Paola Caridi
Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele Feltrinelli, 2013 pagg. 202 |
"Mio figlio, a tredici anni,
mi ha detto: Tu sai meglio di me la storia di Gerusalemme, ma io l'ho vissuta di più, sulla mia pelle" . Così termina il libro di
Paola Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli,
Milano 2013), lontanissimo da cliché e stereotipi. Classe 1961, Paola Caridi ha
vissuto per dieci anni a Gerusalemme dove ha lavorato come giornalista,
occupandosi di Medio Oriente, in particolare di
islam politico in Palestina ed Egitto. Ha pubblicato, sempre presso Feltrinelli,
Arabi invisibili (2007), Hamas. Che cos’è e cosa conosciamo
(2010); continua a curare il blog Invisiblearabs
nato dal suo desiderio di “dare voce e corpo a un pezzo di mondo che voce ne ha
poca”. Proprio perché ha donato a Gerusalemme dieci anni della sua vita, Paola
Caridi sa che si tratta di materiale da maneggiare con cura: impossibile, dunque,
scrivere un libro su Gerusalemme; possibile scrivere, invece, un libro sulla propria Gerusalemme. Uno sguardo che le
viene da quella città che ha conosciuto per averci camminato, lavorato,
studiato, una particolare prospettiva la sua, che ha maturato proprio da quel
pezzo di vita vissuto con la sua famiglia: perché un figlio piccolo impone uno
sguardo di madre sulla città e obbliga a un’esperienza diretta e concreta dei
mille aspetti del quotidiano, spesso estranei allo studioso chino sui libri o
all’attivista totalmente immerso nella propria missione. Un titolo che può
sembrare provocatorio per la città tre volte Santa. Eppure è qualcosa di intimo
e di spirituale che le è rimasto dentro, una volta partita da Gerusalemme: il
ritmo dei tempi del giorno scandito dai “suoni di cui la città è piena”; la nostalgia
di quel ritmo antico più consono a una natura “che abbiamo violentato con gli
anni e coi secoli”.
Lo
sguardo dell’autrice segue le riflessioni del semiologo Roland Barthes: se ogni
città è un discorso con i suoi significati e significanti, di forme e di senso,
per capirlo è necessario destrutturarlo, decodificarlo, e l’architettura urbana
ben si offre a questo tipo di lettura. Da questo approccio, prendono inizio i suoi
primi passi per raccontare Gerusalemme. Passi che ripercorrono la città
partendo dal quartiere di Musrara, primo quartiere misto sorto fuori dalle mura
della città vecchia durante il mandato britannico, dove la casa del vecchio arabo
cristiano che l’accompagna è stata trasformata, durante la riqualificazione
urbanistica degli anni settanta (avvenuta a seguito delle proteste scatenate
dagli ebrei sefarditi costretti a vivere in una Musrara degradata), in una mikveh (bagno rituale). Quella casa
trasformata è la strada della memoria per l’anziano esule costretto fuggire a
Beirut nel ‘48: uno spartiacque storico - la nascita dello Stato di Israele o
la Nakba, in lingua araba (la “Catastrofe”):
come sempre, in questa terra ferita, i nomi dipendono dall’angolazione. Ora nel
quartiere non vi è più nulla di arabo, resta solo la scuola salesiana “simulacro
della presenza cristiana, riconquistata dopo una lunga battaglia legale”. Eppure
il cipresso, tanto caro all’anziano accompagnatore, è ancora lì, vivido nella sua
memoria.
Ma
a Gerusalemme i segni da leggere sono sparsi ovunque: tracce di una presenza
araba dove possibile rimossa o segni di una Gerusalemme israeliana moderna che
si continua a costruire e a costruirsi, creando un arcipelago di enclave e di isole. Una città dove anche
l’archeologia è “pietra” politica, perché a Gerusalemme nessuna pietra può
rimanere estranea al conflitto. Ogni pietra è un segno da decifrare in questa Gerusalemme senza dio, eppure “quella Via
Dolorosa così prosaica, […] è quanto di
più simile alla descrizione del Vangelo si possa rintracciare nella Gerusalemme
post-moderna. È il segno della solitudine e della passione del Cristo in una
dimensione quotidiana della città: così come ai tempi del Gesù storico, il
Cristo era stato egli stesso condotto nella sua Via Dolorosa tra i banchi del
mercato, esposto al pubblico ludibrio, proprio nei luoghi in cui il maggior
numero di persone potesse assistere alla sua umiliazione”.
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