martedì 20 novembre 2007

LUCI ACCESE di BELLA CHAGALL: cap. XXI. IL BANCHETTO DI PASQUA cap. XXI




Desidero ringraziare Lorenzo, mio marito, perché mi ha sopportato per anni (e continua a farlo ogni giorno!), cercando di aiutarmi a vincere tutte le mie paure e insicurezze riguardo allo scrivere e al tradurre. Con pazienza, mi ha dato coraggio e per tutta una serie di combinazioni, Christian Bobin e Bella Chagall sono stati e, non hanno mai smesso di essere, la mia palestra: un territorio di scuola, allenamento e ascolto. Tanto ascolto. E pazienza di Lorenzo.
Ora è tempo di iniziare a mettere qualcosa di Bella Chagall anche nella Bibliothèque de nuages.


Il banchetto di Pasqua nella memoria di Bella Chagall (testo introduttivo di Lorenzo Gobbi)

A Vitebsk, in Bielorussia, una ragazza di nome Bella Rosenfeld incontra in casa dell’amica Thea un giovane pittore, ebreo come lei, anch’egli originario di Vitebsk; è il 1909. Il giovane è appena tornato da Pietroburgo e sta per recarsi a Parigi, dove resterà per quattro anni; si chiama Moyshe Segal, ma a Parigi sarà presto noto con il nome di Marc Chagall, e diverrà uno dei più noti e importanti pittori del XX secolo, raggiungendo una fama mondiale[1].
Tra Bella e Marc l’amore è immediato e tenace: Bella lo aspetterà per quattro anni, nonostante lo scontento della famiglia, che sperava per Bella un avvenire più sicuro; e lo sposerà nel 1914, seguendolo a Mosca, a Parigi e infine negli Stati Uniti, dove morirà nel 1944 dopo una breve malattia. Dopo la morte di Bella e la fine della guerra, Chagall tornerà a vivere in Francia. Nel 1973, il ministro della cultura André Malraux inaugura a Nizza il Museo del Messaggio Biblico dedicato all’opera di Marc Chagall.
La figura di Bella è familiare a coloro che amano l’opera di Chagall: è lei la donna che volteggia intorno al pittore nella celeberrima Promenade, e sono suoi il corpo e il volto femminili che popolano i più belli tra i quadri di Chagall. In questo libro è raccolta la sua voce: per il marito Marc e per la loro figlia Ida, Bella narra della propria infanzia a Vitebsk, del piccolo mondo ebraico dell’Est – lo stesso che sarà presto spazzato via dalla Shoàh, ma che già la Rivoluzione d’Ottobre ha posto in una grave situazione di crisi. Come il marito, ancora giovanissima Bella è pervasa da un’intensa poesia della memoria: ecco il negozio dei genitori, la corte, il rabbino, i bagni rituali, la sinagoga, le feste, il banchetto di Pasqua, i canti e le candele, i dolci e i piatti tradizionali, lo Shabbàt, le voci e le figure di un mondo lontano, che già la figlia Ida conosceva soltanto attraverso il racconto.
Lo stile di Bella è piano e chiaro, il ricordo è vivissimo: ambienti e persone sono colti con lo sguardo della bambina che vi crebbe, con la sua semplicità esigente e con la sua attenzione carica di attese.
Il racconto Luci accese si articola in 25 capitoli, dedicati ognuno a un aspetto della vita ebraica di Vitebsk. Il volume fu pubblicato a Parigi-Ginevra nel 1948 in 2500 copie, a cura di Ida Chagall, che lo tradusse dall’yiddish in francese (così come La mia vita di Marc Chagall, uscì per volontà dell’autore tradotta dall’yiddish in francese). Il libro può essere letto come documento della vita quotidiana degli ebrei dell’Europa dell’Est alla fine del XIX secolo; effettivamente, ne documenta bene le usanze e i tratti caratteristici, prestandosi a una lettura sociologica che non lo esaurisce, però, minimamente. Bella scrive per desiderio di Marc, raccontandogli la sua vita di bambina, prima dell’incontro con lui. Bella scrive prima e durante la Shoàh: sa che quel mondo è in buona parte scomparso, ha notizia di quanto sia perseguitato, ma non ha ancora conosciuto del tutto l’orrore di saperlo annientato definitivamente. Proprio per questa ragione, ci è parso adatto a portare in tavola la memoria: è la memoria di Bella Chagall a tavola, durante il banchetto di Pasqua.
Di seguito riportiamo due brani: il primo è tratto dall’introduzione al libro scritta per mano di Bella e si intitola Eredità; il secondo, invece, dal capitolo Il banchetto di Pasqua.

Eredità
La mia vecchia casa non esiste più. Tutto se ne è andato, morto. Mio padre – possa egli sostenerci – è morto. La mamma vive – Dio sa se vive ancora – in una città profana che le è del tutto estranea.
I figli sono dispersi in questo e nell’altro mondo, alcuni qui, altri là. Ma ciascuno, al posto dell’eredità scomparsa, ha portato via con sé come un lembo del sudario del padre: il soffio della casa materna. Distendo il mio lembo di eredità e subito salgono verso di me gli odori della mia vecchia casa. Cominciano allora a risuonarmi nelle orecchie le voci del negozio, le melodie cantilenanti del rabbino nei giorni di festa. Da ogni pertugio esce un’ombra; appena la tocco, lei mi trascina in una danza con altre ombre. Si spingono, mi urtano la schiena, le spalle, mi afferrano le mani, i piedi, fino a che mi piombano addosso, come uno sciame di mosche ronzanti in una giornata calda. Non so dove nascondermi. E così, all’improvviso, ho voluto strappare dalle tenebre un giorno, un’ora, un istante della casa svanita. Ma come riportare in vita certi momenti? Mio Dio, è così difficile far riemergere dai ricordi disseccati un frammento di vita! E come farlo, dal momento che si spengono, questi magri ricordi, e si compiono definitivamente con me? Vorrei salvarli. E mi sono ricordata che tu, amico mio fedele, spesso, in tutta tenerezza, mi chiedevi di raccontarti la mia vita del tempo in cui non mi conoscevi. Così scrivo per te. La nostra città ti è più cara di quanto non lo sia a me. E tu, con il cuore così colmo, comprenderai anche ciò che non arriverò a dire…Solo, una cosa mi tormenta. La mia dolce bambina che ha trascorso – è vero, come bimba di un anno – solo un anno di vita nella casa dei miei genitori, mi capirà?Lo spero.
Saint-Dié, 1939
disegno di Marc Chagall

Il banchetto di Pasqua
Là sopra, nella sala da pranzo, soffia forte un vento di festa. La tavola si allunga da un muro all’altro. Una bianca tavola di Pasqua, nella luce muta dei calici rossi. Una tovaglia sfavillante folgora lo sguardo. I candelabri brillano. Lunghe candele bianche, non ancora accese, palpitano nell’aria. Anche sul soffitto risplende lo sfavillio educato delle catene del lampadario. Mucchietti di pane azzimo sono avvolti nei tovaglioli, come in piccoli scialli di preghiera. Sulle sedie, si ergono enormi cuscini bianchi, ingombranti. Le rilegature splendenti delle Haggadàh brillano con le loro lettere d’oro[2].
Prima entra mamma, vestita con l’abito della festa. Il volto luminoso. Con i capelli raccolti, sembra più alta. Il vestito lungo, largo, costellato di pizzi, bottoni, nastri striscia sul pavimento di legno, fruscia, e riempie di sussurri l’intera stanza. Mamma va verso le candele, le accende, le circonda con le braccia: sembra che voglia benedire insieme tutta la tavola[3]. L’atmosfera si riscalda e si rischiara: sembra che siano accese non soltanto le sette candele di mamma ma contemporaneamente centinaia di altre candele. Accarezzano con la loro fiamma ardente lo sfavillio freddo della tovaglia, come se fossero state appena circondate dalle mani calde della mamma. Nella corte, anche a casa dei vicini le candele si sono accese. Si incrociano, le luci fioche delle candele di tutti, sbalordiscono con oro vivo la notte. Si riflettono sulle finestre, illuminano, giocano, bruciano sui piccoli fiori ricamati della tovaglia, alitano sulle bottiglie di vino impettite nell’attesa, ravvivano i calici rossi. Una favilla dopo l’altra lambisce la tavola bianca, non ancora del tutto pronta. La si prepara. Non ci si chiede se la tavola sopporterà tutte queste cose ammucchiate sopra…
“Hava, hai preparato le uova? Dov’è l’acqua salata?”. Mamma si affanna attorno alla tavola: vuole, con gli occhi, abbracciarla tutta. Manca qualche cosa? Cosa aggiungere? “Passami ancora un cuscino! Mi ero completamente dimenticata… che ci sarà un altro invitato. Infila delle nuove federe”. Distendiamo un nuovo paio di guanciali. Le sedie, come incinte, gemono, la pancia all’aria.
“Mamma, chi viene? Quanti siamo per il Sèder?”
“Ah! - fa con la mano - contate! E soprattutto per una festa!
Silenzio! Già rientrano dalla Sinagoga”.
Sentiamo il mormorio di una voce estranea: un altro invitato.
“Buona festa! Come state? Sono i vostri ragazzi? Hanno fatto bar-mitzvàh[4]?”.
Ciascuno riceve un pizzicotto sulle guance. Il primo invitato, un lontano parente di papà, è venditore ambulante nei villaggi circostanti. Sa che, per papà, un parente è sacro. Si è invitato da solo al banchetto di Pasqua. Si comporta come a casa sua. Canticchia un’aria, cammina in lungo e in largo, si soffia il naso in modo rumoroso, moraleggia, distribuisce consigli. Ad ogni nuovo invitato che entra, dà per primo un grande saluto.
Ora c’è tutto un brusio. Tutti aspettano papà. Aspettando, ci raccontiamo delle storie e stiamo a scherzare.
“Cosa studi adesso Bachinka? Sai già bene il russo? Hai bei voti?”. Le mie sorelle, i miei fratelli arrivati da lontano mi tormentano. Li contemplo come se fossero degli ospiti poco familiari. Durante tutto l’anno, non li vediamo. Uno studia all’estero. La sorella vive in un’altra città. Quest’anno viene con i suoi due bambini, che si arrampicano sulle gambe di tutti, soprattutto se sono lunghe, e supplicano di farli saltare. Tutti si rallegrano. Solo gli occhi di un giovane celibe sono tristi, pensosi. Guarda i ragazzini che giocano. Si ricorda che una volta aveva, anche lui, un padre, una madre, una casa sua. Si mette in disparte, in un angolo, come un ragazzino.
“Buona festa!” entrano e si mettono in riga tre piccoli soldati, tirati a lucido in onore della Pasqua. La baraonda li attira in mezzo alla stanza.
“Silenzio! Arriva nostro padre!”
Il tumulto si ferma di colpo.
Non riconosciamo subito papà. Un nuovo padre! Sulla porta s’impone un Re tutto bianco, vestito di bianco dalla testa ai piedi. Si perde nel suo largo levita[5] bianco. La seta scintilla, si frange in pieghe bianche. La grossa cintura le sostiene. Le maniche, come ali, pendono, lunghe e larghe, ricoprendo le mani, le dita. Una kippàh di seta bianca risplende sui capelli bianchi. Sotto questo biancore, Papà sembra ancora più imponente, più massiccio. Il suo volto è ancora più radioso. Da lui scaturisce come un vapore bianco. Basterebbe un piccolo movimento da parte di papà, e le sue maniche lo solleverebbero come ali. Contemplo il suo viso. Non è il Re, oggi?
“Buona festa!”
“Buona festa!”
Inizia il banchetto di Pasqua.

Papà è seduto a capotavola. Appoggiato ai due cuscini rigonfi, è seduto proprio come un Re su un trono. Dopo di lui, tutta la compagnia si lancia verso la tavola. Ci spingiamo, spostiamo le sedie, ci ammassiamo intorno alla tavola. Gli altri, sui cuscini tutto intorno, si siedono come sospesi per aria. Papà, per primo, toglie il tovagliolo dal piatto delle pietanze rituali e getta uno sguardo penetrante. Gli occhi di mamma si fissano sulla tavola. Possibile che sia stato dimenticato qualcosa?
Sotto il pane azzimo tutto giallo della Pasqua fuoriescono, come ciuffi di muschio di un vecchio tetto, ramoscelli di spezie, un mucchietto di rafano[6], un piccolo collo di pollo fritto, un uovo sodo. Gli altri scoprono i loro piatti: sono preparati come quello di papà.
“Aarke! Mi darai le tue erbe forti? Sì? - grida d’un tratto Abrachka da una parte all’altra della tavola, verso suo fratello maggiore”
“Zotico che non sei altro! – interviene l’altro fratello - Pensi solo a una cosa! Festa o non festa! Pensi sempre a mangiare!”
“E tu? Cos’hai da abbaiare come un cane? Chiedo soltanto delle erbe amare!...”.
“Sei pronto a rimpinzarti anche con il rafano! Cosa? Non ti conosciamo? Ha ha…”
“Silenzio! - papà li ferma - Cos’è questa fiera laggiù in fondo? Riempite i calici! Passate il vino agli ospiti!”
Bottiglie di vino passano di mano in mano. Se le contendono. Il vino frizzante macchia la tovaglia.
“Buon vino, eh! Vero?” - qualcuno ha già preso una sorsata - “Possa io avere una gioia simile a questo vino così dolce!”
“Hum… hum: e il calice del profeta Elia? “ Papà scuote la testa. E mamma aggiunge:
“Ecco, prendete da questa bottiglia di vino! È migliore!”
Una bottiglia s’inclina. Il calice alto, rosa d’Elia il Profeta, poco fa ancora silenziosa, pensosa, si riempie fino all’orlo.
Il vino è frizzante. L’aroma penetrante che sale dai calici fa girare la testa. All’improvviso, un vento sembra soffiare dai Libri dell’Esodo tutti aperti, dalle pagine appena sfogliate. Tutte le teste si chinano. Si sgranano le prime preghiere.
Io sono stretta nel mio angolo, tra mamma e papà. Con i cuscini di papà, è ancora più stretto. Da questi cuscini il calore sale, mi opprime il cuore. Ho la testa pesante per il vino. I cuscini mi attraggono a sé, mi invitano ad appoggiare il capo sulle morbide piume. Ma so che presto, dopo qualche preghiera, papà si chinerà su di me, come se non fossi io a porgergli le quattro domande, ma fosse lui…
Ecco che mi fa già segno…
“ Bene, bene… allora, le domande?”
D’un tratto, il silenzio. Tutti mi guardano. Nascondo il viso nella Haggadàh. Le lettere, la testa, girano insieme. Seguo col dito, e vorrei raddrizzare le righe! Trattengo il respiro. Sussulto al suono della mia stessa voce.
“Cos’ha di diverso questa notte da tutte le altre?”.
Papà mi suggerisce sottovoce. Mi sembra che, dall’altra parte della tavola, soffochino dal ridere. Mi confondo ancora di più. Proseguo a fatica da una riga all’altra. Mescolo le domande. Eppure le sapevo tutte a memoria. Avevo tanto da chiedere… Appena pronuncio l’ultima parola, esplode un grido… Tutti, liberati, si lanciano sull’Haggadàh.
La lunga tavolata parte, come se avesse le ruote. Ciascuno prega per conto suo, supera l’altro, si affretta dopo di lui, lo chiama, lo scuote con la sua voce. Le voci risuonano nelle finestre, salgono sui muri, risvegliano il ritratto del vecchio rabbino Schnehersohn, appeso al muro da tanti anni. Con i suoi occhi verdi, spia intorno, allunga l’orecchio verso ciascuno, come se volesse sentire tutto. Sull’altro muro, il rabbino Mendele, piccolo, vecchio, non può più starsene appeso in pace. Pensieroso, avvolto nella sua levita bianca e nella sua lunga barba, scende dal quadro come se lo avessimo chiamato con l’Haggadàh. I muri nudi prestano ascolto. Anche il soffitto è sceso, e ascolta il racconto dell’Esodo: si direbbe che ha bisogno di stare vicino a ogni parola. Pagina dopo pagina, le parole scorrono come la sabbia del deserto. Sono stanca al solo guardare tutti. Dove siamo arrivati? I miei fratelli, come una coppia di cavalli, spingono avanti. “Sciocca che sei! A che punto sei dunque? - tutto a un tratto si sente una parola non ebraica - Hai saltato delle pagine!“ E’ Mendel che grida contro Abrachka.
Chi va a ingannare? E dove ci affrettiamo? Ponticelli di lettere, di righe si levano, corrono lungo le scale, in alto, in basso. Mi perdo nella mia Haggadàh. Sfioro le sue pagine ingiallite. Qui, una macchia di vino, là, un pezzo di pane azzimo incrostato dell’anno scorso. Immediatamente, arrivo a una immagine disegnata: una tavola del banchetto di Pasqua, con dei visi emaciati. Mi si stringe il cuore. Eccole qui le nostre care nonne, i nostri cari nonni[7]: come sono sfibrati, prosciugati! Accarezzo, sfoglio ancora, giro una pagina dopo l’altra. Li cerco ovunque. Il pezzo di pane azzimo si sbriciola, si sparpaglia sull’Haggadàh. Sembra che la sabbia d’Egitto scricchioli sotto i piedi. Sussurro: “Eravamo schiavi…”. Le pagine fitte cominciano a gemere. Il vento del deserto giunge fino a noi. Le pallide ombre dell’immagine dipinta si avvicinano. Respirano dentro di noi. Appena una parola le sfiora, riversano su di noi il loro cuore, le loro sofferenze, il cammino faticoso dell’esilio attraverso il deserto, le soste e di nuovo il cammino. Giorni, notti, anni, senz’acqua, senza pane. Tutto questo avvolge l’anima, come la tela di una ragnatela. Ascolto i loro passi. Sudano, camminano lentamente. Le schiene ricurve. Le mie spalle si accasciano come se io stessa mi trascinassi nella sabbia profonda. La bocca diventa secca. E’ duro pronunciare le parole. Come dei pezzi di creta, incollano le labbra. Sussurro, mi chino. Vorrei penetrare nell’Haggadàh, sbucare nel luogo del lungo cammino. Ricongiungermi con ognuno, dir loro una parola, aiutare a portare qualcosa. D’improvviso, un lampo nella mia mente: è possibile che anche dei bambini abbiano camminato con loro? Hanno dovuto piangere, strillare… Dove siamo rimasti? Mi sembra che tutti si siano ingarbugliati nel testo. Non li raggiungerò mai. A che punto è papà? E’ meglio ascoltarlo. La sua voce è calma. Ogni parola, come un passo dietro l’altro, risuona sulla tavola. Papà cammina come su di un sentiero piano. Mi piacerebbe camminare con lui, passo dopo passo. Grazie a Dio, si è fermato un momento, per riprendere fiato.
“E bene, bene… i flagelli!” Fa segno con la mano di portare qualche cosa per buttare le gocce di vino[8].
“Acqua… Sangue…”
Per papà, questo suona come una campana[9]. Ogni flagello si ritira, s’inonda di una lunga goccia di vino, come se papà volesse allontanare da sé, il più lontano possibile, ogni maleficio. Svuota tutto il calice.
Mamma porta verso di sé il vaso; lentamente le sue piaghe[10] sgocciolano con il vino. La mette a disagio nominarle a voce troppo alta, e ha paura di macchiare la tovaglia. Tutti teniamo il bicchiere in mano, come se volessimo lanciare dei colpi, e ognuno di noi afferra il recipiente, e butta goccia dopo goccia: si direbbe che vogliamo coprire di sputi la faccia del nemico. Prendiamo di mira il centro: vogliamo far cadere le maledizioni proprio nel mezzo. Cadono, queste maledizioni, come delle pallottole. Lo ricevo per ultima: in esso, si agitano già tanti flagelli.
“Sangue… rane… insetti… peste… ecco, per te! Tieni, prendi!...”
Mi sembra di lanciare delle pietre. Verso, riverso tutto… Non posso frenare la mano. Il piccolo vaso di creta si tramuta in una testa del Faraone cattivo. Vorrei riversar su di lui tutto a un tratto tutti i flagelli , rompere contro di lui il mio calice, insanguinarlo di vino rosso…
“Cavallette… tenebre…. tieni, per te, tieni per le mie nonne, per i miei nonni perseguitati. Flagelli dei primogeniti… ecco, per te, per i neonati martirizzati…”
Sono spaventata io stessa dalle maledizioni, dalle macchie rosse sulla tovaglia, e getto veloce tutto il mio vino.

Tratto dal capitolo Il banchetto di Pasqua, nel vol. di Bella Chagall, di Luci accese (traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi)

Devo un ringraziamento a Lorenzo Gobbi, mio marito, che mi ha aiutato soprattutto nella realizzazione delle note, e non solo. Devo a lui la stesura del testo introduttivo.

[1] Le sue opere si trovano a Nizza, dove sorge un Museo di Stato a lui dedicato, a New York, a Parigi, a Gerusalemme e nelle più importanti gallerie del mondo.
[2] Ogni commensale, durante la cena di Pasqua, ha in mano il libretto del rito, cioè la Haggadàh. Haggadàh significa “racconto”, perché durante la cena viene raccontata tutta la storia della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto.
[3] Accendendo le candele, come prescrive il rito, la donna mormora una benedizione, e questo spiega il gesto con cui le sue mani quasi circondano le candele stesse. Solo la donna può accendere le candele di Pasqua e di Shabbàt. Gli uomini, mentre le donne preparano così la tavola e accendono le candele, sono in preghiera nella sinagoga.
[4] Bar-Mitzvàh (letteralmente “figlio del precetto”) è la cerimonia religiosa che segna l’ingresso di un ragazzo nel mondo degli adulti: per la prima volta, verso i 13-14 anni, il ragazzo legge la Scrittura nella Sinagoga, e da questo momento è considerato un adulto a tutti gli effetti, ed è obbligato all’osservanza dei precetti. Si tratta di una festa grande, ed è comprensibile che l’ospite chieda se i ragazzi hanno già festeggiato Bar-Mitzvàh: se l’hanno già celebrato, deve trattarli da adulti, se no può trattarli da bambini, come di fatto fa.
[5] Abito tipico degli ebrei dell’Est, nero o bianco.
[6] Pianta dal sapore simile alla senape, molto utilizzata come condimento piccante nei paesi dell’Est (fr. raifort).
[7] I libri dell’Haggadàh, ancora oggi, raffigurano spesso gli antichi ebrei nella schiavitù, nella celebrazione della prima Pasqua, nel viaggio attraverso il deserto: “nonni” e “nonne”, qui, sono gli avi, cioè gli ebrei che vissero l’Esodo.
[8] A questo punto della cena, un recipiente viene fatto girare (vaso o terrina o vassoio): ogni commensale, quando è il suo turno, butta nel recipiente gocce di vino, che ha preso con le dita dal proprio calice, e pronuncia le maledizioni contro gli egiziani buttando, appunto, le gocce che le rappresentano.
[9] Il suono delle campane, per gli ebrei, significava spesso l’arrivo di un pogròm, o comunque di un momento pericoloso: durante la festa cristiana, spesso i predicatori attizzavano il risentimento popolare contro gli ebrei, accusandoli di deicidio (specialmente a Pasqua e al venerdì santo), e il popolo andava ad assalire le case degli ebrei, massacrando gli abitanti (questi assalti venivano detti pogròm, in russo). In Russia e in Polonia, nella seconda metà dell’Ottocento e ai primi del Novecento, si verificò una impressionante serie di pogròm, che fecero molte vittime nell’indifferenza delle autorità; era, però, una realtà che si verificava spesso, soprattutto sotto Pasqua. Per gli ebrei dell’Est, dunque, il suono della campana aveva un che di sinistro e malaugurante.
[10] Le maledizioni consistono nelle “piaghe” o “flagelli” che Dio mandò contro gli Egiziani: sangue, peste, cavallette, rane, morte dei primogeniti…

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