I primi
libri di Christian Bobin sono letteralmente “invasi” dal tema della lettura e
della scrittura. Gli stessi titoli Souveraineté du vide (Sovranità del vuoto, Fata Morgana 1985),
Lettres d’or (Fata Morgana 1987), Un livre inutile (Fata Morgana 1992) evocano la preziosità del
vuoto e la mancanza di pretese che uno scrittore deve avere quando si accinge a
scrivere.
Sviluppa
e approfondisce questi temi, un libro intervista (La luce del mondo, Gribaudi 2006) in cui la poetessa e scrittrice Lydie
Dattas conversa con Bobin sui tanti temi a lui cari, tra i quali non potevano
mancare: il valore e la funzione della scrittura e della lettura.
(Luce del Mondo, Gribaudi p. 37)
In una recentissima
intervista, alla domanda quale sia la funzione di un libro, Bobin risponde:
“Un vero libro ascolta il lettore. La mia
esperienza di lettore sa che in rari momenti da un libro esce qualcosa che
viene a sederci accanto a noi e si mette ad ascoltarci. Le parole sono scritte
e tessute in modo tale che noi ci sentiamo ascoltati. Quando la cosa vera ci
viene detta, non abbiamo bisogno di un esperto per autenticarla. Il nostro
cuore e la nostra esperienza la riconoscono, risuonano con lei.”
E ancora:
“Un libro è un veggente o non è nulla. Il
suo lavoro è di accendere la luce nei palazzi dei nostri cervelli deserti”.
Non a caso le parole che ritornano nelle pagine dei suoi primi libri sono: leggere, scrivere, amare, pagina bianca,
inchiostro, solitudine, mancanza, attesa, dono gratuità.
Traggo alcuni passaggi dal libro Souveraineté du vide, (pubblicato nel 1985 dalla piccola casa editrice Fata Morgana, quando Bobin aveva 34 anni; oggi ne ha 62).
Tra i libri e le lettere si trova sempre anche l'infanzia.
Tra i libri e le lettere si trova sempre anche l'infanzia.
I libri. Sono sul mio tavolo. Li ho aperti, a
caso. Li ho sfogliati. E’ giunta una quiete: non sapevo di averne bisogno. Una
felicità di leggere, anteriore all’atto stesso di leggere. Una luce carpita da
questo primo sguardo, distratto, rapido. Una luce che anticipa la luce
racchiusa in queste pagine. Poi ho richiuso i libri. Più tardi. La lettura
sarebbe giunta più tardi, molto più tardi. La notte era più adatta per leggere,
la notte è più adatta, quest’uguaglianza finalmente stabilita tra l’oscurità
dentro e l’oscurità fuori. Sono uscito. Sono andato a passeggiare, ho visto
persone. Mi è venuta l’idea di scrivervi una lettera, questa lettera, l’idea di
una lettera infinita, senza nesso. Interrotta, spesso, come è interrotta la
lettura: come viene revocato lo stato del lettore, lo stato di assenza, dal
rumore di una porta che si chiude, dall’irrompere improvviso dell’alba, dal
disastro del sonno.
[…]
Il bambino, il lettore,
preso nell’apprendistato insonne della vita in società, tenuto in questa
stupidità generale dall’obbligo di parlare, sempre, di rispondere presente,
sempre, perché ci sono domande, perché ci sono richiami, sempre, che non
smettono di ferire il silenzio che dorme dentro di lui, il bel silenzio, il
silenzio sonnambulo. Che gioia per lui distrarsi, aprire un libro, lasciare
andare le sollecitazioni, le compagnie, i legami approssimativi. Purificarsi. Entrare nella lettura. Entrare nella rêverie. Purificarsi.
Leggere, non per sapere, non per imparare, non
per accumulare, per ammassare, per acquisire. No, nulla di tutto ciò. Leggere
piuttosto per dimenticare, per liberarsi, per perdere, per perdersi. Tornare
solo, infinitamente solo. (Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985)
Sovranità
del vuoto: un vuoto di sé che aiuta a riempire non solo la scrittura,
ma soprattutto la vita stessa.
Anche Lucie,
protagonista di Folli i miei passi,
giungerà alla scrittura per poter approdare alla sua vera vita e poi si vedrà : è la regola che si è data. Ma prima di approdare alla scrittura, la
giovane non può non passare dalla
lettura: i due momenti sono profondamente interconnessi.
Dopo le varie fughe e peripezie,
Lucie torna finalmente a casa dai genitori. Lì si chiude in camera sua, dove inizia
a divorare i libri e a nutrirsi di quella letteratura che la aiuta a chiarirsi, a trovare ciò che le serve per vivere. Qui Lucie
è Bobin. E Bobin è Lucie.
Molti
sono infatti i passaggi del libro di Folli i miei
passi che possono essere letti come “autobiografici”.
Ne
riporto solo due (poi ne aggiungerò altri, nei prossimi post)
Lucie si
trova nell’albergo del Jura dove è andata per scrivere il suo libro. Vorrebbe
uscire ma….
Sono peggio di mia madre. Frutta, pile,
giornali e regali – tra due giorni ci sarà il compleanno dei gemelli: avevo dei
motivi per uscire dall’albergo e il vestito si abbinava con quei motivi. Ho
accennato dei passi sulla moquette rossa del corridoio e sono rientrata di
corsa nella mia stanza, ho chiuso la porta a chiave, mi sono distesa sul letto
da dove non mi sono mossa per due giornate intere. Lo chiamo: un morire,
qualche volta mi assale. Vedere, parlare, nulla, niente esiste più. Non sono
tanti due giorni. Avrei veramente potuto trascorrere l’intero mio soggiorno in
albergo così. La scrittura ha di sicuro posto un limite a questo intorpidire,
l’ha tenuto in una dimensione ragionevole. (Folli i miei passi, p. 85)
Lucie è
rientrata a casa dai genitori e si è
chiusa in camera sua a leggere.
“Divoro i libri che ho scelto per la loro
dimensione – non meno di sette o ottocento pagine. Il tempo trascorso a leggere
non è proprio del tempo. Passando da una pagina all’altra, supero frontiere,
entro in case addormentate: è la fuggitiva che è in me a leggere e nessun
poliziotto può ritrovarla prima che lei abbia raggiunto l’ultima frase e levato
il capo su di un cielo azzurro all’inizio del primo capitolo e ora divenuto
buio. Ho ventisette anni ma i lettori non hanno età. Davanti al libro aperto
c’è solo un’infanzia lasciata ai suoi giochi sulla strada, anche dopo le dieci
di sera.
Trascorro tre giorni e tre notti con Anna. Anna
Karenina, 909 pagine. Lei e il giovane Vrònskij al loro primo incontro ballano
sotto gli occhi di Kitty, innamorata di Vrònskij, e io li guardo tutti e tre: i
due amanti nell’inconsapevolezza del loro desiderio e colei che viene distrutta
da quella visione. Attraverso la finestra scostata del palazzo Nikítiny,
mescolata ai suoni dell’orchestra, la voce di mia madre che mi chiede cosa
voglio per cena, insalata di carote o indivia gratinata al forno. Potrei
trascorrere così la mia vita: in quella camera dentro acque dove il sogno e il
reale sono uniti. Mi piacciono così tanto le ombre nei libri. Nessuno può
sciogliermi dal loro abbraccio.” (Folli
i miei passi pp 87-88).
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