mercoledì 9 marzo 2016

L'UOMO DEL DISASTRO. L'angelo, l'infanzia e Antonin Artaud di Christian Bobin




Segnalo l'uscita di un altro libro di Christian Bobin, L'uomo del disastro. L'angelo, l'infanzia e Antonin Artaud. (AnimaMundi Edizioni 2016). L'edizione italiana presenta il testo francese a fronte con la mia traduzione.
Il libro fa parte della prima produzione bobiniana; viene pubblicato in Francia dalle Edition Fata Morgana nel 1986, quando Christian Bobin ha 35 anni; non si è ancora affermato sul panorama letterario francese, ma già esprime, in queste pagine, la sua poetica che ritroveremo disseminata in tutti i suoi libri.
Si tratta di una lunga lettera rivolta al grande scrittore drammaturgo Antonin Artaud, morto nel 1948; un uomo dalla vita tormentata trascorsa dentro e fuori gli ospedali psichiatrici. 
Bobin prova a dare pace alle inquietudini di Artaud e lo fa interrogando le ragioni della scrittura. Tra le pagine, vediamo così scorrere scene della vita di Artaud accanto quelle della vita di  Bobin. L'infanzia sofferta del piccolo Antonin si accosta a quella della piccola Hélène che l'autore/Bobin va a prendere alla scuola materna. 
Vita e scrittura. Irrimediabilmente unite. 
Ma anche la lettura e la scrittura lo sono. 
In questo libro, il lettore Bobin interpella lo scrittore Artaud. E lo fa scrivendo a suo volta un libro che non è altro che - come scrive egli stesso - "la storia di un uomo che ha perduto la propria ombra. E' la storia delle frasi che scrive in continuazione". 
Ma questo libro è anche una domanda sulle ragioni profonde dello scrivere. Una cerca inesauribile che Christian Bobin non smetterà mai di compiere. 


Cosa voglia dire scrivere, lo ignoro. Se ne è parlato troppo, troppe cose intelligenti e senza luce sono state dette. Leggere, è lo stesso mistero. Ci sono i tuoi libri, racchiusi nella loro solitudine. una foresta di parole che un temporale ha piegato e i cui tuoni rim- bombano ancora nella testa del lettore. Ho impiegato molto tempo per leggerti. Impiego tempo per tutto, ho bisogno di molto tempo, di molte vite nella mia vita. Cosa voglia dire leggere, lo so davvero solo da due anni, soltanto da quando ho aperto queste pagine, ho profanato il tuo sepolcro di inchiostro e di piombo, ho ascoltato questa prima frase, oltre i muri, oltre le parole:

Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, model- lato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall’inferno.

Questa lettera cammina verso di te, verso un morto. Mi piacerebbe andasse incontro anche al morto ideale, presente perché assente: il lettore. A volte, in questo modo, troviamo un libro o è forse il libro a scoprire noi. A volte sopraggiunge l’amicizia di una persona o di un testo: un vincolo senza appartenenze. È nulla ed è molto, ma è il solo aiuto che mai potremo avere: il sostegno di qualche parola che ci riporta al centro di noi stessi, nei quartieri alti del sangue, là dove più nulla si può risolvere, là dove brucia il nero minerale grezzo dello spirito, intoccabile. (L'uomo del disastro, p. 67)




RESUSCITARE di Christian Bobin (nuova edizione)



Per Anima Mundi Edizioni ho curato, insieme a Giuseppe Conoci, un altro libro di Christian Bobin Resuscitare,  pubblicato nel 2003 dalle edizioni Gribaudi (traduzione di Laura Majocchi) e ora riproposto da AnimaMundi che sta compiendo il grande sforzo editoriale di far conoscere Bobin in Italia.
Ancora il 2 novembre 2007, ho pubblicato nel mio blog una recensione al libro.
Ecco il link:







lunedì 9 novembre 2015

SOVRANITÀ DEL VUOTO di Christian Bobin





“È da questa solitudine che ti scrivo, da questo silenzio che misura la nostra uguaglianza come il nostro essere lontani. Il dato inaggirabile della solitudine. La mia. La tua. Solitudine sempre più grande, illimitata”. Così scrive Christian Bobin in Sovranità del vuoto (AnimaMundi Edizioni 2014):  una lunga lettera indirizzata a una persona concreta e reale ma senza nome di cui l’Autore ha estrema necessità per scrivere. Il bisogno profondo dell’altro. La voglia di scrivere, di camminare, di leggere. “Sono uscito. Sono andato a passeggiare, ho visto delle persone. Mi è venuta l’idea di scriverti una lettera, questa lettera, l’idea di una lettera infinita, senza capo né coda. Interrotta, spesso, come è interrotta la lettura: come viene revocato lo stato del lettore”. Il lettore cui chi scrive deve assoluto rispetto.  Per Christian Bobin, la lettura e la scrittura sono due attività profondamente unite sulle quali egli non ha mai smesso di meditare: “Il vero scrittore è colui che […] scosta dalla tavola le cose che mi impedivano di vedere”. Ecco ciò che dovrebbe fare un libro: aiutare a vivere. 
Sovranità del vuoto è, per questa ragione, un livre de chevet, di meditazione che apre il lettore alla vita e al mondo, con Valéry, Rimbaud, Proust, Maurice Scève, Schubert in sottofondo. Una profonda e continua contemplazione della vita per compensare la disperazione e lo sgomento del vivere, dove la citazione letteraria non è erudizione ma un puro esercizio di attenzione.
La lettera è inframmezzata da tre pause, dove la pagina bianca di ogni capitoletto, sembra voler dare un respiro più ampio alla riflessione e alla vita stessa; inizia in un pomeriggio di inverno, scandisce le giornate, i pensieri di chi scrive fino al sopraggiungere della  primavera, annunciata dalle grida dei bambini e dalla luce che si attarda sempre più a lasciare il giorno. Lo stesso titolo del libro accompagna il lettore dentro una dimensione meditativa: silenzio e vuoto divengono necessari per incontrare se stessi e gli altri. Con Bobin, scorgiamo l’infanzia nel volto della piccola Hélène che ci svela il miracolo delle stagioni sul suo viso, nello sguardo attento del bambino divorato dalla lettura; con lui ascoltiamo le note di Schubert e impariamo ad accostarci a Dio mutando la nostra percezione perché “attraverso la musica Dio penetra l’aria”. Bobin ci parla della vita, dell’infanzia e di Dio facendo allargare lo sguardo :“Dio non ha casa, non ne ha bisogno e d’altra parte quando vede una casa, apre le porte, squarcia i muri, brucia le finestre e tutto entra con lui, il giorno, la notte, il rosso, il nero, tutto e in qualunque ordine, e allora, e allora soltanto, le case divengono sopportabili, allora soltanto possono essere abitate, poiché in esse c’è tutto, il sole, la luna, la vita estremamente folle, la grandissima dolcezza della follia, gli occhi pervinca della follia”. 
Il volume è corredato da una corrispondenza tra le poetesse Mariangela Gualtieri e Chandra Livia Candiani che introduce “in punta di piedi” il lettore alla scrittura poetica di Christian Bobin ed è arricchito dal testo francese a fronte che offre la possibilità di gustare la prosa poetica di Bobin nella lingua francese. 
Sovranità del vuoto appartiene alla primissima produzione letteraria dell’autore, viene pubblicato in Francia nel 1985 da una piccola casa editrice quando lo scrittore ancora trentenne. Da allora, Christian Bobin (classe 1951) non ha mai smesso di scrivere e di pubblicare: la grande e prestigiosa casa editrice Gallimard di Parigi l’ha ormai da tempo accolto tra i suoi scrittori di punta.  In Italia, lo si trova disseminato in diverse case editrici, tra cui  Anima Mundi Edizioni che sta compiendo lo sforzo enorme di diffonderlo in Italia. 

SOVRANITÀ DEL VUOTO di Christian Bobin (AnimaMundi Edizioni Otranto (Le) 2014), 12 euro (traduzione di Maddalena Cavalleri)




Questa mia recensione  è stata pubblicata sul settimanale Verona Fedele il 27 settembre 2015

Link AnimaMundi Edizioni: http://www.suonidalmondo.com/shop/?filter_manufacturers=267









sabato 12 settembre 2015

Il negazionismo. Storia di una menzogna di Claudio Vercelli (Editori Laterza, Roma-Bari 2013)






Claudio Vercelli, ricercatore di Storia contemporanea, presso l’Istituto di studi storici "Gaetano Salvemini" di Torino, nel suo libro Il negazionismo. Storia di una menzogna (Editori Laterza, Roma-Bari 2013), ci propone una sorta di paradosso: prova a ricostruire la storia dei negatori della storia. Lo fa con grande abilità e chiarezza, usando un vocabolario accessibile a tutti: le pagine scorrono veloci e anche il lettore più profano non trova inciampi nella lettura. Oggi il negazionismo ha già una sua storia con diversi autori e varie correnti di pensiero che hanno una ricaduta mediatica sempre più vasta, grazie soprattutto alla diffusione in rete. Ma che cos’è, in sintesi, il negazionismo? Secondo Vercelli, il negazionismo olocaustico non è altro che “un insieme di affermazioni nelle quali si contesta o si nega la realtà del genocidio sistematico degli ebrei perpetrato dai nazisti, e dai loro complici, nel corso della Seconda guerra mondiale”. Nel suo libro, Vercelli dapprima delinea il metodo negazionista e la sua struttura logica, poi presenta lo sviluppo del negazionismo e i suoi prodromi nei diversi Paesi: dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Italia ai Paesi arabi e mussulmani, facendo via via i distinguo tra negazionismo, revisionismo, riduzionismo e sterminazionismo, termini che dipendono dal punto di vista dell’autore. A questo proposito, è  istruttivo cogliere le differenze che ci possono essere tra le stesse voci negazioniste che si sono succedute nel corso dei decenni a seconda dei Paesi di riferimento. Nonostante le diverse sfumature e approcci che caratterizzano le ormai tante voci negazioniste, sono sostanzialmente tre i punti della  - per loro – “versione ufficiale della storia” ad essere  negati: 1) l’esistenza delle camere e gas e forni crematori in quanto impossibili “tecnicamente”; 2) il numero di 6 milioni di morti (quei “pochi”che vi sarebbero stati sarebbero morti per malattia e deperimento; 3) mancanza di documenti scritti che possano provare le intenzioni dello sterminio degli Ebrei e la sua progettualità da parte dei tedeschi. Per i negazionisti, è stata la propaganda dei vincitori  - per alcuni coadiuvata dagli stessi ebrei sionisti - ad aver messo in giro questa "versione" e costretto gli stessi testimoni di Norimberga a supportarla. Persino il diario del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss (pubblicato nel 1960 da Einaudi col titolo Comandante ad Auschwitz e oggi ancora diffuso nelle librerie) non è attendibile per i negazionisti, in quanto proveniente da un ufficiale vinto processato a Norimberga. Le stesse testimonianze dei sopravvissuti sono per loro inaffidabili, non solo perché interessate, ma anche perché contraddittorie. E il Diario di Anna Frank? Un altro falso clamoroso! Uno dei primi negazionisti, Paul Rassinier, è invece il loro "vero" testimone, perché è stato “deportato per motivi politici a Buchenwald e Dora”: lui sa, lui ha veramente visto! Peccato, però, che egli “non entrò mai a contatto con i campi di sterminio operanti nella Polonia occupata” - particolare che, ovviamente, non viene messo in evidenza dai negazionisti. Perché questa è la loro tecnica: decontestualizzare, concentrarsi su un particolare, evidenziare delle contraddizioni, omettere dati che confuterebbero la “dimostrazione” e continuare in modo quasi ossessivo a ripetere le stesse argomentazioni, senza mai avere una visione di insieme. In questo modo ecco per i negazionisti svelata "la grande menzogna sionista" che ha voluto creare il "mito" dell’Olocausto a difesa dello Stato di Israele. E si arriva così al vero nervo scoperto: la legittimazione dello Stato di Israele. Scrive Vercelli: “Un ultimo passaggio, oggi senz’altro il più importante, è quello che riconduce il negazionismo alla riviviscenza dell’antisemitismo. Il nodo è la presenza dello Stato di Israele che ha concorso ad alimentare, ma anche a modificare, l’impianto degli stereotipi antigiudaici. L’attribuzione ad esso della colpa di avere generato un falso clamoroso, lo sterminio, a proprio beneficio, serve a decolpevolizzare le ideologie antisemite”. Proprio perché la Shoah sta ormai diventando per molti giovani, e non solo, una "leggenda metropolitana", è dovere di tutti non abbassare mai la guardia. Claudio Vercelli ci offre, al riguardo, un strumento utilissimo.

Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 26 gennaio 2014.

CRONACHE DI GERUSALEMME di Guy Delisle (Rizzoli 2013)







Cronache di Gerusalemme (Rizzoli Lizard 2013) è il racconto di un anno trascorso a Gerusalemme Est, iniziato nell’agosto 2008 e terminato nel luglio 2009, scritto e disegnato dal canadese Guy Delisle. Classe 1966, Delisle è un celebre e affermato fumettista del Graphic Journalism: il reportage a fumetti, con la cui formula ha già pubblicato Shenzhen (2001), Pyongyang (2003) e Cronache Birmane (2007), editi in Italia da Fusi Orari. Dopo l’Asia, Delisle è approdato a Gerusalemme Est dove, per accompagnare la moglie Nadège, impegnata in una missione umanitaria di Medecins Sans Frontières (MSF) a Gaza, ha trascorso un intero anno nel quartiere arabo a Bet Hanina. Da questa prospettiva, racconta la “sua” Gerusalemme: città che non conosce e che scopre giorno dopo giorno, diventando testimone, quasi per caso, del conflitto mediorientale per eccellenza. E, quasi per caso, si troverà ad essere spettatore indiretto dell’operazione israeliana denominata Piombo Fuso (27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009). Senza la pretesa di offrire un punto di vista assoluto, Delisle ci propone una narrazione autobiografica che mette insieme un po’ del racconto di viaggio e della cronaca sociale ma che non può non diventare – suo malgrado -  un punto di vista anche politico. Tuttavia il suo sguardo è quello del turista “privilegiato”, che ha tutto il tempo, figli piccoli permettendo, di andarsene in giro a visitare la città. A Gerusalemme, le tracce del conflitto sono ovunque e qualsiasi aspetto o situazione può offrire una lettura cosiddetta “di parte”. Eppure, il suo punto di vista di laico, ateo non-pellegrino, non-attivista, lo ha aiutato a mettere sulla carta un reportage a fumetti asciutto, chiaro e scorrevole che via via chiarisce (o interpreta?) i termini e le questioni del conflitto. In veste di viaggiatore, chiede, annota, disegna ciò che vede e osserva riuscendo alla fine a raccontare una complessità di vita e di luoghi con un linguaggio accessibile a tutti. Gli stessi colori scelti per il fumetto, i toni di grigio, i beige, i rosati ci restituiscono non solo la pietra chiara di Gerusalemme, ma anche la durezza e insieme il fascino gerosolimitano. Con lui, vediamo la desolazione di Gerusalemme Est, in netto contrasto con Gerusalemme Ovest, sempre più presente anche nella parte araba. Ma già nel volo verso Tel Aviv, Delisle legge i segni e le ferite che porta in sé Gerusalemme: la figlioletta è presa in braccio da un sopravvissuto ai campi di sterminio - il numero impresso nella pelle è chiaro e non lascia adito a dubbi. Lo stesso quartiere arabo di Bet Hanina, a Gerusalemme Est, dove la famiglia prende casa, è dentro la ferita della storia ancora aperta. Delisle lo nota grazie a un’operatrice di MSF che gli spiega che si tratta di un villaggio arabo che è stato annesso nel ‘67 in seguito alla guerra dei 6 giorni a nord della città vecchia: “per il governo israeliano siamo in Israele, questo è certo, ma per la comunità internazionale che non riconosce la spartizione fatta nel ‘67, ci troviamo in Cisgiordania, quella che dovrebbe diventare la Palestina (se mai accadrà)”. La stesso discorso vale per Gerusalemme capitale dello Stato di Israele: “Per la comunità internazionale è Tel Aviv, dove ci sono tutte le ambasciate. Ma per Israele è Gerusalemme. La Knesset (il parlamento), è qui non a Tel Aviv.” Il ritmo del conflitto palese o nascosto scorre lungo tutta la narrazione. Dai luoghi sacri e prosaici che visita, dalle persone che incontra, dalle situazioni incandescenti che si offrono allo spettatore straniero, come quando giunge, accompagnato da due anziane signore, a Qualandiya: le donne lavorano per l’organizzazione israeliana Machom Watch, nata per sorvegliare la situazione creata dal muro di separazione. Eppure i due popoli sembrano destinati a convivere, al di là delle pretese o dei desideri giusti o sbagliati di ciascuno. Da uno dei tanti tg israeliani, Delisle annota:Al tg della sera il primo ministro dimissionario israeliano Ehud Olmert dichiara, qualche giorno prima del termine del proprio incarico: “L’idea della grande Israele non esiste più, e chiunque vi creda ancora è un illuso. Ormai qui vivono tanti popoli diversi!”.

Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 1 giugno 2014. 

GERUSALEMME SENZA DIO di Paola Caridi (Feltrinelli 2013)



Paola Caridi
Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele 
Feltrinelli, 2013 pagg. 202 




"Mio figlio, a tredici anni, mi ha detto: Tu sai meglio di me la storia di Gerusalemme, ma io l'ho vissuta di più, sulla mia pelle" . Così termina il libro di Paola Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli, Milano 2013), lontanissimo da cliché e stereotipi. Classe 1961, Paola Caridi ha vissuto per dieci anni a Gerusalemme dove ha lavorato come giornalista, occupandosi di Medio Oriente, in particolare di islam politico in Palestina ed Egitto. Ha pubblicato, sempre presso Feltrinelli, Arabi invisibili (2007), Hamas. Che cos’è e cosa conosciamo (2010); continua a curare il blog Invisiblearabs nato dal suo desiderio di “dare voce e corpo a un pezzo di mondo che voce ne ha poca”. Proprio perché ha donato a Gerusalemme dieci anni della sua vita, Paola Caridi sa che si tratta di materiale da maneggiare con cura: impossibile, dunque, scrivere un libro su Gerusalemme; possibile scrivere, invece, un libro sulla propria Gerusalemme. Uno sguardo che le viene da quella città che ha conosciuto per averci camminato, lavorato, studiato, una particolare prospettiva la sua, che ha maturato proprio da quel pezzo di vita vissuto con la sua famiglia: perché un figlio piccolo impone uno sguardo di madre sulla città e obbliga a un’esperienza diretta e concreta dei mille aspetti del quotidiano, spesso estranei allo studioso chino sui libri o all’attivista totalmente immerso nella propria missione. Un titolo che può sembrare provocatorio per la città tre volte Santa. Eppure è qualcosa di intimo e di spirituale che le è rimasto dentro, una volta partita da Gerusalemme: il ritmo dei tempi del giorno scandito dai “suoni di cui la città è piena”; la nostalgia di quel ritmo antico più consono a una natura “che abbiamo violentato con gli anni e coi secoli”.
Lo sguardo dell’autrice segue le riflessioni del semiologo Roland Barthes: se ogni città è un discorso con i suoi significati e significanti, di forme e di senso, per capirlo è necessario destrutturarlo, decodificarlo, e l’architettura urbana ben si offre a questo tipo di lettura. Da questo approccio, prendono inizio i suoi primi passi per raccontare Gerusalemme. Passi che ripercorrono la città partendo dal quartiere di Musrara, primo quartiere misto sorto fuori dalle mura della città vecchia durante il mandato britannico, dove la casa del vecchio arabo cristiano che l’accompagna è stata trasformata, durante la riqualificazione urbanistica degli anni settanta (avvenuta a seguito delle proteste scatenate dagli ebrei sefarditi costretti a vivere in una Musrara degradata), in una mikveh (bagno rituale). Quella casa trasformata è la strada della memoria per l’anziano esule costretto fuggire a Beirut nel ‘48: uno spartiacque storico - la nascita dello Stato di Israele o la Nakba, in lingua araba (la “Catastrofe”): come sempre, in questa terra ferita, i nomi dipendono dall’angolazione. Ora nel quartiere non vi è più nulla di arabo, resta solo la scuola salesiana “simulacro della presenza cristiana, riconquistata dopo una lunga battaglia legale”. Eppure il cipresso, tanto caro all’anziano accompagnatore, è ancora lì, vivido nella sua memoria.
Ma a Gerusalemme i segni da leggere sono sparsi ovunque: tracce di una presenza araba dove possibile rimossa o segni di una Gerusalemme israeliana moderna che si continua a costruire e a costruirsi, creando un arcipelago di enclave e di isole. Una città dove anche l’archeologia è “pietra” politica, perché a Gerusalemme nessuna pietra può rimanere estranea al conflitto. Ogni pietra è un segno da decifrare in questa Gerusalemme senza dio, eppure “quella Via Dolorosa così prosaica, […]  è quanto di più simile alla descrizione del Vangelo si possa rintracciare nella Gerusalemme post-moderna. È il segno della solitudine e della passione del Cristo in una dimensione quotidiana della città: così come ai tempi del Gesù storico, il Cristo era stato egli stesso condotto nella sua Via Dolorosa tra i banchi del mercato, esposto al pubblico ludibrio, proprio nei luoghi in cui il maggior numero di persone potesse assistere alla sua umiliazione”.


Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 6 luglio 2014.