuno voleva

Io vivo, come tutte le persone di questa città, dentro il gigante (le officine Schneider n.d.r.), in una parte del suo corpo, all’estremità di un suo dito, poiché il mio appartamento si trova in una delle periferie della città. E scrivo. E sono incapace di prendere sul serio questa attività che è da sei anni, l’unica della mia vita che mi dà abbastanza denaro per vivere e dormire un vero sonno, profondo. Ieri sono andato a pagare le tasse. Davanti a me c’era un disoccupato. Stavo per pagare e quello che avrei pagato non avrebbe tolto nulla al mio sonno. Lui, più o meno della mia età, chiedeva che non gli prendessero quel poco che gli rimaneva. Perché c’è una tale differenza tra le persone? Tra le loro fortune? Non mi dispiace vedere i miei libri portarmi pane e sonno. Prendo quel che mi danno. Ma vedendo quell’uomo ho pensato che non sopportavo gli scrittori quando parlano, con l’aria dei martiri, della sofferenza dello scrivere, della difficoltà del loro lavoro. Un lavoro è quello che un giorno può esservi tolto. Conosco scrittori poveri, ma non ne conosco nessuno disoccupato: privato dello scrivere – e dunque della gioia, perché, non raccontiamo storie, quella di scrivere è una gioia pura, e qualsiasi altro discorso al riguardo è disgustoso. [4]

Inutile aggiungere che concordo pienamente.

[1] Christian Bobin, La lumière du monde. Paroles réveillées et recueillies par Lydie Dattas, "Collection Folio" Gallimard, Paris 2001, p.111 «S’il y avait pour moi une sagesse, ce serait: l’art d’être là pleinement, avec une attention extrême, soutenue. C’est pour cela que les enfants me fascinent, par ce don qu’ils ont d’être pleinement là, dans le pur présent. J’ai une profonde complicité avec eux»
[2] Christian Bobin, L’inéspérée, Editions Gallimard 1994, p. 88
[3] Christian Bobin, La lumière du monde, 2001 p.73.
[4] Christian Bobin, Autoritratto, San Paolo 1999, p.64

3 commenti:

Angela ha detto...

Maddalena grazie per farci partecipi tutti attraverso il tuo amore per la parola di Bobin, di un pensiero così poetico, intuitivo, denso di vita.
Nel mio blog, creo ora un link al tuo.
Buon lavoro.
angela

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

good start