venerdì 2 novembre 2007

Christian Bobin: RESUSCITARE




Christian Bobin, Ressusciter, Gallimard, Paris 2001 (traduz. it. Resuscitare, Gribaudi, Milano 2003, tr. it. di L. Malocchi).
Bobin scrive Resuscitare dopo essere stato fortemente segnato dal lutto: l’amica Ghislaine, madre di tre bambine; qualche anno più tardi, il padre, malato d’alzheimer. La scrittura lo ha sempre sorretto: ne sono nati tre libri tradotti anche in Italia (Più viva che mai, Autoritratto e Presenze), tutti scritti in prima persona. Bobin racconta e si racconta. Lo fa con voce pulita e rispettosa. La narrazione è meditativa, segue un filo interiore profondo e si radica in una concretezza di vita vissuta. Per parlare di lui è necessario parlare con lui: riportare la sua voce e accordare la nostra alla sua fino all’unisono.
In Resuscitare, sin dalla prima pagina, l’autore ci accoglie nella propria stanza o luogo dell’anima: “Un letto di luce, una sedia di silenzio, una tavola di speranza, null’altro: così è la stanza io cui vive in affitto l’anima”. La scelta delle parole è pensata, attesa: luce, silenzio e speranza, null’altro. Poi, l’intervallo di una pagina bianca ci accompagna alla messa solenne di Pasqua, durante la comunione. Lì con lui, d’un tratto, vediamo sfilare, in una calma profonda, l’umanità intera: vecchi, adolescenti, ricchi, poveri, donne escono dal buio della notte per andare a nutrirsi di luce. Per un attimo è la resurrezione, e i due mondi sembrano incontrarsi. Poche righe più in là, siamo davanti alla tomba del padre: ostacolo insormontabile. Lì, sosteremo ancora, tra una pagina e l’altra. Ma non avverrà spesso, solo ogni tanto. Andremo anche al cimitero di Saint-Ondras nell’Isère, dove riposa l’amica Ghislaine: di lei, risuona ancora il riso chiaro. Dai bisnonni, a Mont pont-en-Bresse, una località non lontano da casa. Nel cimitero, costruito dai soldati tedeschi durante la prima guerra mondiale, di Saint-Charles a Sedan, nel “quartier des enfants”, dove si sente ancora il pianto delle famiglie e il riso dei bambini che si sono finalmente ritrovati.
Cosa vuol dire per Bobin resuscitare? “Gli esseri viventi appaiono e scompaiono intorno a me come le colombe che escono dalle mani vuote di un mago. Ho un bel guardare queste mani con attenzione, non trovo alcuna spiegazione.”. Non vuole parlare della morte con la lingua preziosa dell’intellettuale che ne sperimenta la paura solo quando è colpito dalla malattia: lì, la voce trema e non sfoggia più nulla – come l’amico scrittore C., più volte nominato nel libro. E nemmeno vuole dare consolazioni piene di luoghi comuni: non si può sublimare il dolore. Sarebbe ingiusto, irrispettoso. Un’immagine viva, reale, rende tutto molto palpabile: entriamo in una casa in lutto.Una giovane mamma (l’amica Ghislaine?) lascia tre figlie, tra cui una bimba di quattro anni. Il giorno del funerale la piccola viene punta da un’ape: prima di lasciarsi andare al pianto, cerca la mamma, vuole lei - è di lei che si ha bisogno quando le api pungono. Capisce che non c’è più. La mamma se n’è andata per sempre. “Questa scena, - scrive Bobin - che è durata non più di qualche secondo, è la più straziante che abbia mai visto. C’è un momento in cui, per ciascuno di noi , la conoscenza inconsolabile ci entra nell’anima e la lacera. E’ nella luce di quel momento, che sia arrivato o no, che dovremmo tutti parlarci, amarci e persino ridere insieme il più possibile”. Non sa dove siano coloro che ha amato e che sono morti eppure sente che “non sono nei cimiteri, anche se ogni giorno il sole si inchina davanti alle loro tombe per farne brillare i nomi”. Dell’aldilà non immagina nulla, se non un campo non coltivato in cui il Cristo contempla la vita in tutte le sue sfumature: riposa disteso, mentre farfalle colorate gli si avvicinano movendo l’aria che respira. Solo quando racconta una giornata trascorsa in bicicletta con un gruppo di bambini, sente di avere una conoscenza profonda del Paradiso. Un paradiso molto concreto: risate, un tiglio sotto cui rinfrescarsi, una bibita fresca al bar animato da vecchi e gatti del posto, un bigliardo. Una concretezza profonda, radicata nella vita: le felci della foresta, vicino a dove abita, di Saint-Sernin, una lettera dell’amica L., una parola benevola del padre - “cerco la pienezza di una vita così limpida che nulla possa turbare, nemmeno la vista di questo mondo morto. Se cerco una cosa simile è perché l’ho già intravista nell’infanzia e più tardi in questa vita incatenata che definiamo adulta”.
Resuscitare è allora per Bobin “preservare un sì alla vita” nonostante tutto, comunque e sempre. Una stima profonda per l’esistenza, per questo mondo che viene salvato dalle persone nascoste, come la bibliotecaria di sessant’anni che ricopre di plastica libri d’arte che nessuno richiede. Resuscitare è riconciliarsi con la propria vita, con la morte. Obbedire al tempo cercando una vita buona:il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario”. Come gli occhi di Agnès o le sante che ha incontrato su questa terra: una bimba, una giovane e un’ anziana che nemmeno sanno di essere sante.
Bobin ci conduce anche là dove è la vita presente: in casa di amici, al museo Rodin, in un mercato, in libreria e in tanti altri luoghi. Lo incontriamo con la madre e la sorella. Con bambini e fanciulli come la petite H. con cui va a visitare il castello d’un poeta o i bambini che incontra per il catechismo. Tanti volti in situazioni diversissime: malati negli ospedali, sindaci e notabili della città, uomini d’affari. Tante e tante donne: l’amica S. che vorrebbe vivere una vita perfetta, l’altra che si racconta al caffè di Parigi. Coppie che si amano e coppie che hanno smesso di amarsi. Intorno a loro, passeri, tigli e magnolie: altrettante presenze.
Si direbbe che Bobin, dopo tanto dolore, voglia cercare di riconciliarsi con la morte. Davanti alla tomba del padre: “sono rimasto così una manciata di secondi, poi mi sono alzato e sono tornato in città con una forza enorme nel cuore”. In riva all’oceano d’inverno, alle Sable–d’Olonne : “Io ho visto e udito, visto con chiarezza e udito con chiarezza, che, attraverso l’oceano, i morti si avvicinano senza fine a noi con estrema delicatezza, come se provassero il bisogno di venire a lavare i vivi, e Dio sa se i vivi hanno bisogno di essere lavati”. Bobin guarda, non si stanca di guardare. Attende. Nel silenzio. Accade il miracolo: “Stamani sugli alberi, sui muri e in cielo, c’è una luce così tenera che dà l’impressione di rivolgersi più ai morti che a noi, a meno che non siano i morti che ce la mandano, come quando si scrive una lettera rassicurante a dei genitori un po’ preoccupati.” E quando imprudentemente vuole parlare di Dio sa di farlo da questa parte della vita; anche se di lui non conosce nulla, non riesce a sentirlo estraneo alle sue giornate, anche le più semplici. Le giornate divengono libri “e questi libri sono scritti da lui. Volti, dolore e bontà ne costituiscono le pagine più riccamente miniate, così come rosaio, passero e fiore di primavera gialla”. L’unica volta che ha dubitato di suo padre, è stato quando egli, con voce cerimoniosa, ha voluto parlare a lui e ai suoi fratelli del piccolo Gesù, davanti al presepe, la notte di Natale. “La vita quotidiana di mio padre parlava a sufficienza di Dio senza che ci fosse bisogno di nominarlo. Esplicitare queste cose non fa altro che indebolirle”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie.