mercoledì 12 maggio 2010

CARO TODOROV, MA COSA MI DICI MAI?




alunno/a: “ Proffe… io non ci capisco niente, ma che senso ha tutto questo? A che cosa mi serve? Me lo dica lei! Narratore extradiegetico, focalizzazione interna…ma chissenegrega!!!”

Ricordo ancora il mio impatto con l’Università di Venezia. Mi sono laureata in Lingue e letterature straniere, studiando come prima lingua francese. Sono quindi subito venuta a contatto con l’analisi dei testi letterari di stampo strutturalista. Una doccia fredda! Ciò che conta è la struttura del testo, il suo impianto, come le parole si legano tra loro, lo stile. Aspetto sacrosanto ma che non può divenire il solo e unico parametro di riferimento quando si affronta un testo letterario.
Quando poi ho dovuto sostenere i vari concorsi, stessa musica. Si doveva fare l’analisi del testo letterario e si dovevano sapere, oltre a una serie di altre nozioni, anche quelle legate alla stilistica. Nulla di male in questo. Un docente deve sapere cos’è un asindeto e come si struttura un romanzo. Ma, a mio avviso, non deve perdere di vista la trasmissione e l’amore per la lettura.
Oggi nelle nostre scuole (licei e professionali non fa differenza) i ragazzi vengono “iniziati alla letteratura attraverso la conoscenza degli elementi strutturali del testo e non dalla riflessione delle tematiche di cui ci parla l’autore.
Analizzando l’opera di Perceval di Chrétien de Troyes, gli allievi di un liceo, saranno “interrogati – come scrive Todorov - sul ruolo di quel personaggio, di quell’episodio, di quel certo dettaglio nella ricerca del Graal e non più sul significato stesso di questa ricerca”[1].
I ragazzi vengono introdotti a conoscere da subito la struttura del testo. E non più a riflettere sulla condizione umana, l’individuo e la società, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione. Si chiederà loro: Che cos’è il narratore extradiegetico? Spiegami che cos’è un’analessi? Sapresti dirmi che cos’è la focalizzazione esterna? E quella interna?
Ma che cos’è lo strutturalismo? Oggi questa parola ha assunto diversi significati a seconda dei campi di indagine. Padre dello strutturalismo è De Saussure per il quale: la lingua è un sistema di relazioni ove ciascun elemento si può definire solo grazie alla relazione che ha con gli altri elementi (relazioni di equivalenza e di opposizione). L’insieme delle relazioni crea la struttura. De Saussure, Jackobson, Gerard Genette, Roland Barthes e Todorov sono solo alcuni dei nomi che ricorrono quando si parla di strutturalismo. Todorov ha scritto “Che cos’è lo strutturalismo?”, ha contribuito a diffondere il suo “virus” (perdonatemi l’espressione!). Ma poi nel 2007 se ne è uscito con un saggio “La littèrature en péril” dove ha attaccato duramente questo tipo di approccio.
“Per completare gli studi universitari bisognava comunque discutere, alla fine del quinto anno, una tesi di laurea. Come parlare di letteratura senza doversi piegare alle esigenze dell’ideologia dominante? Scelsi una delle poche vie che permettevano di sfuggire al reclutamento ufficiale. Si trattava di occuparsi di argomenti che non avessero nulla a che vedere con l’ideologia; perciò di tutto quello che nelle opere letterarie riguardasse il testo in quanto tale e le sue forme linguistiche. Non ero il solo a tentare questa soluzione: già negli anni Venti del secolo scorso i formalisti russi avevano aperto la via, seguita poi da altri. All’’università il nostro docente più interessante era, naturalmente, un esperto di versificazione. Così decisi di scrivere la mia tesi confrontando due versioni di un lungo racconto di un autore bulgaro, scritto all’inizio del XX secolo, e mi limitai all’analisi grammaticale delle modifiche che aveva apportato da una versione all’altra: i verbi transitivi sostituivano gli intransitivi , il perfetto diventava più frequente dell’imperfettivo… In tal modo le mie osservazioni sfuggivano a ogni forma di censura! Procedendo così, non correvo il rischio di trasgredire i tabù ideologici del partito.
Non potrò mai sapere come sarebbe andato a finire questo gioco del gatto e del topo, non necessariamente a mio vantaggio. Mi si presentò l’occasione di andare per un anno “in Europa”, come dicevamo allora, vale a dire al di là della “cortina di ferro”. Scelsi Parigi. [2]
E’ il 1963. Con in tasca una lettera di presentazione del preside della Facoltà di Sofia, Todorov riesce a introdursi nell’ambiente accademico francese. Come abbiamo appena letto, voleva studiare lo stile, il linguaggio e le teorie letterarie in generale. Ma a quell’epoca si studiava la letteratura in altri modi: in relazione ai secoli e alle nazioni. La Sorbona non offriva corsi che presentavano questo nuovo tipo di approccio. Todorov fu quindi dirottato da Gerard Genette che lo presentò a sua volta a Roland Barthes (semiologo francese). Da qui inizia la sua carriera nell’ambiente culturale e accademico francese. Collabora con l’università, traduce e fa conoscere i formalisti russi. Scrive la Teoria della letteratura. Ma una volta inseritosi nella società francese, quindi a partire da metà degli anni settanta, smette di occuparsi solo di Teoria della Letteratura per ampliare i suoi orizzonti. Si interessa di antropologia, psicologia della Conquista dell’America etc…
Sempre più lontano dall’ideologia comunista, apprezza la libertà di una cultura non soggetta a dogmi ideologici. Non c’è più bisogno di approfondire l’opera nei suoi aspetti strutturali, amplia i suoi orizzonti di ricerca letteraria.
Quando la figlia ha iniziato a ad andare al liceo, Todorov ha potuto toccare con mano i frutti di questo tipo di approccio al testo letterario. Un approccio che prepara lo studente francese agli esami di maturità a discutere se Il processo rientri nel registro comico o in quello dell’assurdo, piuttosto che analizzare quale posto occupi Kafka nel pensiero europeo.” [3]
Non ho mai trovato una citazione di Todorov nei libri di Christian Bobin ma azzardo, comunque. a metterli in relazione. Lo faccio perché entrambi - Todorov un grande saggista e studioso, Bobin un grande scrittore e appassionato lettore - mi hanno rallegrato il cuore e irrobustita nel mio rapporto con i libri e la letteratura, in generale. L’ambiente letterario mi ha sempre messa un po’ in soggezione. Ma alcuni libri mi hanno irritato. Soprattutto quella critica letteraria che mi veniva proposta a Venezia agli inizi degli anni 80. La trovavo assurda, vuota. Non la capivo. Confesso che mi sentivo stupida - e la mia soggezione mista a irritazione aumentava. Un approccio al testo che anziché invogliarmi a leggere, mi allontanava. Mi chiedevo, ma allora perché i libri?
Ci sono mille ragioni. Ne propongo una di Todorov, appunto:
“Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere. Non le chiedo più, come negli anni dell’adolescenza, di risparmiarmi le ferite che potevo subire durante gli incontri con persone reali; piuttosto che rimuovere le esperienze vissute, mi fa scoprire mondi che si pongono in continuità con esse e mi permette di comprenderle meglio. Non credo di essere l’unico a pensarla così. Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e di organizzarlo. Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. Ci procura sensazioni insostituibili, tali per cui il mondo reale diventa più ricco di significato e più bello. Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura o permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano. [4]
Todorov dà un grande potere alla letteratura, non quel potere narcisistico autoreferenziale che diventa – di fatto - una forma di idolatria, ma un potere “vitale”.
“La letteratura può molto. Po’ tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo. La letteratura ha un ruolo vitale da giocare, ma può ricoprirlo solo se viene presa nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo e che oggi è stata messa da parte, mentre sta trionfando una concezione assurdamente ristretta. Il lettore comune, continuando a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita, ha ragione rispetto a insegnanti, critici e scrittori quando gli dicono che la letteratura parla solo di sé, o che insegna solo a disperare. Se non avesse ragione, la lettura sarebbe condannata a scomparire nel giro di breve tempo. [5]
Todorov si riferisce a quella letteratura autoreferenziale, che parla di se stessa, solipsistica e narcisistica. In altre parole, quella letteratura che diventa astratta, difficile, per pochi. Di questo tipo di letteratura ci parla Christian Bobin nel suo Autoritratto:
“C’è una letteratura sontuosa, sovraccarica d’oro e di autocompiacimento. Essa considera la scrittura superiore alla vita. Non conosce niente di più nobile di una bella frase. Ha senza dubbio generato dei capolavori, e mi lascia tuttavia indifferente. E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame. Essa è antica quanto la prima. Non implica meno lavoro, ma non cerca la stessa cosa. O piuttosto: c’è una scrittura che cerca, non trova per caso che per grazia, e continua a cercare. E c’è una scrittura che si rigira davanti allo specchio, una sposa che prova i suo abito. Questa non cerca niente. Non ha niente da cercare, avendo trovato da sempre chi sposare: se stessa. La sua bellezza non m’ impressiona. Non ammiro un’opera perché mi si dice di ammirarla, ma per la forza dell’amore che vibra in essa. Ciò che intendo per amore non ha nulla di sentimentale. Il solo amore reale è di una durezza incredibile. Il poeta Henri Pichette dice che non si dovrebbe mai scrivere una sola frase che non si possa sussurrare all’orecchio di un agonizzante. Ebbene, è esattamente questo. La scrittura che amo è esattamente questa. E noi siamo tutti degli agonizzanti, non è vero? Dove mi conducono tali riflessioni? A niente, a niente. Non è grave: un piccolo accesso febbrile. Quello che ho detto lo poso dire in un altro modo: c’è una parola dei principi e una parola dei mendicanti. Quella dei principi è come una camera in cui non c’è nulla e in cui al tempo stesso tutto è pieno, riempito sino all’orlo. E’ una parola così sorda da bastare a se stessa. Quella dei mendicanti, al contrario, racchiude in sé abbastanza vuoto – spazio, silenzio – perché il primo venuto vi si possa intrufolare e scoprire la felicità. E’ una parola che lascia in sé un posto per l’altro. La conoscete la vecchia tradizione di disporre sulla tavola un piatto in più per un ospite inatteso, straniero. Sono queste le parole che amo. E’ a queste tavole che mangio meglio.[6]
Anche Bobin parla e critica questo tipo di letteratura. Non si sofferma sullo strutturalismo, no! Cita gli autori che gli piacciono e ciò che poco sopporta dell’ambiente letterario in genere che vuole far passare una persona colta per persona intelligente. Sentiamo invece come Bobin mette in relazione l’intelligenza alla lettura: ci parla addirittura della “cultura come malattia dell’accumulo”, ma sentiamo da lui:
“Una persona può essere riconosciuta dalla natura delle parole che mangia. Ho sempre visto le persone provenienti da ambienti culturali, con qualche felice eccezione, come persone che non si nutrivano che di nomi propri, quando questi nomi avevano raggiunto una certa celebrità. La cultura e l’intelligenza appartengono a due ordini differenti. Si può avere l’una e essere sprovvisti dell’altra. Si può essere acculturati e di una stupidità spaventosa. L’intelligenza viene dall’anima ed è concessa a tutti per il solo fatto di nascere, anche se tutti non ne fanno uso, non osano far uso della loro capacità personale alla solitudine, della intensità di solitudine della propria anima. L’intelligenza non è nient’altro: la maniera personale di stare di fronte a sé e di fronte al mondo, la maniera di ciascuno di lasciarsi trasformare da ciò che gli viene incontro e di cercare il proprio bene, il suo proprio bene, in ciò che l’attraversa e talvolta l’ uccide. Leggere, ad esempio, è una delle manifestazioni più semplici dell’intelligenza , ciò non ha niente a che vedere , assolutamente nulla con la cultura. Leggere è fare prova di sé nella parola di un altro, fare arrivare dell’inchiostro via sangue sino al fondo dell’anima così che essa ne sia impregnata, mangiare ciò che si legge, trasformarlo in sé e trasformarsi in esso. La lettura che non sconvolge la vita non è niente, non ha avuto luogo, non è nemmeno tempo perduto,è meno di niente. Ogni vita che non sia sconvolta dalla vita e che non vada, sola, senza il conforto di alcuna lezione , a trovare il proprio bene in questo sconvolgimento, è morta. Sta alla persona sola decidere ciò che è il bene d’una persona, facendo leva unicamente sulla sufficiente luce della propria solitudine, il più lontano possibile dalle convenzioni intellettuali e morali. L’intelligenza non la si impara – si esercita. La cultura invece sì, si impara – viene fuori a poco a poco dall’accumularsi di lunghi studi, si aggiunge a noi con il tempo e ad opera di altri. Se uno vive soltanto nella cultura, molto presto diventa analfabeta: c’è un tempo, negli ambienti culturali, in cui le opere non vengono più meditate, amate, mangiate, un tempo in cui non si mangiano che i nomi degli autori, il loro nome soltanto, per farsene vanto o per imbrattarlo. La cultura quando viene a tal punto privata d’intelligenza, diviene una malattia dell’accumulo, una cosa inconsumabile che si sa solo consumare.[7]

[1] Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, 2008 p. 22
[2] Todorov, La letteratura in perocolo pp. 10-11
[3] Todorov, la letteratura in pericolo, op. cit., p.22
[4] Todorov, La letteratura in pericolo, op. cit., pp. 10-11
[5] Todorov , La letteratura in pericolo, pp 65-66
[6] C. Bobin, Autoritratto, San Paolo, p. 76
[7] C. Bobin, Consumazione, Servitium, pp. 75-77

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