Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda 2015 |
Non sono rarissimi gli autori che hanno
deciso di scrivere in una lingua diversa da quella materna: tra loro Joseph
Conrad, romanziere polacco che è diventato uno dei narratori più
importanti della letteratura inglese; Emile Cioran, saggista rumeno che ha
regalato alla letteratura francese perle di pensiero filosofico; Vladimir
Nabokov, scrittore russo che ha iniziato a usare la lingua inglese dopo essersi
trasferito negli Stati Uniti; ma anche donne come l’algerina Assia
Djebar che ha scritto nella lingua del “colonizzatore” francese e molti
altri. Tra questi, non possiamo tralasciare il nostro Antonio Tabucchi che ha
scritto Requiem in portoghese, la lingua di cui si è
innamorato. Non è quindi un caso se in esergo al libro In altre
parole (Guanda 2015) della scrittrice statunitense di origine indiana
Jhumpa Lahiri leggiamo le parole di Tabucchi: “Avevo bisogno di una lingua
differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione”.
In altre parole, infatti, è
stato pensato e scritto direttamente in italiano, una lingua che Lahiri ha imparato
da adulta.
Figlia di emigrati indiani di Calcutta,
stabilitisi prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, sin da piccola sa che,
se si vuole integrare nel nuovo Paese, deve imparare perfettamente l’inglese,
nonostante a casa si parli solo il bengalese, una lingua che non potrà
approfondire perché tutta concentrata a imparare quella della scuola: “Nessuna
mia maestra a scuola, nessuna mia amica è stata mai incuriosita dal fatto che
io parlassi un’altra lingua. Non lo apprezzavano, non
mi chiedevano niente. Non gli interessava, come se quella parte di me, quella
capacità, non ci fosse”. Eppure, nonostante
da bambina impari perfettamente l’inglese, da grande si sentirà
ovunque un po’ straniera: a Calcutta, perché le persone le si rivolgono il più
delle volte in inglese e in America, perché tutti la prendono per una straniera a
causa del suo aspetto fisico. Tuttavia, sarà proprio negli Stati Uniti che riuscirà
ad affermarsi come scrittrice di lingua inglese, ottenendo diversi
riconoscimenti tra cui il prestigiosissimo Premio Pullitzer.
In Italia, la sua opera è
stata tradotta da Guanda: Una nuova terra (2010) e La moglie
(2013) sono solo alcuni dei suoi romanzi, mentre In altre parole rappresenta una totale novità, non solo per l’Autrice,
ma anche per la stessa casa editrice.
Ma perché questa giovane donna, scrittrice
statunitense di successo, che ha già dovuto “subire” lo sforzo di imparare un’altra
lingua, un giorno decide, non solo di scrivere in italiano, ma addirittura di
trasferirsi a Roma con marito e figli piccoli? E perché tutto ciò
accade senza alcuna motivazione familiare o professionale? Eccola allora, pochi
anni fa, approdare a Roma con tutta la famiglia in pieno ferragosto. Nella capitale, continua
l’avventura
iniziata a Firenze, vent’anni prima. Sì, perché è nella città natale di Dante
che Lahiri ha vissuto l’incontro magico della sua vita: un vero colpo di fulmine per
la lingua italiana. Ed è questa la storia d’amore che ci narra in questo breve
racconto scritto in prima persona. Un innamoramento che inizia da una
spoliazione e da una perdita: “Quando rinuncio all’inglese rinuncio alla mia autorevolezza. Sono
traballante anziché sicura. Sono debole”. La scrittura è autentica e porta
con sé
la fragilità che la Lahiri ha deciso di indossare. Di vivere. Una scrittrice
affermata che percepisce la propria debolezza come una sorgente da cui trarre
forza per crescere. Accettare il limite in una società dove i limiti non
si possono più nemmeno chiamare per nome: qui sta la forza del libro.
In altre parole, non è
solo una storia d’amore singolare, ma è anche un racconto che ci aiuta a
riflettere su tutto ciò che comporta l’identità culturale e linguistica di una
persona. E di questi tempi, ne abbiamo tutti un gran bisogno.
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale Verona Fedele, 19 luglio 2015, n° 28
Nessun commento:
Posta un commento