venerdì 3 maggio 2013

FOLLI I MIEI PASSI - CHRISTIAN BOBIN



Folli i miei passi ci restituisce il Christian Bobin più narrativo: quello dei romanzi brevi come Geai (San Paolo edizioni 2000), L’amore è proprio una piccola cosa (Gribaudi 2007), Isabelle Bruges (Le temps qu’il fait 1992, non ancora edito in Italia), La donna che sarà (Archinto 1995, oggi introvabile) o dei brevi racconti come Mille candele danzanti (Camelozampa 2008). La maggior parte degli altri libri pubblicati in Italia seguono, invece, una prosa poetica più meditativa, meno romanzata, fatta di frammenti. Ma ciò che accomuna tutti i suoi scritti è il timbro della voce: misurato, fermo e fortemente evocativo. In ogni libro, la sua voce cerca il respiro nella brevità delle frasi, dei periodi o dei brevi capitoli, spesso inframmezzati da pause, visualizzate dagli spazi bianchi della pagina. Quasi la sua voce avesse bisogno di silenzio, di fermarsi, di far risuonare le parole che, se “non vere”, possono allontanare il silenzio necessario che aiuta il lettore a mettersi in contatto con la propria interiorità. La scrittura di Christian Bobin genera silenzio. Una pausa di ristoro. È lui stesso a sottolineare, in un libro dal titolo fortemente evocativo, Souveraineté du vide (Sovranità del vuoto,  non ancora pubblicato in Italia), il valore profondo del silenzio:“Tacere: progredire in solitudine, lungi dal disegnare una chiusura, apre la sola e durevole e reale via d’accesso agli altri: a questa alterità che è in noi e negli altri, come l’ombra portata da un astro, solare, benevolo”. (Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985-Gallimard 1995, pag. 53). Ma innumerevoli sono le frasi che, in Bobin, mettono in luce il valore del silenzio: “Ciò che impariamo dai libri, è la grammatica del silenzio, la lezione di luce”. Un silenzio che vuole suggerire una via per vivere, senza arroganza: “Ho sempre ritenuto che uno scrittore avesse più doveri che diritti, e uno di questi doveri è aiutarci a vivere”. Bobin riesce a farlo con estrema naturalezza e rispetto per chi legge.
La sua scrittura entra a poco a poco nel lettore, offrendogli delle schiarite, delle pause non di una riflessione noiosa ma di una gioia leggera, pulita, fresca. Scrive Bobin: “Perché una cosa sia vera, è necessario che, oltre a essere vera, entri nella nostra vita”. È ciò che fa Lucie, la protagonista di Folli i miei passi , entrando, pagina dopo pagina, non solo nella sua vita per rischiararla, ma anche in quella di noi lettori. Con leggerezza, Lucie riesce a portare dentro di sé, un po’ di luce. Ma ciò che è straordinario, è che porta un po’ di quella luce anche in noi che leggiamo le sue peripezie e le sue fughe. Folli i miei passi  è un libro dall’andatura vivace, picaresca. Lucie è una bambina speciale (ma esistono bambine, bambini che non siano “speciali”?) alla ricerca dell’amore, della vita, o meglio della vita “vera”, della “sua”vita. Sin da piccola sembra avere chiaro (prima per intuito, poi per esperienza) il desiderio di vivere ciò che ha nel cuore, giusto o sbagliato che sia.

Il libro è scritto alla prima persona: una giovane donna, Lucie, si racconta per ritrovare se stessa. Non scrive per diventare una scrittrice ma per ritrovare la propria infanzia e quindi se stessa. Il suo motto è “Dopo, si vedrà”. Dal suo primo amore dei suoi due anni, un lupo dai denti gialli, al suo primo vero amore, Alban, un violoncellista dell’Opera di Parigi. Tra questi due grandi amori, un marito, Roman, figlio di una famiglia cosiddetta bene, alto borghese, molto distante da lei cresciuta invece in un circo.
Racconta delle sue fughe iniziate a soli due anni per andare a cercare il suo lupo, della vita nel circo, dei suoi fratellini gemelli, di suo padre, malato di perfezionismo e di sua madre, malata di un amore folle per i suoi figli.
Dopo una serie di fughe, la giovane approda al cinema per caso, come comparsa. Un giorno deve partire per delle riprese in Canada, ma stanca e disorientata, decide di fare dietro front – è il suo angelo custode a tirarla per la giacchetta - e di andare a trascorrere un periodo in solitudine nel Jura, per raccontare al suo angelo (è lui a chiederglielo!) tutto ciò che le è capitato fino in quel momento.

Ma la vicenda la si potrebbe anche riassumere in altro modo (e mille altri ancora). Storia di una bimba a cui piace inventarsi dei nomi per le sue fughe. La piccola nasce e vive in un circo fino a quando i suoi genitori non vengono licenziati. Un giorno se ne va a Parigi dove incontra un ragazzo della Parigi bene che sposa contro il parere della famiglia di lui, la quale nutre, per il figlioletto, ben altre ambizioni. Il giovane marito lascia la promettente carriera di notaio contro la volontà dei genitori e decide di diventare scrittore. È talmente preso da questa parte, quella dello scrittore appunto, che tutto il resto è funzionale al suo scrivere. La stessa moglie è fonte di ispirazione per interminabili lettere. Nel frattempo, la ragazza si mette al suo servizio: fa lavoretti per aiutarlo a scrivere. Ma un giorno, stanca, lo lascia. Se ne torna a casa dai genitori. Si mette a leggere e a scrivere. Per caso, inizia a fare la comparsa per un film. Segue le diverse troupes fino a quando non decide di lasciare la brillante carriera cinematografica di comparsa per andare a scrivere il suo libro. E poi, “si vedrà”.
Grazie alla scrittura si riapproprierà della sua vita. Lucie infatti si mette a scrivere non per diventare scrittore, ma per “trovare quell’amore che manca ad ogni amore”.

La giovane si racconta in prima persona per trovarsi. Dice di chiamarsi Lucie, ma forse è solo un pretesto per svelarci la sua madrina luce, colei che avrebbe continuato a seguire nelle sue fughe. Fughe da se stessa ma anche da ciò che le impedisce di essere se stessa. “Non si scrive per diventare scrittori ma per amore che manca ad ogni amore”(C.B.). Questo il motivo della scrittura per la protagonista del romanzo ma anche per lo stesso Bobin. Lo scrittore è un mestiere di infanzia. Per lui lo scrivere non è un mestiere, ma se lo si vuole considerare tale, allora c’est un métier d’enfant.
L’infanzia è fondamentale perché è il regno dell’attenzione – come l’intendeva Cristina Campo. “Se ci fosse per me una saggezza, sarebbe l’arte di esserci pienamente, con un’attenzione estrema, costante. E’ per questo che i bambini mi affascinano, per questo dono che hanno di esserci pienamente nel puro presente. Ho una profonda complicità con loro» (C.B.).

La folle allure viene pubblicato nel 1995 da Gallimard, il libro appartiene alla prima produzione di Bobin. Pochi anni dopo moriva la sua giovane amica di C. Bobin, Ghislaine (il lutto è raccontato in Autoritratto e in Più viva che mai).

Da quando ho iniziato a leggere Christian Bobin (1998), molto tempo è trascorso, molti suoi libri sono stati pubblicati. Molte cose sono cambiate nelle vite di ciascuno. So che ha cambiato casa grazie a una pregevole intervista che si può trovare in internet su un suo libro molto bello La présence pure, che racconta la malattia del padre. So che oggi vive con una compagna Lydie Dattas, scrittirice che vorrei presto iniziare a leggere.

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