lunedì 26 novembre 2007

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap. II - LA CORTE




A Saint-Dié-sur Loire, Bella e Marc Chagall si rifugiano per sottrarsi alle persecuzioni naziste. Nel 39, a più di cinquant’anni, Bella inizia a scrivere la sua infanzia: racconta con gli occhi della bambina di nove anni, tutta immersa nel mondo di Vitebsk: la famiglia, i giochi con i fratelli, le persone, gli animali della corte, le voci del quartiere, i negozi, il tempo e le stagioni scanditi dalle feste.
Volti e voci che si sono rincorsi fino a giungere nella mia casa. E nella mia vita.
Leggo in una lingua “balbettante” – è la stessa Bella a definirla così. Tra le tre lingue che conosce (russo, francese, yiddish), scrive in yiddish. Forse perché è la lingua nella quale sente risuonare, con più nitidezza, tutto il suo mondo. Sarà poi la figlia Ida a tradurre la versione in francese per l’edizione svizzera del 1948 (la prima edizione fu infatti quella in yiddish del 45).
Chagall riuscì a pubblicare le memorie di Bella subito dopo la guerra, fu la casa editrice Svizzera Trois collines che diede vita, nel 48, alla prima edizione in lingua francese di Lumières allumées.
Bella, molto probabilmente, non vide mai il suo libro pubblicato: morì nel 41 negli Stati Uniti, qualche anno prima della fine della guerra.

Ricordo ancora quando ricevetti il plico di Lumières allumées che avevo ordinato su internet presso le librerie di libri ormai introvabili e di un certo pregio. Nessuno lo aveva ancora sfogliato, ero la prima! Le pagine ben chiuse tra loro, dovetti usare un tagliacarte per aprirle. Poi decisi di farmi arrivare anche l’edizione di Gallimard del 73: si tratta di un’edizione riveduta e corretta per gli errori e le imprecisioni dovuti probabilmente alla “fretta” di pubblicazione. Ma quando decisi di iniziare a tradurre il libro di Bella, scegliemmo l’edizione del 48(non posso non consultarmi con Lorenzo per queste cose!). Ci sembrava più incontaminata, più autentica; come se nell’edizione del 48 ci fosse ancora quel timbro imperfetto, balbettante della bimba di nove anni che ha tentato a raccontare un mondo, nella lingua che ha conosciuto, probabilmente, solo l’infanzia.
Il francese che ne risulta è semplice. Le immagini sono serene. Il timbro della voce nitido.
Ho cercato di riprodurne il balbettio.
Non so se ci sono riuscita.

Ho già inserito nella mia bibliothèque de nuages, il capitoletto Eredità che introduce Luci accese e un’introduzione su Bella Chagall e il suo mondo, scritta da Lorenzo.

Luci accese è composto dai seguenti capitoli (quelli in grassetto li ho già tutti tradotti!):
I. EREDITA’
II. LA CORTE
III. AI BAGNI
IV. LO SHABBAT
V. IL PRECETTORE
VI. L’ANNO NUOVO
VII. IL GRANDE PERDONO
VIII. LA FESTA DEI TABERNACOLI
IX. LA FESTA DELLA TORAH
X. LA PRIMA NEVE
XI. LA LAMPADA DI HANNUKKAH
XII. LA QUINTA CANDELA
XIII. I REGALI DI HANNUKKAH

XIV. IL NEGOZIO
XV. I REGALI DI PURIM
XVI. IL LIBRO DI ESTHER
XVII. I COMMEDIANTI DI PURIM
XVIII. L’ORA DEL PRANZO
XIX. LA CACCIA AL LIEVITO
XX. LA VIGILIA DI PASQUA
XXI. IL BANCHETTO DI PASQUA
XXII. IL PROFETA ELIA
XXIII. L’AFFIKOIMEN
XXIV. TISHAH B’AV
XXV. UN MATRIMONIO

Questa sera riporto il secondo capitolo intitolato:
2. LA CORTE
Durante il giorno, dopo mangiato, la casa resta sola. Tutti se ne vanno.
E’ grande, e non c’è nessuno. Si potrebbero addirittura lasciar entrare la capra dalla corte o le galline dal pollaio.
Dalla cucina soltanto, si sente il rumore del lavare dei piatti.
“Hai spazzato la sala da pranzo?”
La voce, con una lunga scopa in mano, fa volare Sacha fuori dalla cucina.
Un “Cosa fai qui?” mi piomba addosso.
“Nulla!” rispondo sempre.
“Esci! Devo spazzare!”
“Chi te lo impedisce? Spazza!”
Lei spazza il pavimento e, con la polvere, si porta via le ultime voci che sono risuonate nella stanza. La sala da pranzo si fa fredda.
I muri, di colpo, diventano vecchi. Puntano dritto agli occhi con la loro carta sbiadita. Sembra che anch’io sia di troppo.
Dove mettermi?
Vago per la casa. Entro nella camera da letto. I letti piccoli di papà e mamma intimoriscono con il loro metallo scintillante. I pomelli massicci di nickel e le sbarre della testata del letto li custodiscono davanti e dietro, come soldati di guardia. Ti avvicini e il nickel ti mitraglia con la sua luce metallica. Lancio loro uno sguardo: faccio una smorfia e storco il naso. Fuggo e vado a sbattere contro una porta chiusa.
Avevo completamente dimenticato che c’è una sala.
La porta è sempre chiusa.
Ho persino paura di questa stanza.
Dal tempo del matrimonio di mio fratello – a causa della famiglia della sposa, avevamo sostituito le vecchie sedie viennesi con nuove morbide seggiole – la sala è divenuta estranea, come esclusa dal resto della casa.
E’ scuro nella sala.
Sul divano è distesa – come fitto muschio – una grande stoffa verde. Appena ci si posa sopra – fosse anche solo il gatto – le molle, come se fossero sempre sofferenti, gemono: non possono sopportare che qualcuno le prema.
Il tappeto è verde, come se crescesse l’erba.
E i pochi fiori rosa ricamati al centro sembrano allontanarvi, simili all’ombra (parvenza) di un piede che non lasci passare nessuno. (p. 16)
Persino lo specchio stretto e alto è divenuto verde. I mobili verdi, giorno e notte, vi si riflettono.
In piedi, solitaria, vicino alla finestra, una vecchia palma s’inaridisce in una verde oscurità.
La finestra, sovraccarica di tende, è sempre chiusa e la palma non vede mai il sole.
A mo’ di sole, luccicano due candelabri di bronzo che si ergono in un angolo su alti treppiedi. Dai bracci spuntano corte candele bianche mai accese.
Dal soffitto scende un lampadario, ugualmente di bronzo, che solamente piccoli, vibranti cristalli bianchi rendono vivo.
Di notte, la palma pensa che qualcosa brilli per lei nel cielo-soffitto e che alcune stelle filtrino dai piccoli cristalli tremolanti.
Deve essere più forte del bronzo, questa palma, per resistere giorno dopo giorno, mesi, anni…
Nessuno si attarda nella sala. Ciascuno, molto velocemente, la attraversa come una passerella, da una stanza all’altra.
Se papà al mattino ci va a pregare con lo scialle di preghiera e i filatteri, pensa di essere uscito a pregare all’aperto, magari in un campo verde.
Quando, durante la giornata, torna per cercare un libro, non si guarda nemmeno intorno.
L’armadio dei libri è l’unica vestigia dei mobili che erano nella sala. E’ rimasto là, dove è sempre stato: in una sala, vicino alla porta. Zeppo di volumi, non ha potuto probabilmente essere spostato. Silenzioso, assorto nei suoi libri, l’armadio s’innalza come se non avesse legami con la vita della casa.
Mi avvicino come farei con un vecchio familiare. Lo tocco, i suoi piedi cominciano a cigolare. E’ duro per loro sostenere l’intero armadio. Do un’occhiata attraverso le ante a vetri: mensola su mensola, una sull’altra, ciascuna sembra una cappella.
Su di una poggiano, di schiena, in rilegature nere ben chiuse, alte, eleganti Ghemoràh, come vecchi ebrei schierati davanti a un muro per le Diciotto Benedizioni.
Su un’altra, sono in bella mostra grandi bibbie, Machzòr, Siddùr e salteri. Sugli ultimi ripiani stanno impilati tanti libri di preghiera da donne: sembra che ne esca un bisbiglio. Tutti paiono turbarsi per il fatto che li guardo.
Fuggo via: mi gridano dietro come il mio vecchio bisnonno gridava contro mia madre: perché mi insegnavano il russo? Perché non prendevano piuttosto un buon precettore per insegnarmi lo yiddish?
Oh! E’ vero, mi ricordo – il mio piccolo rabbino con il quale mi addormento sull’alfabeto, deve venire subito! Bisogna che fugga.
“Bachka.” Sacha mi ferma. “Dove corri come una matta?”
Le rispondo: “E’ affar tuo? Da nessuna parte!”
Mi precipito nella corte.
Il passaggio, benché di ferro, si piega sotto i piedi. Le lame sottili sono molto distanziate; i talloni si incastrano negli interstizi.
La facciata è alta. Da cima a fondo le scale salgono, scendono, si srotolano una sopra l’altra: le ringhiere, come con delle catene, le tengono ferme.
Le scale di sopra portano alla soffitta a vetri dove vive un fotografo.
Le scale di sotto scivolano verso il basso, si fermano quasi in mezzo alla corte.
Sotto l’ultimissimo gradino, sono a casa.
E’ qui che gioco, qui è il mio negozio, qui stanno ad asciugare i miei patè di sabbia bagnata. Qui sono schierate vecchie scatole di sardine che adesso sono piene di farina, d’avena e di ogni sorta di pietruzze, di cocci di vasi rotti, di vetri colorati. Tutto quello che trovo nella corte, tutto quello che metto al riparo da un piede straniero.
La corte, piccola, quadrata, è come incastrata entro alte mura. Là vive un mondo. Il sole non vi arriva. In alto, una macchia di cielo risplende. Dai muri cadono dei brandelli di ombra.
Tutto intorno stanno le finestre, le porte del grand hotel Brozi. Da ogni finestra spunta una testa, e ogni giorno è un’altra testa. Non appena arriva un nuovo ospite, si apre la tenda della finestra.
“Vedi piccola signorina? Sono arrivati dei nuovi clienti.”
Il panettiere, che è venuto a rinfrescarsi nella corte, mi indica la finestra con le tende abbassate.
“Probabilmente, sono appena scesi dal treno e si riposano.
- Non farai rumore nella corte, vero, bambina?” mi dice; si porta via una boccata d’aria fresca e rientra svelto in cucina.
Io, rumorosa?
Non avevo tempo per fargli domande: mi avrebbe detto almeno perché sono stanchi tutti questi che arrivano. E’ il treno che corre, non loro!
Il vecchio panettiere sa che ho paura di lui, paura del suo viso infarinato, del suo alto berretto bianco e del suo grande grembiule bianco.
Io, rumorosa?
Non sono seduta sugli ultimi gradini, zitta e buona? C’è n’è già abbastanza di rumore nella corte, anche senza di me. I domestici dell’hotel zampettano qua e là, vanno e vengono: uno esce, l’altro entra. Trascinano, riempiono, svuotano qualcosa. Alcune vecchie donne della via vengono a vendere uova, galline, panna. Ne nasce una vera baraonda.
Le galline chiocciano, il gatto passa tra le gambe; cerca qualcosa da lappare. Il cane arriva come un bolide, la lingua fuori, la coda in aria; spaventa il gallo che cerca di liberarsi dalle mani che lo tengono. Il gatto si nasconde in un angolo.
Per tutta la corte il cane saltella, fiuta come se fosse l’amministratore che deve render conto al proprietario. I domestici si spingono, si insultano.
“Comprate il gallo!” Supplica la venditrice ambulante.
“Ma vattene al diavolo te e il tuo gallo! E’ più vecchio del padre di Abramo!”
“Mio Dio, cosa dici? Che i miei piedi e le mie mani si secchino (inaridiscano) se mento!”
“Esci di qui, vecchia strega! Capisci quel che ti si dice? Lo capisci?...”
La vecchietta e il gallo tra le sue braccia diventano silenziosi. Se ne sta in piedi, aspetta; forse tra poco la collera dell’uomo si smorza? Adesso attacca con qualcun altro.
“Dove ti sei cacciato, diavolo che non sei altro? Hai spinto la botte in pieno fango! Dove? Cosa? Allora hai bevuto, faccia di cane! Ce l’hai col mondo, tu! Aspetta, adesso ti…”
“Hé! Piotr! Stefano!” gridano dalla cucina. “Possiate arrostire tutti e due! Avete pelato le patate? La cuoca aspetta…”
I due ragazzi rientrano correndo.
“Piotr, prendi i gallo con te!” la venditrice ambulante gli corre dietro. “Mostralo in cucina. Fatelo solo arrostire – c’è da leccarsi le dita, vedrete!”
Nessuno l’ascolta. A gridare, le si svuota il cuore. A capo chino, rimette il gallo nel cesto.
“Gla-a-a-ch-a-a! Vieni qui! Dove se-i-i-i? “
Tutto a un tratto, dalla finestra, spunta fuori una voce lunga come un fischio.
“Gla-a-a-ch-a-a! Vieni qui! Dove ti sei persa? La signora del due ti chiama!”
Solo le lavandaie dell’hotel, che stirano la biancheria vicino alle finestre aperte, non s’insultano. Cantano, come se il calore del ferro riscaldasse loro il cuore. A volte, si direbbe che singhiozzino.
La triste melodia si trascina, si protrae senza fine come la pila della biancheria che si ammassa davanti a loro. Tutt’a un tratto, irrompono nella corte le due figlie del proprietario. Ridono con voce stridula. Mi precipito verso di loro.
Dalla loro bocca sembra schizzar fuori del sangue… gamberi appena cotti crocchiano sotto i loro denti.
“Fi! Che fate? “ Sembra che inghiottano topi sanguinolenti.
“Ivan!” gridano tutte e due verso la stalla aperta. “Porta fuori i cavalli, partiamo tra poco!”
Nella scuderia due cavalli nitriscono come per risposta a un richiamo.
Nere, grasse, le groppe risplendono, lucidate. Piccole gocce di sudore scorrono lungo il pelo. Furiosi, scalciano, agitano le criniere; come ciechi, cercano la sacca di avena che il cocchiere ha appeso al muro.
Si sporgono, sprofondano il muso nella sacca di biada, e ci si addormentano. Solo i loro colli lunghi respirano come una proboscide allungata.
Anche i cavalli e gli stivali del cocchiere risplendono di grasso.
Sta in piedi vicino ai suoi animali e li accarezza.
“Ivan!” Mi rivolgo al cocchiere. “Sei appena tornato dalla città?”
“Il piacere è una cosa, il lavoro è un’altra cosa”, dice Ivan. “Non è vero, cavallo mio?” Ivan da all’animale una vigorosa pacca sul fianco.
I due cavalli fanno uscire un occhio dalla sacca, lanciano uno sguardo al cocchiere.
Perché non li lasciano mangiare?
Sventolano la loro furia sulle mosche che sferzano con la coda.
Le zampe sovraeccitate non stanno mai ferme. Le ginocchia si flettono, poi si distendono. Gli zoccoli raschiano il suolo, vogliono esplorare cosa c’è sotto le zampe. Poco fa , galoppavano per la città. In un batter d’occhio, volavano da una via all’altra. E qui, nella scuderia, al minimo movimento, pesanti catene di ferro serpeggiano dietro di loro, quelle stesse pesanti catene che li legano alla trave.
“H-r-r-r.” Nitriscono mangiando.
“Muu-muu-muu.” Dalla stalla, la mucca sente e muggisce.
Non posso trattenermi. Corro da lei. La scuderia, almeno, è aperta: i cavalli hanno sempre l’ aria fresca. La mucca, invece, è rinchiusa come una ladra in una prigione.
Una bella mucca rossa, e ci si vergogna di lei. La stalla scura, sporca, è in fondo alla corte, vicino alle immondizie. I muri sono sottili. Il minimo soffio di vento li attraversa. La pioggia vi gocciola dentro attraverso piccole fessure. Un grande foro nella porta fa da finestra. Di lì, osservo la mucca. E’ distesa, senza forze, il ventre, le membra sprofondano nella lettiera sporca. Un nugolo di mosche la divora. Non si muove, come se fosse un cumulo di immondizie.
E’ davvero così pigra?
In realtà, sente il ronzio delle mosche; di rado, svogliatamente, alza la lunga coda sottile , tutta indurita dal fango e sferza le mosche.
Di tutto il corpo, solo la testa dà segni di vita. A tratti, un orecchio si drizza o l’altro si piega. Coglie ogni rumore che si sente nella corte. Nella sua calma triste, durante tutto il giorno, rumina lentamente un rumore alla volta.
Il muso è umido: piange, gli occhi colmi di lacrime che rimangono nelle palpebre. A volte, qualcuna scivola lungo le narici.
Non posso sopportare il suo sguardo: come una pietra pesante, pesa sul mio cuore, quasi fossi colpevole della sua prigionia.
Dal foro buio, le sussurro: “Muu-muu…”
“Muu-muu.” Mi risponde in modo greve e mi fissa con gioia serena – qualcuno si ricorda di lei.
Ma sa che non potrei mai liberarla, che non potrei aprirle la porta della stalla.
Di nuovo, china tristemente la testa. Se ne sta distesa fino all’ora della mungitura. Non appena fiuta l’odore della crusca che viene innaffiata per lei con acqua bollente, tira su il ventre gonfio, le gambe, le mammelle e si piazza sulla porta.
Se ne sta lì soffiando col naso, aspetta. Ascolta ogni passo. Sente come Sacha taglia e getta nei mastelli grandi pezzi di barbabietole dalle lunghe foglie, di patate, di carote cotte. Sente come la domestica versa l’acqua bollente e rimesta il mangiare perché la mucca non si scotti.
La lingua a penzoloni. Con i corni, sbatte contro la porta. Appena Sacha apre la stalla, la mucca scappa fuori, viva, agile, battendo le zampe, ciondolando le costole. Pezzi di fango secco le cadono giù. Non guarda nessuno. Con il capo chino, attraversa la corte, come se ce l’avesse con tutti. Ma giunta dove si legano i cavalli in mezzo alla corte, mentre passa, da uno spintone. Forse li vuole punzecchiare perché sono più coccolati di lei.
Sprofonda nel mangime fino al collo, lappa l’acqua, mastica il verde. Dalla bocca, cola e scorre fuori tutto. Le guance ciondolanti salgono e scendono. Il ventre si gonfia come un soffietto.
Alla fine, ancora affamata, lecca la tinozza vuota, con la sua lingua formidabile. E la domestica le si avvicina, le da una pacca sul ventre. La mucca si rianima al tocco della mano calda di Sacha, e si lascia mungere.
“Aspetta, Batchutka, non andartene!” - mi dice Sacha - Berrai presto un bicchiere di latte.”
Sacha sa che non posso sentire quando tira le mammelle della mucca e il latte sprizza e cade giù nel secchio, schiumoso, ribollente.
Mi sembra che il latte sappia di sudore.
“No, Sacha. Non ho tempo. Ecco, viene il maestro. Devo andare a lezione”.
Prendine almeno un goccio.
“Ne prenderò domani…”
E ridendo, fuggo via.
Traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi



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